La disabilità è come un tratto di mare: lo si può guardare dalla spiaggia, nuotare, fare snorkeling o immergersi. È sempre lo stesso tratto di mare, ma cambia il paesaggio, il modo di viverlo e le emozioni che si possono provare. Così è la disabilità. Accompagnarsi al suo mondo dà valore ad ogni cosa e porta a comprendere che ogni superficialità ha una sua profondità. Dipende da noi, scoprire le profondità della vita, o vivere nella superficialità dell’essere.
È passato mezzo secolo e più dal tempo dei “matti”, “subnormali”, “storpi” e “mutilati”, relegati in manicomi, in strutture speciali, in laboratori e reparti protetti, o ai margini della società. Culturalmente abbiamo fatto un buon tratto di strada, ma quanta ne avremmo potuto fare se non avessimo ascoltato le sirene della società dei consumi, delle apparenze, delle connessioni online, dell’arido e perdente individualismo che ha caratterizzato gli ultimi decenni?
Ora la maggior parte delle persone con disabilità conduce una vita con gli altri. Una vita, però, spesso parallela e invisibile ai più. Ancora si ritiene che la disabilità appartenga “solo ai disabili”, un’anomalia che colpisce alcuni, un’eccezione alla normalità, non una potenzialità che appartiene ad ognuno di noi, al nostro corpo, alla nostra mente e alla nostra vita.
La disabilità è la difficoltà di fare qualche cosa o di rivestire un ruolo. La disabilità appartiene a ognuno di noi. Siamo tutti disabili e in certi momenti o fasi della vita le nostre disabilità latenti si manifestano. Ognuno di noi è stato disabile in alcuni periodi o è stato costretto a confrontarsi con i propri limiti. Quante cose non abbiamo realizzato per le nostre disabilità! Ma quello che per molti sono state parentesi, incidenti di percorso, aspetti marginali dell’esistenza, per le persone con disabilità sono una costante della vita; sempre dimidiate, divise a metà e spesso esiliate in casa. I disabili sono schiavi perenni della loro disabilità e delle circostanze che hanno attorno.
Comprendo che si parli di inserimento scolastico, di inclusione lavorativa ecc., ma non riesco ad accettare che si parli di inclusione sociale per nessuna diversità. Le persone con disabilità, con diversità non sono un’alterità sociale da portare dentro e da includere! Sono noi tutti e devono essere considerati in ogni noi: uomini, italiani, giovani ecc. La disabilità è solamente un attributo della persona. Ecco perché i disabili non devono essere socialmente inclusi, ma devono essere riconosciuti e legittimati perché sono come tutti.
È indubbio che siano stati fatti passi avanti rispetto al secolo scorso e all’anonimato sociale, alla vergogna, allo scherno, al pietismo e all’emarginazione di quei tempi non remoti, ma non facciamoci confondere e illudere dalla presenza delle persone con disabilità nello sport, nel cinema, nei mass-media. Troppo spesso rischiano di essere protagonisti di un’apparente visibilità e strumento del nascente stereotipo del “super-disabile”. Nella quotidianità la maggior parte delle persone con disabilità vive spazi, luoghi ed esperienze comuni a tutti, ma spesso sono trasparenti, oppure oggetto di attenzioni speciali e a volte vissuti come scomodi compagni, vicini o colleghi di lavoro. Lo stesso uso delle parole, inserimento, integrazione, inclusione, stanno proprio ad indicare che le persone con disabilità non appartengono ancora alla comunità in cui vivono. Inserire, integrare, includere sono infatti tutti sinonimi che stanno ad indicare due realtà, una distante dall’altra e che si vogliono accessibili all’altra.
Nessuno dev’essere incluso perché nessuno dev’essere mai escluso. Nessuno dev’essere fuori dal mondo, dalla società, dalla comunità in cui vive: tutti sono già dentro. La persona con disabilità dev’essere legittimata, ricca dei suoi limiti, capacità, e possibilità. Si continua però nell’errore di considerarli fuori; ma la diversità appartiene a tutti, è una caratteristica dell’uomo, di tutta l’umanità, perché ognuno è diverso dall’altro. Diversità di genere, età, caratteri somatici, di gruppo, di etnia, di cultura ecc. La diversità ci appartiene e pertanto non possiamo includerla, dobbiamo solamente riconoscerla e legittimarla come una peculiarità dell’uomo.
Non c’è uno che sta dentro e uno che sta fuori per diritto di nascita. La diversità, però, continua ad essere negata, rifiutata, osteggiata, ghettizzata, repressa, è per questo che dobbiamo continuare a farne sentire la presenza.
Le persone con disabilità sono considerate una minoranza sociale – nonostante vi siano circa 4 milioni e mezzo di disabili e oltre 10 milioni di familiari – e come tale viene trattata dal resto della comunità. La società moderna ci allontana dal pensiero della morte, della malattia, della disabilità. I modelli che ci vengono proposti sono presentati come perfetti, belli, sani, vincenti, e ci spingono inconsapevolmente verso una quotidianità imperniata dal perenne e frenetico qui ed ora, dal consumismo, dal fare nevrotico; troppo presi per poter pensare che un giorno toccherà anche a noi.
Inconsciamente si pensa che questo appartenga agli altri. Non dobbiamo pertanto parlare di cultura inclusiva, ma di cultura della legittimazione della disabilità e della diversità.
La disabilità appartiene all’uomo come potenziale evoluzione naturale. Quindi nessuno deve portare dentro, ma deve esaltarne l’esistenza e l’appartenenza comune. Dobbiamo fare in modo che la disabilità venga considerata una normale diversità delle persone.
La diversità è prodotta da un pensiero maggioritario: è la maggioranza che stabilisce qual è la normalità e qual è la diversità, quali diversità siano accettabili e quali invece da rifiutare, emarginare o reprimere. Ma ogni diversità appartiene ad un noi che la porta ad essere maggioranza! Io sono sempre un noi!
Purtroppo la quotidianità della maggior parte delle persone con disabilità continua ad essere condivisa solo dai familiari e dagli operatori che se ne occupano. Troppo spesso la famiglia continua ad essere il loro mondo fatto di paure, ansie, sofferenze, vissute nella propria solitudine. Quante vite ingiuste! Quante vite sfrattate! Ancora! Questo fa comprendere che l’appartenenza non è mai un valore scontato e consolidato per sempre. È una perenne lotta per stare dentro, per non essere marginalizzati, espulsi o dimenticati. Quindi solo chi è presente appartiene. È la presenza che stabilisce l’appartenenza e la continua presenza che consolida l’identità personale e il ruolo sociale.
È per questo che bisogna valorizzare ogni forma di inclusione, soprattutto quella scolastica e lavorativa. Anche la Legge 68/99 ([Norme per il diritto al lavoro dei disabili) doveva contribuire alla diffusione della cultura inclusiva, ma la globalizzazione, la crisi economica, la rivoluzione tecnologica, l’inefficacia del sistema di collocamento, e ora la pandemia, hanno allontanato dal mondo del lavoro una fascia sempre più ampia di persone con disabilità, allargando la “fragilità sociale” e indebolendo il processo inclusivo.
Appare inoltre sempre più evidente la mancanza di un progetto strategico complessivo, la carenza di politiche attive adeguate, il clima di superficiale disinteresse da parte delle Istituzioni, mentre la politica è impegnata in altre priorità sociali.
In questa palude sociale si stanno sviluppando l’assuefazione e la ricerca assistenziale come alternativa al bisogno di lavoro. È drammatico anche constatare che questo atteggiamento, unito all’attesa passiva, sta contagiando una schiera sempre più ampia di persone con disabilità. Dobbiamo stare attenti a non farci trascinare nella trappola del tempo veloce, che non lascia spazio per ricordare come stavamo e non ci lascia pensare al futuro che ci attende. È il mondo della disabilità che deve pensare al suo futuro e indicare la strada. Solo dal desiderio di cambiare le cose può nascere il nuovo. Solo dal «pessimismo dell’intelligenza e dall’ottimismo della volontà è possibile un futuro migliore» (Antonio Gramsci).