Tre mesi di coronavirus vissuti da alcune famiglie di persone con disabilità

È un documento quanto mai significativo, quello che proponiamo oggi ai Lettori. Ad elaborarlo è stata Gloria Gagliardini del Gruppo Solidarietà, per raccontare quanto emerso nel periodo di emergenza coronavirus (marzo-giugno), dagli incontri e dai contatti con le famiglie di persone con disabilità afferenti al Gruppo di Auto Mutuo Aiuto dell’organizzazione marchigiana. Ne emergono con lucida chiarezza i vissuti di famiglie che oscillano di volta in volta tra la paura, lo smarrimento, il bisogno di informazioni e il senso di ingiustizia

Rappresentazione grafica di famiglia con disabilitàL’obiettivo di questo scritto è documentare quanto emerso, nel periodo marzo-giugno, dagli incontri e dai contatti con i familiari delle persone con disabilità in questi mesi di emergenza Covid, per fare emergere i vissuti delle famiglie, in particolare dalla prospettiva dei familiari del nostro Gruppo di Auto Mutuo Aiuto (AMA)*, che ad oggi si compone di circa una quindicina di familiari del territorio dell’ATS 9 delle Marche (Ambito Territoriale Sociale). Si tratta, nel dettaglio, di genitori di età attorno ai 70 anni, con figli con disabilità di età media 40 anni. Di questi familiari, due usufruiscono di sostegni domiciliari (inclusi TIS-Tirocini di Inlcusione Sociale e lavoro), altri due non vivono più con i propri figli i quali abitano in comunità residenziali, il resto dei componenti usufruisce dei centri diurni. Di tutti questi nuclei, quattro sono monogenitoriali (mamme con figli adulti).
Il Gruppo AMA continua a tenersi in contatto dal mese di marzo con telefonate tra singoli, poi, da maggio, con incontri su piattaforma virtuale, una volta alla settimana.

Il clima emotivo di questi mesi è significativo, ci si rispecchia tutti in questa base comune di isolamento in casa. Si passa dal subire questa situazione emergenziale di paura ad una riconversione quasi di riscatto, in cui si cerca insieme il coraggio di condividere l’esperienza individuale, dando forma ad essa in un pensiero collettivo. Con sorpresa, vediamo genitori quasi ottantenni scaricare l’app per collegarsi su piattaforma web, confrontarsi con gli altri in una modalità completamente nuova.
Queste sono le stesse situazioni familiari che:
° poco prima dell’emergenza, erano in attesa di capire se avrebbero usufruito dei “sollievi”, dopo un faticoso groviglio interiore per delegare un po’ della propria responsabilità genitoriale ad altri;
° con risvegli di paure legate ai primi anni di vita dei figli, alle malattie incontrate, a ferite ancora non cicatrizzate;
° avevano appena terminato le riunioni annuali per i rinnovi dei piani educativi a febbraio, ritenuti per lo più atti burocratici più o meno sempre uguali;
° si definivano stanche e affaticate dalla loro quotidianità;
° dicevano di «vivere una vita parallela agli altri» e di sentirsi «poco capite da chi la condizione di disabilità non la vive».
Tutto questo non lo possiamo dimenticare, perché la pandemia arriva in ciascuna di queste case e porta chiaramente ulteriore affaticamento. Ricordiamo che i familiari dei centri diurni erano abituati a un servizio di sette ore al giorno, un importante sostegno all’interno di un notevole carico assistenziale. Un servizio, quindi, per i figli, ma funzionale ai genitori, dove non sempre risultava chiaro ai familiari il progetto educativo individuale.
Vogliamo dunque portare alla luce, in questo documento, i punti che riteniamo più importanti e significativi per una riflessione che ci riguarda tutti, comunità territoriali e servizi, perché, da questo evento che ha investito le vite possiamo ricavare preziosi spunti da cui ripartire, nella consapevolezza che dal punto di vista di ciascuna storia di vita, tutto è molto più complesso e delicato che non la sola riattivazione dei servizi e la possibilità di uscire.

Calendario del mese di marzo 2020Marzo
L’epidemia da Covid-19 viene annunciata in Italia a fine febbraio. Ad inizio marzo chiudono le scuole. Sono giorni nei quali regna, per tutti, confusione mista a timore di cosa sarebbe potuto accadere e di quali regole adottare. Le famiglie che usufruivano dei centri diurni sono impaurite e tra di loro si chiedono quali comportamenti tenere verso i figli: mandarli, non mandarli.
Il 10 marzo la Regione Marche chiude tutti i centri diurni (Ordinanza del Presidente della Giunta Regionale n. 4), anticipando di una settimana le disposizioni nazionali (Decreto Legge 18/20, meglio noto come “Cura Italia”, convertito poi nella Legge 27/20). Emerge dai familiari tanta paura del virus e la paura di non poter reggere a questo evento, specie per quei nuclei familiari costituiti da sole madri con figli adulti. Questa volta si è davvero soli in casa, senza poter contare neanche su una rete esterna di sostegno. La paura si sente a più a livelli: paura di ammalarsi e, nel caso, a chi lasciare i figli, paura se i figli reggeranno questo isolamento e quali comportamenti ci si potrebbero aspettare. Non mancano racconti di madri che ci dicono di avere aumentato il dosaggio della terapia del figlio per renderlo più tranquillo.
In questa prima fase non si sa ancora come i servizi territoriali si organizzeranno in caso di malattia da Covid per questi nuclei e il non avere informazioni chiare disorienta. Nel frattempo i familiari vengono contattati dai coordinatori della Cooperativa, alcuni anche da assistenti sociali dell’ASP (Azienda Pubblica di Servizi della Persona).
La paura del contagio in questo periodo è la paura prevalente a cui si risponde con forte protezione verso la propria famiglia. L’isolamento in casa è vissuto come un rifugio sicuro, meglio quello che rischiare la salute di sé e dei figli. Si sopporta la fatica assistenziale continuativa e la noia di stare in casa in una routine tutta da riprendere. Non si chiede aiuto neanche ad altri figli, se non in alcuni casi per la spesa. Ognuno cerca di cavarsela da sé, sperando che la situazione non duri per molto.
In questa fase di nuovo assetto anche organizzativo e familiare, sperimentiamo come alcune famiglie non siano state informate dei numeri telefonici messi a disposizione dal proprio Comune, numeri dei negozi e supermercati per la spesa a domicilio, del numero della Protezione Civile, di come reperire farmaci anche salvavita a domicilio. Il bisogno è dunque quello di informazioni pratiche e di capire dove reperirle.
Di questi familiari, in due situazioni sperimentiamo, dopo circa quindici giorni di isolamento, affaticamento e stress. Alcuni genitori già con problemi di salute pregressi si sentono impotenti e preoccupati di fronte al proprio figlio, al quale di colpo è finito un “tirocinio di inclusione” ed è stata sospesa l’Assistenza Educativa Individualizzata (AEI); si sta quindi lasciando andare all’apatia e alla mancanza di motivazione per alzarsi la mattina. Oppure c’è chi – per la chiusura del Centro Socio Educativo Riabilitativo (CSER) – prova un senso di inadeguatezza personale di fronte a un tempo così lungo con il figlio in casa, senza stimoli esterni. Manca quello spazio di libertà personale che questi genitori avevano riconquistato da tanti anni con la frequenza di un diurno quotidiano e manca poter dare almeno qualche stimolo ai propri figli e non vederli lasciarsi andare di giorno in giorno.
Significativa, al riguardo, è l’Ordinanza n.16 della Regione, che il 26 marzo permette spostamenti a «soggetti con disturbi psichici». Per alcuni familiari vuol dire la possibilità concreta di riprendere energia vitale, anche solo portando il figlio in macchina per il paese. Qui si sperimenta la “paura” nei confronti dei Carabinieri, nonostante si porti con sé, oltre all’autocertificazione, anche il permesso rilasciato dai Servizi Territoriali, nonché la preoccupazione di non essere capiti anche dai vicini di casa, o il doversi incontrare con sguardi poco comprensivi, preparandosi a saper rispondere, come rispondere, cosa mostrare, con tutte le difficoltà di spiegare a chi la situazione non la vive.
Questa possibilità di uscire abbassa il livello di congelamento emotivo di chi ha una disabilità intellettiva, sperimentando che anzi una passeggiata all’aria aperta fa bene alla salute, che il virus non è ovunque. Ed è anche il primo modo per prendere confidenza con la mascherina, passando prima dalla sciarpa, poi dal foulard, restando in macchina, mentre il proprio genitore fa la spesa, e poter osservare che se gli altri sconosciuti o conosciuti indossano la mascherina non è per malattia, ma per precauzione.

Questa esperienza di pandemia solleva in alcune persone con disabilità e nei loro familiari una paura latente, quella della malattia (la mascherina chirurgica e il guanto simboli dell’ambiente ospedaliero) e l’angoscia della perdita dei propri cari con cui alcuni fanno i conti da tempo.
Registriamo che le situazioni familiari sono diverse tra loro anche per una ragione pratica: avere o non avere un giardino, un cortile in cui fare un giretto o lasciare il proprio figlio, oppure solo una terrazza da cui affacciarsi. Siamo a metà marzo e nel nostro territorio per alcuni giorni vengono sospesi i servizi di Assistenza Educativa Territoriale, per mancanza di dispositivi di protezione degli operatori. Chi ne usufruiva si trova a non avere più quel sostegno, aumentando dunque le difficoltà interne alla famiglia.
Questi servizi riprenderanno – con precedenza ai casi considerati urgenti – ma con fatica e lentezza, anche per dover riallacciare fiducia con le stesse persone con disabilità e le famiglie, impaurite dal contagio. Queste ultime non hanno chiaro dove si possa andare con l’operatore: stare in casa in una stanza senza familiari, uscire dove, distanziati quanto. E per chi ha figli con disabilità complessa, gli atti di normale quotidianità, come il fare la spesa, andare a prendere il pane. Atti e gesti che permettevano a questi nuclei e alle stesse persone con disabilità di muoversi dentro alla propria comunità, diventano però azioni complicate da gestire, per la difficoltà di potersi spostare non sapendo con chi lasciare i propri figli.

Calendario del mese di aprile 2020Aprile
Il clima emotivo cambia: c’è sempre tanta paura, ma anche una nuova abitudine appresa, in cui ciascuno si risistema. L’incoraggiamento reciproco è “resistere”. I messaggi tra famiglie sono sempre sul «resistere, ce la faremo». Le famiglie si sentono tra loro, anche per scambiarsi quanto i coordinatori dei servizi dicono loro. Le chiamate sono inerenti al volere o meno il servizio di Assistenza Educativa Domiciliare, ma ancora con poche certezze di quale operatore arrivi: un educatore del diurno? Un operatore conosciuto o sconosciuto? Per fare cosa? Passeggiate dove? Ancora non è caldo, in casa no, per paura del contagio… quante ore? Qui le famiglie sono in difficoltà, non sanno cosa rispondere.
La vita in casa si assesta in una nuova routine: dopo un primo mese di chi prova anche a stimolare il figlio a livello motorio, cognitivo, ci si adagia in una situazione temporale che non prevede fine breve. Chi lavora in smart working con il figlio seduto in carrozzina accanto per metà della giornata; chi mantiene una possibilità di uscita anche piccola per comprare il giornale in edicola, lasciando il figlio in casa nel tempo del tragitto, perché sa che la lettura del giornale può fare la differenza di umore; chi esce solo in macchina facendo giri a vuoto, con il solo obiettivo di prendere aria, di cambiare la maglia e salire in macchina; chi inventa tanti dolci da cuocere; chi gioca a carte per tanti pomeriggi di seguito col proprio figlio; chi si addormenta sul divano e si lascia andare all’apatia dei giorni, mentre il figlio in camera ritrova giochi con cui impegnare le giornate come vecchi puzzle; chi tutto il giorno segue ogni serie televisiva spostandosi solo dal divano alla sala da pranzo e al letto; chi racconta di aver dovuto reggere a crisi nervose del figlio senza sapere come fare, a chi chiedere aiuto. Quello che emerge è un clima abbastanza apatico per tutti, con pochi o nulli stimoli esterni. Un mondo fuori che entra poco o quasi niente, anche telefonicamente. Alcune persone con disabilità non ricevono chiamate da nessuno, chi riesce, invece, tenta di farle. Solo due persone con disabilità del nostro Gruppo mantengono relazioni sociali a distanza, persone che prima dell’emergenza avevano una rete sociale fatta di impegni extra ai servizi.

Calendario del mese di maggio 2020Maggio
Nel chiamare le famiglie, i coordinatori dei servizi iniziano a ipotizzare una possibile ripresa dei diurni, con una proposta ancora incerta e vaga sulle modalità. C’è di nuovo smarrimento: le famiglie non sanno cosa rispondere, non hanno sufficienti elementi per decidere, in una situazione emotiva in cui domina per tutti ancora la paura del contagio.
La domanda dei servizi è se si è disposti a riprendere il Centro, magari in gruppetti e per alcune ore al giorno, oppure se si preferisce qualche ora di domiciliare. Ma anche qui non si dà la certezza a tutti che gli operatori siano conosciuti, non si parla di cosa fare nello specifico.
Le emozioni che emergono sono angoscia, preoccupazione, confusione, paura, disorientamentoe stanchezza: «Sono confusa, mi viene da piangere, tanta malinconia e solitudine. Non si può andare avanti così». Gli unici due bisogni chiari verbalizzati sono di protezione della salute e di socialità per i figli, che sono rimasti per più di due mesi non solo isolati fisicamente, ma anche con pochissimi scambi telefonici. Alcuni lamentano con grande dispiacere il non avere avuto una telefonata da parte degli educatori, con i quali i figli avevano un rapporto quotidiano. Le persone del Centro sono ricordate come il “gruppo di amici” e la possibilità di ricevere videochiamate sarebbe stata vissuta dai familiari come il tentativo di far sentire il proprio figlio una “persona con pari dignità umana”. L’assenza del mondo fuori casa sollecita un confronto nuovo, quello di rimisurarsi con il livello di fiducia verso l’esterno, che per alcune persone con disabilità complessa è rappresentato solo o quasi dalle relazioni che si intrecciano attraverso gli educatori dei servizi di cui usufruiscono: «Se tutto questo calore umano non c’è stato in questi mesi, come posso rifidarmi?».
Ci si sente insicuri, fragili, soli, scoraggiati, sconfortati. Emerge dunque:
° bisogno di sentirsi compresi nella propria confusione di non riuscire a prendere una decisione sul servizio, con un forte carico di responsabilità;
° bisogno di sentir riconosciuto un trattamento dei figli al pari degli altri (giustizia), «essere chiamato per nome da chi lo conosce, essere riconosciuto, essere appartenente ad una comunità»;
° bisogno di avere autonomia/autodeterminazione di pensiero: riprogrammare la vita con una certa stabilità per il genitore e per il figlio.

Calendario del mese di giugno 2020Dal 17 maggio al 4 giugno
Da metà maggio si sperimenta un’altra fase ancora. Per chi usufruisce di progetti come il “Dopo di Noi” e il servizio di Assistenza Educativa Individualizzata, si vive una condizione di ripresa certa. I figli si sperimentano assieme agli educatori con il mondo fuori e le nuove regole sociali, c’è uno scambio e una riprogettazione con i servizi.
Nella Delibera Regionale che stabilisce le modalità di riapertura dei centri diurni e nel Piano Territoriale di Riattivazione dei Servizi, si prevede, per il nostro Ambito Territoriale Sociale, il riavvio il 3 giugno. I familiari che usufruiscono dei centri diurni hanno la certezza che le cose possano ripartire. Si sperimentano però ancora informazioni poco chiare da parte dei servizi.
In questa fase alcuni genitori vengono ricontattati dalle UMEA (Unità Multidisciplinari per l’Età Adulta). A chi viene detto erroneamente che se il proprio figlio non tollera la mascherina sarà difficile rientrare, si induce la sfiducia che la vita di prima non potrà mai tornare.
Le chiamate dei servizi sono volte a conoscere chi è disposto a fare il tampone in vista della riapertura del Centro, con il dire che farlo subito significa poi essere sicuri di rientrare. C’è smarrimento perché non a tutti viene detto come riaprirà il servizio (giorni, orari, operatori), con quali modalità si faranno i trasporti, se si ha diritto a servizi alternativi.
In attesa che i diurni ripartano, alcune famiglie richiedono l’attivazione di un supporto domiciliare. Un accordo con il coordinatore del Centro e con un educatore – che questa volta sarebbe stato certamente un riferimento conosciuto dalla persona con disabilità – permette alle famiglie di sperimentare un riavvio, almeno nel proprio immaginario e in quelli dei figli.
Concordate le modalità di attivazione dei domiciliari, concordati giorni, orari e obiettivi, il giorno prima dell’avvio viene loro comunicato dalla Cooperativa che il servizio non può partire perché non autorizzato. Delusione e scoraggiamento. Ma passati quasi quindici giorni, lo smarrimento diventa rabbia. La questione della fiducia nei servizi torna di nuovo, non si capisce dove la macchina si sia inceppata, chi bisogna chiamare, di chi sia la responsabilità. C’è chi ci ripensa, chiudendosi di nuovo nelle proprie paure. Nel frattempo non si sa ancora la data di riapertura del servizio diurno, alcuni serbano paure per il tampone da fare, avendo esperienza di come sia difficile far fare delle visite mediche ai propri figli, visite che sono sempre fonte di ansie e difficoltà pratiche di gestione.
Dal punto di vista sociale, si vive un cambiamento: in questo periodo le famiglie iniziano ad uscire con i propri figli, piccole uscite per acquisti, ma non tutti riescono a tollerare la mascherina e si scontrano con quei negozianti che non li fanno entrare senza il dispositivo o che fanno entrare solo il genitore, lasciando fuori la persona con disabilità. Tristezza, delusione, senso di ingiustizia. E bisogno di informazioni anche su questo, per sapere cosa poter rispondere e come “difendersi” dagli sguardi di persone in fila al supermercato o da chi minaccia la multa. Anche tornare al bar vicino casa, portando con sé il proprio figlio, diventa difficile, ci sono misure da prendere e regole sociali nuove con cui misurarsi e con cui far misurare i figli che non le comprendono. Il bar non viene più vissuto come il luogo dello scambio sociale come prima. C’è chi, preso dalla paura del contagio, sommato alla fatica e allo sforzo fisico che implica uscire con il figlio adulto e intollerante alla mascherina, rinuncia ancora a riprendere ad andare al supermercato.
Ci si rimisura con la società, con i suoi permessi e i suoi divieti, con delle regole nuove per tutti, ma che per coloro i quali vivono una situazione difficile già senza Covid, diventano quasi un carico di responsabilità ulteriore per cui serve ancora forza e grinta.

*Gloria Gagliardini, Gruppo Solidarietà e Auto Mutuo Aiuto: il racconto di un’esperienza, in «Appunti sulle politiche sociali», n. 4/2017.

Gruppo Solidarietà, Moie di Maiolati Spontini (Ancona).

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