Abbiamo letto sul sito de «L’Espresso» l’articolo intitolato Per aiutare il figlio affetto da autismo la mamma torna sui banchi di scuola, a firma di Anna Dazzan, pubblicato ieri, 16 luglio.
Vi si racconta la vicenda di Alessio, un quattordicenne con autismo, che nel 2014 è stato ammesso alle scuole superiori, ma avendo qualche difficoltà a stare in classe e rischiando di essere rifiutato dall’Istituto Tecnico Economico Paolino d’Aquileia di Cividale del Friuli (Udine), per cinque anni ha dovuto frequentare la scuola accompagnato dalla madre, Maria (entrambi, al termine del percorso, hanno conseguito il diploma di tecnico agrario).
Ecco, non è tanto la vicenda a colpire, purtroppo situazioni simili accadono con una certa frequenza, quanto il modo in cui essa è stata narrata. Ci sembra che le diverse situazioni non siano state nominate in modo appropriato. Ma andiamo con ordine.
Correttamente Dazzan descrive il tipo di difficoltà incontrate da Alessio nello stare in classe. Alessio, «in situazioni per lui disagevoli, reagisce con sputi, grida e gesti che agli occhi di chi gli sta intorno paiono incontrollati e incontrollabili, come ribaltare banchi e spaccare occhiali. Tanti occhiali, almeno quindici in poco tempo». Difficoltà che, a due settimane dall’inizio delle lezioni, hanno indotto il preside dell’Istituto Scolastico a convocare i genitori del ragazzo, per comunicare loro che «qui Alessio non può rimanere», e proporre: «Se volete che Alessio frequenti la mia scuola, al suo fianco ci deve essere qualcuno che lo aiuti e ci aiuti».
In merito alla prima affermazione, viene spiegato che «il sistema scuola pare non essere in grado di includere elementi esterni che ne scombinino il (seppur precario) equilibrio e cerca di rigettare la causa di questo imprevisto caos», mentre la proposta è intesa come una semplice richiesta d’aiuto («Il preside chiede aiuto alla madre»).
Veniamo al dunque. Se consideriamo che in Italia le prime norme che stabiliscono che anche per le persone con disabilità l’istruzione dell’obbligo deve essere effettuata nelle classi normali della scuola pubblica risalgono agli Anni Settanta (Legge 118/71 e Legge 517/77, norme poi integrate e completate con la Legge 104/92), possiamo convenire che non dovrebbe più accadere che una scuola si trovi impreparata davanti ad uno/a studente con disabilità. Se ciò accade, la scuola ha l’obbligo di predisporre – nel minor tempo possibile – le risorse e i servizi per garantire il diritto allo studio dello/a studente in questione. Se non lo fa sta violando un diritto dello/a studente.
Ecco, nell’articolo che abbiamo letto non si parla di violazione del diritto allo studio, ma dell’incapacità della scuola di «includere elementi esterni» (sic! Da quando gli/le studenti sono «elementi esterni» alla scuola?). Incapacità alla quale fa fronte cercando di attrezzarsi? No, neanche per idea! Cosa fa la scuola? «[…] cerca di rigettare la causa di questo imprevisto caos».
Rigettare? Ciò che la scuola sta cercando di rigettare è uno studente con disabilità, chiamarlo «causa del caos» (sic!) non consente di comprendere cosa sta realmente accadendo.
Imprevisto? Quasi cinquant’anni di preavviso non bastano?
«Qui Alessio non può rimanere» e «Se volete che Alessio frequenti la mia scuola, al suo fianco ci deve essere qualcuno che lo aiuti e ci aiuti»: queste non sono richieste d’aiuto, come, erroneamente, viene indicato dell’articolo («Il preside chiede aiuto alla madre.»), sono invece una minaccia di commettere un illecito (la scuola non può rifiutare alcuno/a studente a causa della sua disabilità, e se lo fa va portata in tribunale), e un ricatto ai genitori.
«Maria non ci pensa un momento e, dopo aver deglutito con sconsolazione e rabbia le inidonee logiche educative imposte da cooperative sociali che vivono di appalti sempre al ribasso, mette in stand-by la sua carriera da contabile e a 46 anni torna sui banchi di scuola». E nominare un insegnante di sostegno? Nell’articolo non se ne parla. Fatto sta che se una donna deve lasciare il lavoro per compensare l’inadeguatezza della scuola e delle cooperative di servizi, non è solo il diritto allo studio dell’alunno con disabilità ad essere violato, ma anche il diritto al lavoro delle donne.
Se una simile richiesta fosse arrivata a Maria dal suo datore di lavoro, non ci sarebbero state particolari difficoltà a connotarla come una discriminazione basata sul genere, ma poiché in questa storia la richiesta arriva dal preside, allora, non si sa bene perché, sembra che vada tutto bene.
La vicenda viene presentata come una «una storia di inclusione e forza di volontà». Stare a scuola con la mamma non può considerarsi inclusione. Se una situazione del genere non è pensabile per gli/le altri/e studenti, non può essere considerata legittima neanche per quelli/e con disabilità (qualunque sia il tipo disabilità, qualunque sia il grado di gravità).
Perché ci sia inclusione è necessario che la società si modifichi per accogliere le differenti esigenze di tutti i cittadini e le cittadine, ciò a prescindere dalle diversità che caratterizzano ciascun essere umano. Qui la società non si è modificata, qui la scuola ha detto allo studente e alla sua famiglia, «se non trovate voi una soluzione, noi vi respingiamo». Dove sarebbe l’inclusione?
Raccontare questi fatti come fossero “cose normali” e per certi versi ammirevoli, rende ancora più difficoltoso e faticoso il lavoro di chi pretende che siano nominati e considerati per quello che sono: violazioni di diritti e discriminazioni.
Esprimiamo quindi solidarietà ad Alessio e Maria per ciò che hanno dovuto subire. Alessio è stato trattato come un “peso” e un “corpo estraneo” alla scuola, Maria è stata ricattata negli affetti. Andrebbe sottolineato che si tratta di un trattamento vergognoso, ma l’articolo non lo fa. Ma soprattutto deve essere chiaro che tra le responsabilità educative che competono a tutti i genitori non vi è quella di sostituire gli insegnanti dei propri figli all’interno della scuola. Anche su questo non c’è sufficiente trasparenza.
L’articolo termina osservando che a conclusione di questa vicenda «la scuola ha capito di poter e dover essere […] un sistema che si deve concedere il lusso di potersi evolvere, a seconda di chi ne fa parte, alla ricerca di un sempre migliore – e possibile nonostante le apparenze – equilibrio in stato di quiete». Che la scuola si evolva per rispondere al meglio alle esigenze di chi la frequenta dovrebbe essere una questione ordinaria, non un lusso. Un lusso è un’esorbitanza, saper accogliere gli/le studenti senza discriminazioni di nessun tipo rientra nel “modello base” di scuola.
«L’Espresso», va riconosciuto, è una testata solitamente attenta ai diritti. Anche per questo, e soprattutto per questo, non ci aspettiamo di trovare in essa scivoloni su questi temi. E quando accade, può capitare (siamo umani), pensiamo sia importante contribuire a fare chiarezza, proponendo una lettura che, a nostro giudizio, sia più attinente alla realtà. È quello che abbiamo provato a fare con queste riflessioni, che rivolgiamo direttamente al direttore della testata Marco Damilano.