Sono i nostri amici più fedeli, lo percepiamo dalle loro code festose. Gli animali sono parte della famiglia, come testimoniano tutti coloro che hanno un compagno pelosetto che si aggira per casa.
Nel lungo periodo dei lockdown, l’ENPA (Ente Nazionale Protezione Animali) ha trovato casa a 8.100 cani e 9.500 gatti, oltre il 15% in più rispetto al 2019, tra cui numerosi quattro zampe “di una certa età”. Un piccolo miracolo che – a patto non diventi una moda utile per avere un pretesto per fare una passeggiata fuori casa – rende chiaro quanto sia importante il loro amore incondizionato per affrontare la solitudine e lo stress, a maggior ragione per i cittadini in condizione di fragilità. Pensiamo, ad esempio, ad una persona anziana che vive da sola e ha visto stravolta la routine, cancellate le poche occasioni di socialità come un caffè al bar o un po’ di tempo sulla panchina del parco, oppure i bambini che non possono giocare con gli amici.
Durante la pandemia, l’energia positiva degli animali è diventata ancora più necessaria negli ospedali e nelle case di cura, luoghi in cui la pet therapy (“terapia con gli animali”) ha sopperito all’isolamento e alla lontananza dagli affetti con una carica di buon umore.
Lo sa bene l’associazione Frida’s Friends, dal 2012 operativa nelle attività assistite con gli animali nei principali ospedali del Nord Italia e riconosciuta dalla Regione Lombardia, che ha presentato un progetto rivolto proprio alle persone anziane lombarde sole, per portare la pet therapy a domicilio una volta alla settimana, rispettando le precauzioni anti-Covid, così da monitorare e migliorare la condizione psicologica di questa fascia di popolazione.
Il difficile momento che stiamo vivendo è anche un’occasione per trovare risvolti positivi che potranno diventare la prassi a fine emergenza e, nel nostro caso, per andare alla scoperta del rapporto uomo-animale nel quale la reciprocità è il filo conduttore.
Se è vero che nei templi greci dedicati al dio della medicina Esculapio si trovavano numerosi cani che portavano sollievo ai malati in preghiera, è chiaro che da sempre l’uomo sa che la vicinanza di un animale genera benefìci psicofisici. E se in principio era una convinzione empirica, oppure basata su credenze popolari (ad esempio alla fine del Cinquecento si pensava che i cani di razza spaniel guarissero i mali dello stomaco), lentamente questo tipo di attività ha assunto una forma medico-scientifica.
Sigmund Freud aveva diversi cani, tra cui Jofi che spesso restava nel suo studio durante le sedute. Fu così che il padre della psicanalisi notò l’effetto calmante che l’animale aveva sui pazienti, pareva in grado di capire il loro stato emotivo.
Ad analoghe conclusioni arrivò anche Florence Nightingale, la fondatrice dell’infermieristica, che scrisse come la compagnia di un piccolo animale potesse essere una terapia eccellente per pazienti affetti da patologie croniche.
Non si chiamava ancora pet therapy, eppure c’erano da parecchi anni tutte le premesse per la sua nascita e sviluppo. Già nel IX secolo, infatti, le persone con disabilità venivano affiancate ad alcuni animali in Belgio, nella città di Gheel, ma è nell’Europa del Settecento illuminista che in diverse case di cura si cominciarono ad introdurre animali da compagnia e da cortile, soprattutto per supportare il percorso delle persone con disagio mentale.
Il pensiero filosofico che metteva al centro l’essere umano si fece strada negli ospedali, vennero aboliti i sistemi di contenzione più severi, ai ricoverati fu concesso l’utilizzo dei propri abiti, e venne introdotta la terapia occupazionale, che incoraggiava i pazienti a prendersi cura di conigli, polli, anatre ed oche.
Il primo studio risale al 1792; in quell’anno il filantropo William Tuke utilizzò con successo questa innovativa terapia presso il York Retreat Hospital, in Inghilterra, riscontrando un miglioramento dell’autocontrollo. Presto imitata da tutti i nosocomi psichiatrici inglesi, la pratica venne ripresa dall’ospedale di Betlemme. Mentre nel 1865 in Francia iniziò ad essere prescritta l’equitazione per persone con problemi neurologici, un coadiuvante che migliorava equilibrio e controllo muscolare, in Germania, nell’istituto per pazienti con epilessia Betheld Hospital di Bielefeld, cani e gatti divennero parte dei trattamenti di recupero. In seguito l’ospedale diventò un centro per le persone con disabilità e nel corso degli anni furono oltre cinquemila i degenti che si presero cura di piccoli animali.
Un’importante inversione di tendenza vi fu poi tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, periodo che vide in àmbito medico la creazione di ambienti sterili nei quali gli animali, generalmente, venivano banditi, in quanto considerati un pericolo per la salute.
Al termine della prima guerra mondiale, sia in Francia che negli Stati Uniti, i reduci tornati con depressione, schizofrenia e altri disturbi emozionali ritrovarono in parte la serenità grazie alla vicinanza dei cani, impiegati come assistenti negli ospedali. La pet therapy, così come la concepiamo oggi, nacque casualmente e, come per Sigmund Freud, grazie al cane di un medico accucciato nello studio del suo padrone.
Era il 1953 quando il neuropsichiatra infantile Boris Levinson non sapeva più a quale intervento sottoporre un bambino affetto da una grave forma di autismo. Un giorno il piccolo venne accompagnato alla consueta seduta in anticipo, il medico lo fece accomodare in attesa nell’ambulatorio dove si trovava il suo cocker, Jingles. Tra il cane e il bambino scattò un’intesa speciale, il primo cominciò a leccare il giovane paziente che a sua volta accarezzava l’animale senza alcun timore. Da allora la presenza di Jingles divenne indispensabile in ogni incontro e il rapporto che si era stabilito permise allo psichiatra di curare meglio il bambino il quale, proiettando sull’animale le proprie emozioni, in maniera indiretta riusciva finalmente ad esprimersi.
Levinson effettuò altre sperimentazioni ed osservazioni che nel 1961 raccolse nella pubblicazione The Dog as Co-Therapist, dove elaborò la teoria della psicoterapia infantile orientata con l’uso di animali (Pet Oriented Child Psychotherapy), dimostrando che la relazione tra esseri appartenenti a specie diverse poteva avere effetti curativi.
Per la prima volta venne utilizzata la definizione pet therapy che, a partire dalla metà degli Anni Sessanta, venne adottata su pazienti adulti con disturbi psichici e persone anziane.
Due psichiatri americani, Samuel ed Elisabeth Corson, studiarono l’interazione uomo-cane su un gruppo di persone ricoverate nell’ospedale dove lavoravano, indagando il sentimento di protezione e interdipendenza dell’animale che si rapporta all’uomo senza pregiudizi. I cani vennero introdotti nei reparti e furono coinvolte diverse razze canine, ognuna delle quali aveva caratteristiche peculiari che si adattavano a differenti tipologie di pazienti: il beagle era energico, il labrador più giocoso, l’husky gioviale, il pastore tedesco dal carattere equilibrato, il collie instancabile, e via dicendo.
I filmati realizzati durante la terapia non solo permisero di acquisire informazioni sulla storia clinica dei pazienti, ma dimostrarono senza più ombra di dubbio che questo genere di incontri riduceva le emozioni negative.
Dagli Anni Settanta negli Stati uniti la Pet Facilitated Therapy (“Terapia facilitata dall’uso di animali da compagnia”), come la battezzarono i due studiosi, venne introdotta nei manicomi criminali e nelle carceri, e si cominciò ad impiegarla su pazienti con problemi cardiovascolari. Era provato che le persone colpite da infarto e proprietarie di un cane vivevano più a lungo, venne dimostrato scientificamente che il contatto con un animale a pelo caldo riduceva la pressione sanguigna e la frequenza cardiaca.
Oggi sappiamo che tra gli “effetti collaterali” positivi con i cinque animali della pet therapy (cane, gatto, asino, cavallo e coniglio) figurano anche l’aumento della serotonina e la diminuzione del cortisolo, rispettivamente l’ormone della felicità e quello dello stress, oltre a rendere più sopportabile il dolore.
Paziente, terapeuta e animale: ispirandosi a questo “triangolo” nel 1981 prese il nome la Delta Society, Associazione americana per lo studio degli effetti sulla salute umana legati alla compagnia degli animali. Una curiosità: nella definizione ufficiale, mentre therapy significa letteralmente terapia, con la parola pet si intende sia il sostantivo “animale” che i verbi “accarezzare” e “coccolare”.
In Italia se n’è parlato per la prima volta durante un convegno a Milano, nel 1987, e soltanto nel 2005 si è arrivati ad un documento ufficiale del Comitato di Bioetica, frutto di tre anni di lavoro, che ne evidenzia le implicazioni relazionali, deontologiche ed etiche, cui è seguita nel 2009 l’istituzione del Centro di Referenza Nazionale per gli Interventi Assistiti con gli Animali.
Sebbene ancora oggi la pet therapy non sia sviluppata su tutto il nostro territorio in modo omogeneo, nelle Regioni dove viene praticata si possono individuare tre tipi di attività: quelle ludiche con i bambini negli asili e nella scuola primaria di primo grado, l’educazione assistita con bambini affetti da disturbi cognitivi, effettuata da un conduttore, un educatore e in alcuni casi da un medico, e infine le vere e proprie terapie, anche per adulti, nelle quali la presenza di un animale permette di fare interventi mirati sulla patologia.
Per quanto riguarda la pet therapy negli ospedali, molto interessante è la realtà toscana che ha preso il via dell’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze, un’esperienza ormai consolidata, inizialmente attuata in uno spazio dedicato e, in seguito, direttamente accanto ai letti di degenza. Dal 2014, inoltre, al Santa Maria Nuova di Firenze e in alcuni hospice della zona, grazie a una Delibera Regionale ad hoc, è l’animale domestico del paziente ricoverato ad entrare nel reparto per favorire la continuità relazionale.
Nelle conclusioni a cui è giunto il Comitato di Bioetica nel 2005 si legge tra l’altro: «Se non possiamo pretendere che gli animali diventino i “guaritori” delle nostre malattie, quello che potremmo forse, ragionevolmente, attenderci è che, grazie alla loro presenza, e con l’aiuto di opportune condizioni e strategie appropriate, possa instaurarsi un buon rapporto di cura».
Introdotta nelle Unità Spinali italiane dal 2004, si è notato che la pet therapy, oltre ad offrire miglioramenti sul piano psicosociale, può effettivamente essere un aiuto per le performance motorie e le autonomie, nel concreto della vita quotidiana. Il concetto di “rapporto di cura” si amplia, dunque, e, nel caso dei cani, l’animale diventa un autentico aiutante non umano per sbrigare compiti altrimenti impossibili. Si può infatti addestrarli in modo che accendano interruttori, aprano e chiudano porte, raccolgano da terra oggetti caduti, senza rosicchiarli, ma posandoli sulle gambe della persona seduta, oppure fare in modo che con un colpo del muso sollevino una mano caduta tra i raggi delle ruote della sedia a rotelle.
Il migliore amico dell’uomo lavora in squadra con il compagno bipede fin dagli albori della civiltà, ben prima che se ne parlasse in termini di “terapia”, perché il sodalizio porta sicurezza a entrambi e nel tempo il legame ha trovato sempre nuove modalità. Basti pensare ai cani guida per persone non vedenti, una risorsa per la vita indipendente.
Scelti da cuccioli in base a indole, forza, carattere e resistenza, devono seguire un lungo percorso di addestramento nel quale imparano a stare al guinzaglio seguendo l’andatura della persona, la fanno salire sui mezzi pubblici e attraversare la strada, segnalano gradini e altri ostacoli. Il cane guida è un amico instancabile che sorregge la libertà di chi non vede, un amico che deve essere trattato in modo opportuno per lavorare al meglio. Avendo bisogno di concentrazione, se ne incontriamo uno nello svolgimento delle sue funzioni, non dobbiamo fischiare o chiamarlo perché potrebbe distrarsi e mettere in pericolo la persona accompagnata.
Questo particolare che pochi conoscono ci introduce nel discorso del rispetto verso gli animali che assistono l’uomo. Le regole guida della pet therapy chiariscono che la salute dei pazienti non può essere conseguita a danno dell’integrità degli animali: è proibito, infatti, il ricorso a quelli selvatici ed esotici e a cuccioli di età inferiore ai sei mesi.
Dopo averne valutati lo stato sanitario, le capacità fisiche, la socievolezza e la docilità, ogni intervento non deve comportare per l’animale dolore, fatica o stress; controlli periodici garantiscono un giusto impiego e il permanere delle condizioni idonee. Una volta raggiunta la “pensione”, gli animali vengono dati in adozione, anche a privati cittadini, e per quelli utilizzati a fini alimentari come i cavalli è severamente vietata la macellazione.
Ma durante l’attività qual è lo stato d’animo dei quattro zampe? Uno studio americano del 2018, svolto dall’Associazione animalista American Humane su un centinaio di pazienti e ventisei cani nei reparti di Oncologia Pediatrica di cinque ospedali, non ha rilevato alcun segno di nervosismo. Non solo il livello di cortisolo non subisce modifiche significative quando entrano in contatto con i pazienti, ma le reazioni analizzate mostrano addirittura entusiasmo, soprattutto quando un bambino parla, li accarezza o usa con loro un giocattolo.
All’inizio di questo approfondimento abbiamo parlato di “reciprocità” nel legame uomo-animale e ci sono due luoghi dove questo dare-avere si tocca con mano.
Il primo si trova in Israele, a Moshav Olesh. In una fattoria chiamata Freedom Farm, duecento animali in difficoltà, perché con disabilità o anziani, hanno trovato una seconda vita. Ci sono Nir, la mucca con una protesi comprata con una raccolta fondi su Internet, Omer, la capretta cieca, e l’asino con tre zampe Miri. Insieme agli altri abitanti del rifugio fanno da “guida” ai visitatori, grandi, piccini e intere famiglie, ma soprattutto tanti bambini e bambine con disabilità che, incontrando animali con le loro stesse difficoltà, imparano anche a conoscere se stessi.
Una storia simile si ha ad Austin, in Texas, nella fattoria di Jamie Wallace-Griner e suo marito. I coniugi hanno adottato un cane, Angel, per aiutare il figlio con autismo a superare le paure e mostrare le sue sensazioni. Il risultato è stato tanto sorprendente da spingerli a comprare un ranch che dal 2014 è diventato la casa di animali con bisogni speciali, animali da compagnia, ma anche da cortile, come maiali, volatili, conigli e pecore. Tutti provengono da situazioni difficili, alcuni hanno subito maltrattamenti, altri hanno bisogno di ausili come carrellini per camminare.
La fattoria, che sostiene le cure sanitarie attraverso un’organizzazione non-profit che accetta donazioni, è un centro di riabilitazione a doppio senso: da un lato cura gli animali e in alcuni casi riesce a farli adottare, dall’altro vi sono i bambini e le bambine con disabilità, che nel ranch si confrontano con i loro “omologhi” e scoprono che determinate condizioni fisiche possono colpire tutti, altro non sono che una sfaccettatura del mondo.