La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 20243/20, prodotta il 25 settembre scorso, ha formulato il principio di diritto in base al quale i permessi, come da articolo 33, comma 6 della Legge 104/92, sono riconosciuti al lavoratore disabile grave in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretta alle esigenze di cura. Secondo tale pronunciamento, dunque, non può essere licenziato il lavoratore con disabilità che abbia utilizzato i permessi per esigenze diverse da quelle di cura.
La Suprema Corte è arrivata a tale statuizione partendo dal citato articolo 33, comma 6 della Legge 104/92, che garantisce appunto determinati diritti alla persona con disabilità grave, prevedendo la possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), scegliendo – ove possibile – una sede di lavoro più vicina al domicilio, e senza essere trasferito in altra sede, mancando il suo consenso.
Secondo la Corte si tratta di un significativo ventaglio di agevolazioni, riconducibili alla logica della prestazione in servizi, piuttosto che di benefici monetari, che costituiscono un articolato sistema di welfare, anche familiare, connesso ai doveri di solidarietà sociale.
Con particolare riguardo all’utilizzazione dei permessi fruiti dai familiari (articolo 33, comma 3 della Legge 104), la Corte di Cassazione aveva già affermato che l’assistenza non può essere intesa riduttivamente come «mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione», ma deve necessariamente comprendere «lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto non sia in condizioni di compiere autonomamente».
Analogamente, l’utilizzo dei permessi da parte del lavoratore portatore di disabilità grave è dunque finalizzato ad agevolare l’integrazione nella famiglia e nella società, integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi i quali non considerino le condizioni svantaggiate sopportate.
I lavoratori con disabilità grave, proprio perché svolgono attività lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un lavoratore che assista un coniuge o un parente invalido: secondo la Cassazione, dunque, la fruizione dei permessi non può essere vincolata necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura, essendo – più in generale – preordinata all’obiettivo di ristabilire l’equilibrio fisico e psicologico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.
Ringraziamo per la collaborazione l’Associazione InCerchio di Milano.