Nell’immaginario collettivo, le persone con disabilità sono spesso viste come “angeli asessuati” ed “eterni bambini”. È invece importante capire che tutte le persone hanno un costante desiderio di affetto e di contatto fisico. Si tratta di bisogni connaturati nell’essere umano e, come tali, appartengono ovviamente anche alla persona con disabilità.
Esistono varie forme di disabilità e per ognuna di esse la sessualità dev’essere approcciata in maniera diversa. È fondamentale tenere in considerazione le differenze tra una disabilità fisica lieve e una grave e tra fisica, cognitiva e sensoriale. In alcuni casi il bisogno dello sviluppo della sessualità è più evidente, in altri è meno esteriorizzato, ma è sempre presente, anche se con le differenze legate al genere, all’età, al tipo di disabilità e alle peculiarità dell’individuo e al contesto sociale dove la persona si forma.
Nell’approcciare a questa tematica è indispensabile accogliere la disabilità come parte integrante dell’identità della persona. Questo non significa ridurre il disabile al suo handicap, ma nemmeno minimizzarlo o negarlo, considerandone quindi i limiti e le potenzialità.
In generale alle persone con disabilità non viene garantita una giusta informazione ed educazione; infatti, in molte famiglie, istituti e case-famiglia certi discorsi sono da evitare. Inoltre, in certi casi, la costante presenza dell’accompagnatore influisce sulla possibilità di vivere la propria sessualità in maniera intima e spontanea. Ad essere più penalizzate sono le ragazze e le donne: nell’uomo il bisogno sessuale è più evidente e, talvolta, in famiglia o al di fuori di essa, si trova il modo di soddisfare l’atto fisico e fisiologico.
La masturbazione in ambito familiare crea ovviamente profonde ferite a chi la pratica e a chi la riceve. Servirebbero più aiuti psicologici e pratici, come già avviene in altri Paesi d’Europa.
Indubbiamente il contesto culturale ha un impatto molto forte e determinante nella percezione della sessualità nella disabilità e nella formazione dell’identità. In molti casi in famiglia certi argomenti sono un tabù, non se ne può parlare, anzi si fa di tutto per sviare l’attenzione del figlio con disabilità, come se questo non fosse interessato. In altre situazioni, di fronte alle continue richieste di affettività ed emancipazione si cerca la soluzione nel matrimonio.
Dal punto di vista dei genitori della persona con disabilità, questo può rappresentare un porto sicuro per il presente – ma soprattutto per il futuro – del figlio o della figlia. Diversamente, può accadere che la possibilità di matrimonio sia ostacolata proprio dalla famiglia, per un senso di maggiore controllo e paura dell’emancipazione: a volte i familiari si dedicano solamente alla persona apparentemente più fragile e hanno il timore che questo ruolo venga loro sottratto. In altri casi, invece, un eccessivo controllo può essere dovuto alla paura che qualcuno possa approfittare di lui o di lei.
Da tutte queste considerazioni emerge un legame indissolubile tra autonomia, supporto all’emancipazione e sviluppo della sessualità per le persone con disabilità. La mancanza di informazione e consapevolezza, combinata con la totale assenza di autonomia e privacy, recano solitudine, rabbia e frustrazione, con la conseguente rassegnazione a una vita povera di stimoli.
Pertanto, la condizione in cui la famiglia stessa sostiene e supporta un percorso di autonomia risulta fondamentale per le persone con disabilità. E contribuiscono anche la possibilità di fare affidamento sull’aiuto di uno o più sibling (fratelli o sorelle “normodotati” di persone con disabilità), un buon inserimento lavorativo e le amicizie su cui poter contare. La presenza contestuale dei tre fattori spesso rappresenta un obiettivo talvolta utopico.
Non di poca importanza resta il fatto che la negazione dei diritti e delle responsabilità del giovane e dell’adulto con disabilità crea maggiori rischi: prima o poi si scopre la sessualità, con internet, con gli amici, con una persona che ti fa un apprezzamento. Ciò può avvenire anche in quelle famiglie dove si cercano di limitare i contatti con l’esterno; càpita così che si diano sedativi per inibire il desiderio sessuale.
Per contrastare tutto ciò sarebbe auspicabile l’informazione sentimentale e sessuale della persona e un lavoro psico-educativo e relazionale su tutto in nucleo familiare.
Sempre in merito, poi, ai supporti da mettere in campo, nel nostro Paese – come già si accennava – sono del tutto assenti figure professionali o centri rivolti al benessere sessuale delle persone con disabilità. All’estero, in alcuni Stati, si è sviluppata per queste esigenze la figura dell’“assistente sessuale”, operatore formato sia dal punto di vista teorico e psicocorporeo sui temi della sessualità, che supporta le persone con disabilità fisica, cognitiva e sensoriale a vivere un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale, sperimentando l’erotismo e la sessualità.
Tra le diverse iniziative poste in atto per superare tale mancanza, nel 2014 è stato presentato in Senato un Disegno di Legge che si propone di introdurre nel nostro ordinamento la figura dell’“assistente sessuale” per persone con disabilità al fine di garantire il diritto dell’esercizio libero della propria sessualità.
L’iniziativa non ha avuto, per il momento, alcun seguito in Parlamento e tuttavia, in quello stesso anno sono partiti i corsi promossi dal Comitato Lovegiver di Maximiliano Ulivieri per la formazione degli OEAS, operatori all’emotività, l’affettività e alla sessualità delle persone con disabilità. Una volta formate tali figure professionali, gli incontri tra operatore e assistito prevedono diverse forme di interazione: si passa dal contatto dei corpi, al massaggio, all’insegnare l’autoerotismo per arrivare a stimolare e sperimentare il piacere auto-orgasmico.
Sulla base delle linee guida per gli OEAS elaborate dal Comitato, in collaborazione con Fabrizio Quattrini, psicoterapeuta e psicanalista, socio fondatore e presidente dell’IISS (Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica) tale pratica deve avvenire nel pieno rispetto reciproco e sviluppando un’adeguata empatia. Aggiungo che tale figura professionale aiuterebbe le persone con disabilità complessa. Sarebbe inoltre auspicabile, una volta riconosciuta giuridicamente tale figura, che la prestazione fosse erogata gratuitamente per il tramite del Servizio Sanitario Nazionale, riconoscendo così in pieno il diritto ad una corretta salute sessuale per tutti.
In conclusione, oggi si può notare una generale maggiore apertura sull’amore, l’affettività e la sessualità delle persone con disabilità e un crescente interesse da parte dei media, ma dietro questa apparenza rimangono molte paure e censure da parte di alcune famiglie e di chi si occupa delle persone con disabilità (istituti, case famiglia, caregiver ecc.).
Negli ultimi anni ho avuto modo di conoscere – direttamente e indirettamente – psicologi, medici e genitori aperti a certi argomenti, ma si tratta ancora di singoli casi isolati. Bisognerebbe puntare di più sul contesto e la formazione di tutta la società, anche se è più facile abbattere le barriere architettoniche che quelle culturali. Tutto dipende eccessivamente dalla condizione familiare di partenza. Per questo ritengo fondamentale che lo Stato fornisca alle persone con disabilità gli strumenti per costruirsi una vita indipendente e, contemporaneamente, attraverso la scuola, i media e gli strumenti di informazione, diffonda una piena cultura dell’integrazione e delle pari opportunità. La strada è ancora lunga e in salita, ma ognuno di noi, nella sua quotidianità, può fornire il proprio contributo.