Tra le cronache di Sanremo e l’allarme Coronavirus, una piccola notizia è passata quasi inosservata. In provincia di Brescia, a Palazzolo sull’Oglio, un agente di polizia locale quarantatreenne si è tolto la vita nel cortile del Municipio. Un gesto estremo che lascia sempre senza parole, imperscrutabili le vere ragioni della scelta, nessuno può capire cosa scatta nella mente di una persona che decide volontariamente di andarsene da questo mondo.
Forse questo fatto non mi avrebbe colpito così tanto (e mi vergogno un po’ ad ammetterlo), se non fosse trapelato, da alcune testimonianze di amici e parenti, che l’uomo si sarebbe suicidato in quanto vittima di insulti in rete, dopo che la sua auto di servizio sarebbe stata fotografata in un posto riservato alle persone con disabilità e la foto sarebbe finita su Facebook.
Cyberbullismo, lo chiamano, ne sono bersaglio prediletto i più fragili, i “diversi”, in genere chi fatica di più a difendersi, per carattere o perché non possiede gli strumenti per farlo.
Haters, letteralmente “odiatori”, nel gergo di internet sono gli individui che diffondono insulti, ben nascosti dietro la maschera dell’anonimato che i social consentono di indossare.
Sono parole che abbiamo imparato a conoscere, lo scorso 7 febbraio è stata la Giornata Nazionale contro il Bullismo e il Cyberbullismo, dedicata soprattutto ai giovanissimi che del fenomeno sono i principali vessati e vessatori, perlomeno quelli di cui si parla di più. Perché esiste un sottobosco di persone di età non meglio definita che hanno male interpretato l’uso delle nuove tecnologie e si godono l’ebbrezza dell’offesa indiscriminata, colpevolmente inconsapevoli del fatto che il virtuale può essere molto reale.
Anche le persone con disabilità sono a volte vittime di insulti gratuiti, additati come un peso per la collettività, presi in giro per l’aspetto fisico, nei casi più gravi “invitati” a starsene nascosti o, peggio, a togliersi di torno definitivamente. Nel caso del vigile di Palazzolo, però, il disabile è stato usato come pretesto per scaricare addosso ad un uomo una valanga di fango che non meritava. La difesa del debole, questa volta, si è spinta oltre e ha annientato senza pietà una persona sensibile.
Gian Marco Lorito, questo il nome dell’agente di polizia, ha ammesso subito la propria colpa il 24 gennaio, quando il presidente dell’ANMIC di Bergamo (Associazione nazionale mutilati e invalidi civili), Giovanni Manzoni, ha pubblicato sul suo profilo Facebook la foto dell’auto dei vigili urbani parcheggiata nei pressi dell’Università della città orobica.
Una segnalazione doverosa, non oltraggiosa, un utilizzo adeguato dei social per fare educazione sociale. Pesante il tono di alcuni commenti che non hanno tardato a fioccare, finché la notizia non è arrivata al diretto interessato. Immediatamente Gian Marco ha scritto una lettera di scuse e l’ha resa pubblica, ha riconosciuto di avere commesso una leggerezza che, lui per primo, reputava ancor più grave per la divisa che indossava, il ruolo che ricopriva e l’esempio che era tenuto a dare: «Non ho parole per esprimere il mio rammarico. Voglio precisare che non era mia intenzione, ma purtroppo mi sono confuso con la segnaletica, anche se ciò non mi giustifica».
Si è multato e ha devoluto all’ANMIC l’importo della sanzione: «A seguito di quanto successo, voglia accettare un contributo di cento euro per l’Associazione da lei presieduta, oltre alle mie scuse, e continui a credere nelle Istituzioni e nel nostro lavoro».
La sua volontà di ripartire dall’errore «per poter fare di più e meglio», parole sue, è stata compresa dal presidente Manzoni che ha commentato: «Questo episodio ha dato la possibilità di rinsaldare la collaborazione tra ANMIC e forze dell’ordine».
Tanti hanno apprezzato il gesto del vigile, solo che gli improperi non si sono fermati, ogni “leone della tastiera” ha alimentato la violenza verbale verso gli altri, in un’escalation di furore che ha annientato Gian Marco il quale, indifeso, ha preferito sottrarsi nel modo che sappiamo.
Il fatto che un dramma come questo sia partito da un episodio di “abuso” nei confronti delle persone con disabilità mi ha profondamente colpita. E ancor di più mi ha colpito non leggere dispiacere da parte di qualcuno appartenente alla categoria coinvolta, se non le parole di quelli direttamente implicati nella vicenda.
Ogni giusta causa diventa ingiusta, se sfocia nella prepotenza e nell’oltraggio cieco, quando si finisce per insultare tanto per passare il tempo, in un delirio di onnipotenza che non si ferma a riflettere sul sincero e immediato pentimento di un uomo che ha commesso una leggerezza, ma con maturità lo ha riconosciuto.
Le scuse di Gian Marco non sono state un gesto scontato di questi tempi, oggi che vince la “legge del più forte” e anche di fronte a un torto evidente si urla per aver ragione. Siamo troppo abituati all’aggressività ormai, il confine tra la sacrosanta critica e l’arroganza dell’insulto è diventato sottilissimo.
Sforziamoci di sottrarci da questo meccanismo, non voltiamoci dall’altra parte. Facciamolo tutti, anche noi disabili, e non solo quando una persona con disabilità viene offesa, ma anche quando si degenera per “difendere” i nostri diritti. Non alimentiamo questo meccanismo con il silenzio, non permettiamo che le nostre cause siano perorate con la protervia. Come diceva Martin Luther King, «quello che mi spaventa non è la violenza dei cattivi, è l’indifferenza dei buoni».