Ultimamente mi “girano le ruote” come poche volte mi è capitato. È un periodo un po’ delicato dal punto di vista della salute. Mi guardo intorno e vedo situazioni più complicate della mia, non mi lamento più di tanto, quindi, perché so che potrebbe andare peggio di così. Tuttavia penso sia umano provare un certo “affaticamento” dopo una vita di limiti, trovando sempre la forza necessaria per accettarli e superarli.
Tenere testa a una malattia degenerativa non è una passeggiata, c’è sempre un imprevisto dietro l’angolo che ti obbliga a resettare la quotidianità, anche nelle piccole cose, un peggioramento che ti impedisce per sempre di fare un’azione che fino al giorno prima era normale, oppure puoi farla ancora, ma con il doppio della fatica, e allora ti rendi conto che quelle piccole cose tanto piccole non sono. Questo non significa arrendersi, è soltanto stanchezza, e solo chi l’ha provata sulla propria pelle può comprenderla fino in fondo.
L’“insofferenza” nasce da una domanda che tutti facciamo per abitudine: «Come va?». È una domanda sottovalutata che dovremmo imparare a porre quando siamo realmente interessati alla risposta.
Se mi domandano come sto, rispondo in maniera sincera, valutando quali dettagli raccontare a seconda della confidenza che ho con la persona che mi sta di fronte e a seconda della voglia che ho, in quel preciso momento, di fare l’elenco di ciò che va e non va, di spiegare i particolari della “cartella clinica”. Ciò che scelgo di dire è comunque la verità, non ci sono bugie, tutt’al più omissioni, anche se a volte mi vien da pensare che forse sarebbe meglio tagliar corto con una balla tutta intera, dire che è tutto OK e tirare dritto per la mia strada. Sarebbe una bugia bianca a fin di bene – il mio bene – mi risparmierei la rabbia di essere interrotta per sentirmi “vomitare” addosso i problemi altrui, posti come esempio di reale disagio, per farmi capire che quella “fortunata” sono io e che la sfiga colpisce sempre gli altri.
Con l’andar del tempo mi danno sempre più fastidio certi “paragoni” che tanti fanno tra i loro stress quotidiani (lavoro, scuola, parenti serpenti, oddio non so cosa mettermi, porca miseria piove e non posso prendere il sole e via discorrendo) e i miei disagi che inevitabilmente aumentano. Intendiamoci, non mi dà fastidio che gli altri mi raccontino le loro vicissitudini, fa parte dell’amicizia e del confronto, sono convinta che le difficoltà non siano una prerogativa dei disabili, ma vorrei anche essere ascoltata, senza sentir valutare l’entità dei miei problemi da chi non li vive.
Siccome mi è venuto il dubbio di essere diventata troppo acida, mi sono confrontata sull’argomento con alcuni amici con disabilità e i loro familiari. Ho scoperto che le ruote girano a parecchi per gli stessi motivi che ultimamente le fanno girare a me. La comprensione è una merce rarissima, quanto la capacità di mettersi nei panni dell’altro e, se non ci si riesce, altra merce rara è l’umiltà di ammettere che alcune situazioni si possono solo immaginare se non si sperimentano in prima persona.
Dopotutto chi mi conosce bene sa che non parlo soltanto delle mie sfortune, anzi, queste occupano una minima parte nei miei discorsi. I commenti che da sempre mi accompagnano oscillano da «come fai ad essere sempre così sorridente con tutti i problemi che hai», «la disabilità ti ha insegnato tanto, sei una bella persona» (preferirei essere un po’ più ignorante della vita e un po’ meno disabile), per arrivare ad uno sbrigativo «tanto tu ce la fai perché sei forte», come se a me fosse lecito capitasse di tutto perché tanto cado sempre in piedi (metaforicamente parlando…).
Da me e da altri ci si aspetta che sopportiamo senza lamentele, al primo accenno di stanchezza diventiamo “pesanti”, poco di compagnia; se poi spieghiamo che i problemi veri della vita non sono certe magagne giornaliere (quelle appartengono alla categoria “scocciature”), alcuni si sentono offesi, mettono il broncio e si allontanano.
Tirare fuori risorse ed energie non sempre è una scelta, si fa perché si deve, e non è mai facile.
Non esistono “eroi”, per questo mi danno fastidio quelli che dopo un incidente vanno in TV a decantare quant’è fantastica la loro nuova esistenza in sedia a rotelle o con un altro tipo di disabilità, che quasi quasi è più bella di prima e benedetto sia l’accidente che gli è toccato. Non ci credo, credo fermamente che abbiano riprogrammato le loro priorità, ma non credo che non vorrebbero tornare indietro.
Alla fine a qualcosa bisogna pur aggrapparsi, perciò se uno per ripartire ha bisogno di raccontare urbi et orbi che “tanto meglio così”, ben venga, però la realtà vera è un’altra, e mi disturba che tanti finiscano per pensare che è tutto molto semplice, perfino bello, in virtù di certe interviste-coraggio.
Gli antichi pellerossa dicevano: «Prima di giudicare la vita di una persona, cammina per tre lune nei suoi mocassini!». Ora, non porto mocassini perché mi fanno male i piedi, e poi non sono adatti al mio stile. Però se qualcuno vuole sedere in carrozza e starci per tre lune o anche più, con tutti gli annessi e connessi, è il benvenuto. Mi rendo conto di risultare per qualcuno antipatica e saccente, ma ad occhio e croce dopo tre lune parecchi rimpiangeranno i guai che avevano prima.