Parto da un semplice interrogativo che da parecchio tempo tormenta la mia mente e soprattutto il mio cuore: l’inclusione nella scuola secondaria di secondo grado, per quanto precaria, potrà essere oggetto di scelta di valore indi di civiltà? A mio avviso sì, ma dovrà affermarsi una visione olistica e realizzarsi un’azione sistemica integrata. Procederò per gradi.
Partendo dalla realtà polivalente e polimorfa che caratterizza la comunità educante di ogni scuola, noi docenti non possiamo esimerci dall’accettare la sfida di includere ogni forma di diversità, che di fatto è una realtà.
Innanzitutto necessita ricercare attivamente e fattivamente la costruzione di ponti, di “terre di mezzo” in cui delineare uno spazio che abbia in comune un medesimo destino: elevare il nostro status umano con il preciso fine di rendere migliore questa confusa epoca in cui il nostro Paese e il mondo intero si trovano.
Occorre riprendere a pensare in grande, darsi una visione collettiva proprio iniziando dai nostri vituperati e languidi organi collegiali; riprendere in mano quello spazio e quel tempo, per rendere vivo e partecipe il confronto fra coloro che si occupano di accompagnare, quotidianamente, la crescita dei nostri giovani adolescenti all’interno delle scuole.
La principale critica che personalmente evidenzio, verso un modus operandi che si va diffondendo a macchia d’olio, è che l’essenza dell’inclusione pare essere diventata la didattica, ovvero i risultati conseguiti nelle varie discipline. Sottesa vi è sempre la famosa “didattica trasmissiva” che in seno ai Consigli di Classe fa emergere l’idea che l’inclusione si fondi su pratiche che hanno al centro le materie, quindi l’insegnante di sostegno deve fare apprendere, essendo “tuttologo”, i vari contenuti presenti nelle discipline. Così, però, si snatura l’essenza stessa dell’inclusione, che non solo vuole un “accomodamento ragionevole”, ma, in termini organizzativi, vuole flessibilità innanzitutto mentale da parte del corpo docenti-adulti, con il fine di accogliere le unicità di cui ogni persona-studente è portatore.
Affinché la professione docente possa essere esplicitata in termini di professionalità inclusiva, necessita allargare lo sguardo, ampliare l’orizzonte, essere luce nel “qui ed ora” con i nostri alunni che ci chiedono “semplicemente” di essere loro vicini. Sì, è proprio così. I nostri adolescenti chiedono innanzitutto presenza, vicinanza, ci chiedono di guidarli pazientemente lungo il non facile cammino che li porterà, con il tempo, ad effettuare scelte esistenziali importanti. In ultima analisi ci dicono “semplicemente” di porci in sintonia con il loro essere, di saper entrare in risonanza non solo con le loro istanze cognitivo-apprendimentali, ma, soprattutto, in quest’era di “fragilità diffusa”, di entrare in sintonia con le loro parti emotivo-relazionali.
Ritorno alla visone sistemica. Non posso non riconoscere che si stanno lentamente, ma progressivamente, logorando le relazioni tra scuola, servizi sociali, sanitari e famiglie in relazione all’agognato “Progetto di Vita” di cui il PEI (Piano Educativo Individualizzato) è parte integrante.
Intoppi burocratici-amministrativi, ma soprattutto specificità “culturali”, non colmate con il confronto dialettico, generano “pre-giudizi” e lasciano la scuola spesso da sola a fronteggiare il “tutto”. Appare sempre più cogente, con il fine di prevenire la contrapposizione con le famiglie, in modo particolare allorquando si parla di PEI Differenziato (che porterà solo ad una attestazione di competenze e non alla conquista del titolo di studio ufficiale alias diploma), effettuare un salto di qualità, sostenere un congruo dialogo multi professionale affinché l’inclusione funzioni.
Va da sé che occorrerebbe rivalorizzare ciò che in passato si sosteneva: l’insegnante specializzato deve diventare, al fine di sostenere il cosiddetto progetto individuale di inclusione dello studente in situazione di disabilità, una figura professionale di sistema.
Sia nella mia personale esperienza, sia nell’esperienza acquisita tramite l’attività di formatore e di tutor, so che se l’insegnante di sostegno, alias specializzato, non si accolla la regia del “tutto”, non succede proprio un bel niente intorno al nostro studente con disabilità il quale usufruirà, in modo frammentato, di tutti i servizi che la società offre: sanitario, scolastico e assistenzialistico. Tutti servizi rigorosamente erogati in modo spezzettato e non unitario, dimenticando che il soggetto, la persona, è un tutt’uno e non una serie di “pezzetti-esigenze” da tenere insieme.
Mi chiedo quindi: il Progetto di Vita, in tutte queste operazioni, dov’è? Come si può ancora pensare e dire «abbiamo fatto tutto quello che prevede il protocollo», se poi praticamente non partiamo da una conoscenza condivisa e approfondita dello studente? È utile chiederci e chiedersi come funziona la persona-adolescente, nei vari contesti di vita, secondo una prospettiva ecosistemica? Se tutte le professionalità che operano con la persona disabile non dialogano e, sedute intorno a un tavolo di lavoro non si confrontano sul da farsi, come possiamo pensare di migliorare il suo grado di partecipazione attiva nei vari àmbiti?
Credo che il docente di sostegno non debba essere solo considerato un collega che concorre al processo di sviluppo della classe in termini inclusivi. Infatti, fermo restando che gli interventi didattici che vengono effettuati in classe sono competenza di tutti i docenti, penso che l’insegnante specializzato possa concorrere a quello che io definisco il “riconoscimento” di ogni alunno.
In altre parole, occorre non solo conoscere le sue abilità, capacità e competenze, ma anche i suoi interessi, le attitudini, la motivazione e il desiderio di… fare e agire in prima persona. Ne consegue che solo conoscendo l’alunno, disabile e non, è possibile pensare che, in rapporto alla sua specifica situazione, sia utile sostenere – all’interno della classe – i suoi potenziali e fargli seguire le sue vocazioni. Grazie alla didattica personalizzata, anche speciale all’esterno dell’aula – realizzata in modo individualizzato o in piccolo gruppo -, ma mai escludente, è possibile pensare di sostenere anche, nella scuola secondaria di secondo grado, un processo di abilitazione socio-relazionale e di autonomia personale.
Nella logica dell’ICF [Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], occorre superare il dominio della “burocrazia sanitaria”; in una logica di analisi integrata della funzionalità di ogni persona, il primato lo deve riconquistare la pedagogia, che anche con l’aiuto delle altre discipline – psicologia in primis – si dovrebbe occupare di ogni persona nella sua dimensione bio-psico-sociale.
Mi chiedo: com’è possibile pensare di ampliare la rosa della squadra che si occupa dello studente con disabilità a trecentosessanta gradi se non vi è un humus culturale comune? Tenuto conto che l’insegnante – ma temo, ahimè, anche gli operatori-adulti degli altri servizi, presenti nel Sociale e nella Sanità – ha mediamente paura di “andare oltre l’ordinario” e che ognuno pensa a coltivare il proprio orticello… In altri termini, se l’insegnante specializzato delle superiori non pensa a costruire e sostenere la rete interistituzionale (famiglia, scuola, sanità e territorio), difficilmente si giungerà a parlare e men che meno a impostare, la realizzazione di un Progetto di Vita per un alunno con disabilità. Ciò è triste, ma occorre rilanciare, come dicevo prima, il fatto che l’insegnante specializzato, nell’interpretazione del proprio ruolo di docente, diventi primus inter pares nella costituzione di una rete di relazioni interistituzionali in cui al centro del sistema c’è la presenza dello studente con disabilità che si vuole accompagnare collegialmente nel suo percorso di inclusione sociale e non solo scolastico. Credo cioè che la sfida professionale per l’insegnante di sostegno sia quella di accollarsi l’onere di porre in essere azioni inclusive interistituzionali. Per fare ciò, tuttavia, necessita di un mandato chiaro e coerente.
In realtà oggi tutto è devoluto alla libera e singola iniziativa del docente cosiddetto di sostegno, che se vuole agisce come figura di sistema – ciò che diventa indispensabile specie allorquando si realizzano Piani Educativi Individualizzati Differenziati – e pone in essere buone prassi interistituzionali, sostenendo anche un progetto individuale di inclusione; altrimenti, omologandosi al volere dei più, si limita a fare l’insegnante di ripetizione ad personam dello studente disabile.
Per uscire dalla palude didattico-disciplinare in cui ci si trova spesso alle superiori, anche a fronte di un Piano Educativo Individualizzato Differenziato, occorre affermare un criterio chiave già sancito con il DPR 275/99: la flessibilità didattico-organizzativa. In forza del regolamento sull’autonomia, infatti, penso e credo sia possibile, con un Dirigente Scolastico mentalmente aperto, l’impiego flessibile dei docenti di sostegno nella classe in funzione delle opzioni metodologiche e organizzative scelte in sede di GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per il singolo caso di alunno in condizioni di disabilità), sia pure nell’àmbito di forme progettuali coerenti con gli obiettivi generali di ciascun indirizzo di studio.
Va da sé che occorre ribadire come sia possibile usare e sfruttare l’autonomia didattico-educativa con efficacia, nel rispetto sia della libertà di insegnamento, sia del diritto ad apprendere di ogni alunno, svantaggiati in primis. Mi chiedo quindi: come si fa a garantire il diritto alla formazione della persona a tutto tondo se si vincola tutto all’orario scolastico? Occorre andare oltre, progettare insieme – anche in sede interistituzionale – percorsi formativi che aiutino la crescita della persona. Troppe volte ho dovuto assistere inerme a percorsi didattici anche ben articolati, ma afunzionali rispetto alla possibilità che lo studente con disabilità, che stava seguendo un percorso differenziato, potesse, nell’arco di cinque anni di permanenza alle superiori, crescere, ovvero stare meglio nella società in cui, ultimata la scuola, sarebbe stato immesso a tempo pieno.
Va ricordato infatti che la scuola è un ottimo contenitore, ma non si può limitare a fare ciò, non si può pensare di schiacciare la figura dell’insegnante specializzato solo a mero esecutore e abile tecnico, occorre elevarne il rango. Occorre considerare il fatto che, come ogni educatore, l’insegnante specializzato deve tirar fuori dallo studente il meglio di quella persona e non si può assolutamente pensare che ciò lo si possa fare e realizzare a tavolino, sul banco di scuola.
Non è più accettabile rassicurare le famiglie che a scuola va tutto bene, che lo studente comunque sia “funziona bene” in parecchie materie, occorre fare l’ennesimo salto di qualità e chiedersi: partendo da ciò che sa e sa fare, come posso far crescere il sapere e il saper fare sociale di questo studente-persona con disabilità? Come posso sostenere e ampliare la sua personale autonomia? Come vive il suo stare in questo mondo? Come, insieme, possiamo fare un cammino storico di cambiamento e di evoluzione?
Talune situazioni di disabilità richiedono uno sforzo in più in termini di abilitazione sociale, ma necessita valorizzare le risorse umane, insegnate specializzato in primis, e non mortificare tale figura professionale a esclusive attività tecnico-esecutive poiché in tal modo potremmo solo rispondere ai meri bisogni didattico-disciplinari. Il successo formativo dello studente con disabilità non si identifica solo con la valorizzazione delle sue potenzialità, connesse con gli apprendimenti formali, occorre andare oltre e sostenere che ad esempio l’orario dell’insegnante specializzato è opportuno che sia reso flessibile, che possa essere impiegato in modo funzionale, in relazione alle effettive esigenze dell’alunno. Non è detto quindi che tali esigenze debbano essere affrontate solo durante l’orario scolastico, ma anche al di fuori di esso, se vogliamo espletare un’azione di integrazione con il territorio.
Bisogna andare oltre l’azione didattica espletata in aula con la classe, che di per sé è meritoria, è necessario superare lo steccato della rigidità oraria dell’insegnante di sostegno. E torniamo, perciò, alle parole chiave: flessibilità e responsabilità… oltre la rigidità.
Qualsiasi studente, ivi incluso l’alunno con disabilità, che segue un percorso didattico-educativo differenziato, deve diventare un cittadino italiano attivo, ma se lo si fa partecipare solo ed esclusivamente alle attività didattiche curricolari, come si fa a dinamizzare i processi socio-relazionali? L’aspetto emotivo, in un contesto naturale di vita, come si fa a farglielo vivere e interiorizzare, se ci si limita – pur valide che siano le proposte didattiche portate avanti – a stare in aula con la classe? Il rischio che io vedo è duplice: da un lato quello che subentri un po’ di noia, sia per il discente sia per il docente di sostegno che… tira a campare senza progettare; dall’altro che non si valorizzi la motivazione intrinseca e l’interesse del soggetto con disabilità, mortificando la possibilità di lavorare con il sorriso, il piacere di fare e di crescere insieme anche fuori dalle mura della scuola.
E accanto alla necessaria e indispensabile flessibilità, occorre poi elaborare e mettere a punto progetti in sede di Gruppo di Lavoro Operativo (GLO) e non limitarsi ad appiccicare il termine “inclusione” a un progetto solo per cercare di accedere a qualche forma di finanziamento: occorre essere convinti che il futuro è inclusivo.
Un’altra ipocrisia a cui assisto e per cui mi batto in chiave democratica -che mi costa non pochi dissapori relazionali- è quello di rendere congruente il dichiarato con il realizzato sia in sede di documento PTOF (Piano Triennale Offerta Formativa) che RAV (Rapporto di Autovalutazione): è un’impresa ardua, infatti, abbattere le barriere socio-culturali, anche fra persone istruite quali sono i docenti.
Pare che uno dei compiti diffusi del Dirigente, legale rappresentante dell’Istituzione Scolastica, sia quello di organizzare innumerevoli incontri e conferenze su variegati temi connessi alle varie forme di educazione e quindi si parla di bullismo e cyberbullismo, di stili di vita salutari e di dipendenze, ma ci si guarda bene dall’affrontare la tematica della gestione dei conflitti scuola-famiglia (sottoscrizione di Piani Educativi Individualizzati e Piani Didattici Personalizzati che spesso creano contrapposizioni fra le due agenzie educative). Il gap, in genere, è di tipo culturale e ognuno si trincera dietro le proprie buone opinioni, nascondendo il vero terreno di incontro: com’è possibile educare insieme la persona (figlio e alunno al contempo), se gli adulti (genitori e docenti) non sono disponibili all’ascolto? Spesso le due realtà educative non sanno condividere, l’alibi è “non c’è tempo”, ma in realtà sottesa è l’evidente mancanza di voglia di mettersi in gioco, di voler comunicare con la necessaria apertura mentale e di cuore, dando la medesima dignità all’altro di dire la sua sino in fondo.
Personalmente ho sperimentato che allorquando l’interlocutore si sente ascoltato in modo sincero e schietto, per meglio dire empatico, le tensioni createsi da un’iniziale divergenza di vedute si allentano e le persone si incontrano in un tempo e in uno spazio comune con cui è possibile dialogare e co-costruire un progetto.
Il salto di qualità lo si farà all’interno della scuola superiore, allorquando si interiorizzerà che necessita un intenso lavoro di Cooperative Learning [letteralmente “apprendimento cooperativo”, N.d.R.] fra insegnanti, anche ricorrendo all’uso dei social (whatsapp, ad esempio, può essere utile?).
Promuovere il lavoro cooperativo fra studenti, vuol dire creare e sostenere legami, permette di conoscersi come persone intere, uscire sul territorio incuriosisce anche chi si trova in una condizione di disabilità grave, l’importante è porre le basi di una relazione educativa autentica, fondata sul reciproco riconoscimento e sulla reciproca fiducia.
Ovviamente necessita andare oltre quella che viene definita una scuola della performance individuale, dei programmi ministeriali utili per conquistare, attraverso gli OSA [Obiettivi Specifici di Apprendimento, N.d.R.], il necessario Profilo Educativo, Culturale e Professionale (PECUP).
Omologare non valorizza né l’integrazione né tantomeno l’inclusione: dobbiamo far brillare gli occhi dei nostri studenti anche attraverso la valorizzazione di ogni diversità. I nostri studenti non devono solo produrre risultati e ottenere voti scolastici, è necessario vivacizzare il dialogo educativo e sostenere il “desiderio” che, per antonomasia, è strettamente soggettivo ed è per questo che va intercettato e stimolato.
Come rivalorizzare l’approccio psicopedagogico nel quotidiano lavoro educativo a scuola? Innanzitutto ricordandoci che educare richiede tempo ed energie, cercando di dare un senso sia al tutto sia al nostro essere qui ed ora insieme, in aula, in classe. Occorre far ritornare a far sognare e sperare i nostri giovani, a credere che ciò che fanno è importante per loro; troppi docenti riflettono il loro essere rassegnati attraverso la classica lezione frontale, ma ciò non fa nient’altro che far rassegnare gli studenti i cui occhi si… spengono e si riaccendono solo per sapere che voto hanno preso. Sigh!
La scuola sta correndo dietro a un mare di microprogettualità per cui spesso si disperde l’attenzione dei giovani studenti i quali, di fatto, fluttuano fra il mare magnum della scuola tradizionale (prima le materie) e il mare magnum delle attività loro proposte (oggi va di moda occuparsi anche di educazione finanziaria) da una pletora di sedicenti esperti.
Tutte queste iniziative, seppur lodevoli ed encomiabili, se non vengono ricondotte a un senso compiuto pedagogico e progettuale, appaiono “interventi spot”, slegati fra loro; sebbene ricchi di informazioni, vanno rielaborate in seno alla classe, con tutti gli alunni. Il risultato, però, è che gli studenti vengono letteralmente bombardati da informazioni, ma chi si occupa della loro formazione anche in termini di domande che sollecitano un senso esistenziale?
Orientiamoci, o meglio riorientiamo, la nostra azione pedagogico didattica all’essenza, non polverizziamo gli interessi, poiché induciamo disorientamento e l’essenza dell’orientamento esistenziale vuole capacità di discernimento, essere in grado di di chiedere ad ogni nostro giovane studente: cosa desideri fare per te stesso e con gli altri? Chiediamo loro, anche ai nostri alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali) cosa desiderano e ci meraviglieranno.
Nel corso di questi venticinque anni, periodo di tempo che ho avuto il piacere di condividere con molti studenti con disabilità, ho dato e appreso molto, ma soprattutto ho imparato che il nostro lavoro di insegnanti si “consuma” all’interno di una relazione, la quale a sua volta richiede abnegazione e continuità, pazienza e costanza, ma soprattutto fiducia nella possibilità che, con flessibilità e disponibilità, insieme possiamo farcela.