La sera è scesa. Dall’altura dove è situato l’appartamento dei miei genitori si domina Armeno (Novara). Ammiro il paesaggio notturno del paese di collina del Lago d’Orta, vedo l’agglomerato di case, il campanile, riconosco qua e là l’abitazione di qualche amico.
Di solito questa immagine mi riempie il cuore di gioia, quanti ricordi bellissimi di gioventù legati a questo luogo. No, stasera non è così, è molto diverso. Il paesaggio mi inquieta, anzi mi desta una paura folle, perché anche qui nel “piccolo Armeno”, come ormai in ogni parte del mondo, il maledetto coronavirus si è insediato.
Anche se consapevole che non si resta contagiati dall’aria, chiudo velocemente le ante della finestra, quasi in cerca di protezione. Mi ritrovo di nuovo “imprigionata” nel mio angolo-studio. Da reclusa faccio il topo da biblioteca: leggo, studio e scrivo, sperimentando un nuovo modo di stare con me.
La quarantena mi ha fatto capire una volta in più quanto nella vita io sia stata fortunata. Questa vita tra le pareti domestiche sarebbe dovuta essere la mia esistenza naturale. A causa di un parto alquanto difficile, sono nata asfittica; i migliori luminari della pediatria di allora, all’età di 6 mesi, mi prognosticarono una vita in carrozzina senza alcuna possibilità né di linguaggio né di movimento. Ora ho più di 50 anni e la mia storia è stata una continua, puntuale smentita di quelle infauste previsioni. Ho raggiunto una condizione motoria e un’autonomia tali da poter vivere da sola in una metropoli come Milano. Ho conseguito due lauree e sono riuscita ad avere un impiego al «Corriere della Sera». E poi, in generale, ho avuto una vita ricca di interessi e di amicizie. Nessun miracolo, piuttosto tanta fatica e determinazione, tante piccole grandi conquiste raggiunte con immensi sforzi. Specialmente dai venti ai quarant’anni, periodo in cui ho raggiunto i traguardi più importanti (e in cui mi sono anche divertita maggiormente), ogni piccolo successo o momento di felicità era un’occasione di ringraziamento ed esaltazione alla vita. Tutte le mattine salutavo il nuovo giorno con l’esclamazione «che bella la vita!». Lo giuro, facevo questa affermazione perché ne ero pienamente convinta, nonostante la mia condizione e le mie difficoltà.
Ora che come tutti sono in quarantena, mi chiedo come sarebbe stato il film della mia vita se avesse sviluppato la “trama” iniziale. Come avrei potuto esprimere il mio essere interiore senza avere alcuna possibilità di movimento e di comunicazione? In che modo sarei potuta crescere dal punto di vista intellettivo e culturale senza potermi confrontare con il mondo esterno?
E invece si può. Ci si può costruire una dimensione sociale anche senza uscire, senza viaggiare. Lo dimostrano le tante persone con disabilità per le quali la vita è sempre stata “ai tempi del coronavirus”. Persone che con la forza di volontà e la determinazione che ho avuto io, ma anche con l’aiuto prezioso di chi le assiste e, non ultimo, della tecnologia, danno un segno importante della loro presenza, della loro intelligenza nella comunità. Intelligenze fisicamente “imprigionate”, ma capaci di “evadere” e di contribuire allo sviluppo della società.
Non si tratta di rendere omaggio a storie fuori dal comune, non si possono certamente negare le difficoltà oggettive e le discriminazioni legate al mondo della disabilità. Ma una quarantena può far capire quanto la vita sia sorprendente, imprevedibile. E sia persino capace di abbattere le quattro mura di una casa.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “La mia libertà è quella che cresce fra le quattro mura di casa”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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