Il 29 agosto 2005, ovvero un po’ più di quattordici anni fa, l’Uragano Katrina devastò la costa sud-orientale degli Stati Uniti, lasciando una drammatica eredità: morirono 1.800 persone, decine di migliaia dovettero abbandonare le proprie case e l’80% di New Orleans, la città più colpita, venne sommersa dalle acque.
Ma quella catastrofe assume anche un’altra dimensione, se analizzata considerando il suo sproporzionato impatto sulle persone più vulnerabili: considerando infatti la sola città di New Orleans, il 73% delle vittime aveva un’età superiore ai 60 anni, anche se questa fascia di popolazione rappresentava solo il 15% di quella totale (fonte: National Council of Disability).
Per ricordare quel tragico evento, dieci anni dopo è stato prodotto The Right to be Rescued (“Il diritto di essere salvati”), un documentario con le testimonianze di persone con disabilità coinvolte e le interviste di avvocati che s’interessano di diritti umani. In quel caso le conseguenze non furono da imputare a Madre Natura, quanto a un’altra condizione in cui l’elemento determinante è stato l’uomo e la sua organizzazione sociale, vale a dire che «alle persone con disabilità venne negato il diritto al salvataggio».
Una denuncia drammatica, questa, da cui è difficile sottrarsi e che necessariamente impone una riflessione, specialmente in un periodo come questo in cui il tema dei cambiamenti climatici e delle loro conseguenze si sta manifestando in tutta la sua drastica realtà.
Solo per fare un esempio, Katrina è stato solo uno degli oltre duecento eventi disastrosi abbattutisi sul territorio degli Stati Uniti nel periodo tra il 1980 e il 2018 e negli anni la situazione si sta gradualmente intensificando, tanto che ben tredici Agenzie Governative hanno stimato un possibile impatto sull’economia statunitense con una perdita del Prodotto Interno Lordo fino al 10%.
Questi sono i casi più studiati e conosciuti, ma il resto del mondo non è certo esente da eventi del genere, tanto da fare intervenire anche le Nazioni Unite con una Risoluzione del 9 luglio scorso, dal titolo Human Rights and Climate Change (“Diritti umani e cambiamenti climatici”), in cui si esortano i governi ad ascoltare le persone che possono essere maggiormente colpite da eventi di questo tipo e ad adottare «un approccio globale, integrato, sensibile al genere e inclusivo della disabilità per le politiche di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici».
Una Risoluzione che certo non cade come un fulmine a ciel sereno, ma è logica conseguenza delle attività che hanno condotto alla Convenzione ONU sui Diritti delle persone con Disabilità, la quale all’articolo 11 (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) si esprime proprio su questi argomenti.
«Per ogni individuo – ha scritto David M. Perry dopo l’Uragano Harvey che ha colpito gli Stati Uniti nel 2017 – le conseguenze di un disastro naturale saranno intensificate non solo dalle specifiche necessità connesse alla disabilità, ma anche da altre forme di disuguaglianza ed emarginazione come razza, classe, genere o identità sessuale e stato giuridico».
Un commento che fa eco a quello di Laura M. Stough e Ilan Kelman in Disability and Disaster. Explorations and Exchanges: «I disastri non discriminano, fanno emergere e sottolineano le disuguaglianze che già esistono nelle comunità su cui impattano».
Sempre dalle Nazioni Unite giunge poi un altro contributo sul tema, per evidenziare come in molti Paesi i bisogni delle persone con disabilità siano spesso trascurati nelle prime fasi della risposta alle emergenze umanitarie, evidenziando come il 72% di loro non abbia un piano personale da mettere in atto in caso di catastrofe e quasi l’80% non sia in grado di evacuare immediatamente senza difficoltà.
Episodi lontani da noi solo in apparenza, lontani ma vicini, proprio come i grandi incendi che hanno sconvolto le foreste siberiane e che stanno minando quelle dell’Amazzonia, perché la scala dei cambiamenti a cui stiamo assistendo coinvolgono inevitabilmente tutti i Paesi e le genti del nostro pianeta e non si fermano certo ai confini di una nazione o davanti a muri eretti per altri scopi.
Anche nel nostro Paese si stanno verificando eventi improvvisi e violenti, in genere di origine meteorologica, le cui conseguenze sono spesso amplificate da condizioni ambientali compromesse dall’uomo. Situazioni che richiedono una risposta veloce ed efficace da parte delle persone, a prescindere dalle proprie capacità o condizioni, un risultato che si può conseguire solo con una pregressa preparazione e pianificazione, ma anche attraverso una strutturazione degli spazi che favorisca tali risposte.
Formazione e pianificazione, quindi, come strumenti per affrontare situazioni complesse, ma anche informazione affinché tutti abbiano consapevolezza di ciò e possano dare il proprio contributo alla costruzione di una cultura condivisa e inclusiva su questi argomenti.
È necessario attivare un percorso nuovo su questi temi, che a partire da ciò che abbiamo imparato dalle esperienze sappia delineare un cambio di prospettiva nella cultura dell’emergenza e del soccorso, ma senza dimenticare di coinvolgere anche le persone interessate. La sfida che ci troveremo ad affrontare nei prossimi anni sarà complessa e difficile, ma certamente un sistema inclusivo che sappia superare le disuguaglianze in un percorso comune sarà in grado di fare la differenza.
Per approfondire ulteriormente la materia delle persone con disabilità di fronte ai vari tipi di emergenze, è possibile accedere al nostro testo intitolato Soccorrere tutti significa soccorrere meglio (a questo link), al cui fianco vi è il lungo elenco dei contributi da noi pubblicati in questi anni.