La diffusione del coronavirus, come ha affermato Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ha raggiunto ormai il livello di pandemia, cioè di malattia infettiva diffusa in almeno due continenti e in più di cento Paesi.
Gli interventi del Governo Conte – drastici ma necessari – sono arrivati a scombussolare le abitudini di vita più comuni: dal caffè al bar, alle quattro chiacchiere dal barbiere, dallo shopping, alla movida dei giovani.
In questo contesto, dove ognuno si sente limitato nelle proprie libertà, cosa sta succedendo per le persone con disabilità?
Il tema sollevato da qualche giorno dalle Federazioni delle Associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari [se ne legga anche sulle nostre pagine, nell’articolo “Emergenza coronavirus: chiediamo un’attenzione specifica per la disabilità”, N.d.R.] ha stentato ad essere preso in considerazione dalle autorità competenti: perché?
Intanto perché siamo spesso ancora “cittadini invisibili”, considerati “speciali”, di cui si occupano gli “specialisti”. Rientriamo con difficoltà nelle politiche generali in cui siamo dimenticati; in Italia, poi, il mainstreaming della disabilità, ovvero l’inserimento di quest’ultima in tutte le politiche e la legislazione che incidono sulla vita delle persone, è veramente quasi ignorato del tutto. Il tema è rimasto quindi nelle mani delle Regioni, che “in disordine sparso” hanno definito in maniera separata i comportamenti da assumere.
I temi sollevati dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e dalla FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità) riguardavano tre aree di interventi: la protezione della salute delle persone con disabilità uguale agli altri cittadini, il proseguimento degli studi a distanza anche con la scuole chiuse, il sostegno alle famiglie che abbiano al proprio interno persone con disabilità.
Ormai da una settimana, infatti, le due Federazioni hanno chiesto al Governo di regolamentare la chiusura anche dei servizi legati alle persone con disabilità, in particolare i centri diurni e le strutture riabilitative, dove i rischi di contaminazione sono uguali a quelli degli altri luoghi pubblici, con in più l’aggravante della difficoltà di far rispettare le regole di comportamento precauzionale indicate dal Governo stesso (indossare le mascherine, lavarsi le mani spesso, tenersi a un metro di distanza da un’altra persona), sia da parte degli utenti che, spesso, dagli stessi operatori.
Alcuni di questi centri – rispetto ai quali le famiglie per precauzione preferiscono che i propri figli restino a casa – hanno visto presenze di operatori superiori al numero di persone beneficiarie, proprio perché spesso gli operatori di alcune cooperative sociali hanno contratti che prevedono il pagamento solo in presenza.
Naturalmente anche questi lavoratori dovrebbero essere inclusi nelle tutele che il Governo sta preparando, anche se i regimi contrattuali spesso atipici lo rendono complesso.
Lo stesso vale per i sostegni alle famiglie di persone con disabilità, che dovrebbero essere di tipo amministrativo (maggiori possibilità di utilizzare i permessi retribuiti da parte di ambedue i genitori che lavorano), oltreché di tipo economico.
Il tema dei servizi domiciliari sostitutivi, anch’essi richiesti, mostra da un lato la carenza di tali servizi in tutta Italia e dall’altro lato la poca flessibilità dei welfare regionali, che pur essendo ancora welfare di protezione nel campo della disabilità, hanno forti difficoltà ad affrontare le situazioni di emergenza.
Infine, il tema della continuità dell’insegnamento anche in presenza della chiusura delle scuole, ampiamente affrontato sulle pagine di «Superando.it», ha mostrato l’inadeguatezza dei servizi educativi a tener conto delle esigenze di tutti gli studenti.
Due nuovi temi inquietanti vorrei però portare qui all’attenzione dei Lettori. Si tratta di temi bioetici che – in situazioni di emergenza – sembrano emergere da presenze carsiche spesso sottovalutate, che però hanno a che vedere con il forte stigma sociale che colpisce le persone con disabilità.
Il primo è quello dell’uguaglianza di opportunità nei trattamenti sanitari. Già nei social network si era iniziato a sollevare il tema: se le risorse di posti letto e di macchinari sono limitate, se si dovesse scegliere chi assistere per primi, chi si dovrebbe “scartare” (per usare una terminologia simile a quella di Papa Francesco)? I giovani o gli anziani? Le persone “normali” o le persone con limitazioni funzionali gravi?
Già filosofi morali malthusiani come Peter Singer avevano sollevato il problema per le persone con disabilità intellettiva, sostenendo che esse siano “sub-umane”, al punto di ritenere la violenza sessuale su queste persone non punibili.
Il 6 marzo scorso la SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) ha diffuso le Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili (disponibile a questo link).
All’interno di questo documento si inserisce il triage di valutazione su coloro che dovessero, in situazione di scarsità di risorse strumentali, logistiche e di personale, essere selezionati negli interventi di terapia intensiva.
Il triage – termine francese che significa “cernita”, “smistamento” – è un sistema utilizzato per selezionare i soggetti coinvolti in infortuni secondo classi di urgenza/emergenza crescenti, in base alla gravità delle lesioni riportate e del loro quadro clinico. In questo caso si applica a pazienti che devono essere trattati in terapia intensiva.
Ancora una volte l’elemento economico è alla base di queste raccomandazioni. Si valutano infatti le probabilità di sopravvivenza, le aspettative di vita, le comorbilità severe, lo status funzionale, con l’ottica della «massimizzazione dei benefìci per il maggior numero di persone».
Leggendo fra le righe le persone più colpite risultano quelle anziane (probabilità di sopravvivenza, aspettative di vita) e quelle con disabilità (le comorbilità severe, lo status funzionale). Il tema dei rispetto dei diritti umani viene messo in secondo piano, ossia qualcuno dovrà scegliere chi assistere e chi no.
Il testo parla di criteri clinici oggettivi, e tuttavia questa presunta oggettività è fortemente inquinata da pregiudizi e stigma. Si pensi a uno scienziato come Stephen Hawking sottoposto a questa forma di triage, oppure a una persona con disabilità intellettiva: quest’ultima avrebbe una comorbilità severa o uno status funzionale tale da essere scartata dai trattamenti medici?
Oggi i progressi della scienza medica, enormi, sono sempre più sottoposti a criteri di accesso in cui le persone con disabilità o gli anziani rischiano di essere esclusi. Ma a che serve lo sviluppo scientifico se poi si applica a un numero limitato di pazienti? Lo sviluppo economico dovrebbe essere alla base del supporto dei diritti umani delle persone o invece viene scelto solo il criterio economico per garantire i diritti di un numero limitato di persone?
Lo abbiamo visto per i casi di quei bambini ai quali i tribunali inglesi hanno deciso di sospendere le cure. Le caratteristiche delle loro patologie non sono degne di essere studiate, per poter trattare in maniera migliore altri casi analoghi?
Bene ha fatto il direttore della Struttura Complessa di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Niguarda di Milano, professor Roberto Fumagalli, docente di Anestesia e Rianimazione all’Università Milano-Bicocca, a ricordare che nella sua struttura quel triage non si applica, né tanto meno in situazioni di emergenza.
Lo stesso Comitato di Bioetica della Repubblica di San Marino qualche tempo fa ha licenziato due documenti sull’Approccio bioetico alle persone con disabilità o sulla Bioetica delle catastrofi in cui veniva denunciata la mancanza di rispetto dei diritti umani delle persone con disabilità e un uso poco rispettoso dei diritti umani nell’applicazione del triage su persone con disabilità in caso di emergenza [i due documenti sono entrambi disponibili, rispettivamente a questo e a questo link, N.d.R.].
L’altro tema è quello della protezione dei diritti umani delle persone anziane e delle persone con disabilità segregate negli istituti e a sollevarlo è stato il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Detenute o Private della Libertà Personale per le Persone private dalla libertà.
In un suo comunicato diffuso ieri, 12 marzo [disponibile integralmente a questo link, N.d.R.], ha sottolineato infatti che «viste le limitazioni previste alla lettera q) del DPCM dell’8 marzo 2020 che prevede che “l’accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (Rsa), hospice, strutture riabilitative e strutture residenziali per anziani autosufficienti e non, è limitato ai soli casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura che è tenuta ad adottare le misure necessarie e prevenire le possibili trasmissioni di infezione”, pur ritenendo le restrizioni opportune al fine di prevenire la diffusione della pandemia, manifestiamo preoccupazione in merito alle ripercussioni che tali limitazioni possono avere all’interno delle strutture per persone con disabilità e anziane, se non opportunamente monitorate e controllate. La situazione espone, infatti, a elevato stress sia gli ospiti che gli operatori. Questo comporta un incremento del rischio di comportamenti conflittuali, di maltrattamento o di abuso degli strumenti di contenzione».
A questo proposito il Garante richiama l’attenzione nel merito di tutti coloro che operano nel settore socio-sanitario e socio-assistenziale, raccomandando a tutte le Direzioni delle strutture e alle Autorità Regionali di controllo di «vigilare sulle strutture con massima attenzione, data la drastica riduzione del controllo informale esercitato dalla comunità esterna conseguente, alle restrizioni all’accesso».
Queste raccomandazioni provenienti da un’Autorità che interviene per proteggere i diritti umani mostrano ancora una volta che le segregazioni in luoghi speciali e separati dalla società sono “soluzioni” che possono portare a violazioni di diritti umani, a trattamenti inumani e degradanti, e che la società dovrebbe attivarsi per trovare soluzioni alternative, rispettose della qualità di vita e adeguate a mantenere contatti con le comunità cui appartengono.
Alcune considerazioni, in conclusione. In momenti di crisi risorgono stigma atavici, valutazioni sul valore di persone che hanno caratteristiche “socialmente indesiderabili”, trattamenti differenti che colpiscono le persone con disabilità.
Finché saremo “cittadini invisibili”, considerati “speciali”, finché non faremo parte realmente della società e le politiche di mainstreaming non si occuperanno delle persone con disabilità, saremo sempre sottoposti a rischi maggiori di limitazione dei nostri diritti e a trattamenti differenti senza giustificazione che spesso violano i nostri diritti umani.
La visibilità e la promozione di azioni di denuncia e di proposte dev’essere un momento essenziale dell’opera delle Associazioni e delle Federazioni di persone con disabilità. L’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia nel 2009 e da 181 Paesi aderenti alle Nazioni Uniti (il 94% di essi) richiede di passare da un welfare di protezione – che però ci tratta spesso, senza giustificazione, in maniera differente, considerandoci fragili e vulnerabili – ad un welfare di inclusione, dove siamo cittadini a pieno titolo, disabilitati e vulnerati da politiche e trattamenti speciali e segreganti, e dobbiamo beneficiare al pari degli altri cittadini dello sviluppo, di beni e servizi per tutti, di politiche generali con gli appropriati sostegni, anche in situazioni di emergenza.