Come previsto dai Decreti Legislativi 66/17 e 96/19, è stato dunque da poco emanato il nuovo PEI Unificato (Piano Educativo Individualizzato) per ciascun grado di studi. Si tratta di un’innovazione enorme, che permette di uniformare il linguaggio e le modalità di progettazione educativa personalizzata. Come ogni innovazione, però, ha portato con sé una grande quantità di polemiche, allarmismi, dibattiti, a volte amplificati da quella gran cassa di risonanza che sono i social.
Intanto, en passant, bisognerebbe verificare quanti si siano dati il disturbo di leggere attentamente questi nuovi modelli e il Regolamento allegato. Non è per altro mia intenzione entrare nel merito dei dettagli, molto più autorevolmente trattati da altri che da me, come ad esempio dal professor Nocera su queste stesse pagine [si legga l’articolo “Continui il dialogo sui nuovi Piani Educativi Individualizzati”, N.d.R.]. Mi interessa maggiormente concentrarmi sugli aspetti sostanziali del “perché” di tale dibattito e dell’esasperazione di certi toni.
Per me il “dito” che tutti stanno fissando è il nuovo PEI, mentre la “luna” è l’inclusione scolastica, quella vera, reale. In altre parole, penso alla distanza fra le disposizioni legislative e le prassi operative.
Se avessi infatti un centesimo per tutte le volte in cui mi sono sentita chiedere «porteresti il bambino a fare un passeggiata, mi pare stanco?» (con diverse variazioni), presumo potrei smettere subito di fare l’assistente all’autonomia e alla comunicazione e ritirami in campagna.
La lotta per evitare l’esclusione de facto è lunga e perigliosa ancora e non sarà un nuovo modulo a ratificarla, dipenderà invece dalla creazione di una sensibilità specifica che ha radici tecniche. Ciò che i latini definivano Cui prodest?, ovvero “per chi ha senso?”.
Anni fa, in una scuola dell’infanzia, di concerto con l’insegnante curricolare e con il sostegno, avviai un progetto di continuità verticale e socializzazione, svolgendo – una volta alla settimana e con una durata di mezz’ora circa – un piccolo laboratorio di informatica, allo scopo di creare un piccolo gruppo che avrebbe accompagnato l’alunno al ciclo successivo (quindi con fini socializzanti) e che, al contempo, sfruttasse una competenza specifica dell’alunno stesso (la sua abilità al computer), per farne il tutor dei suoi stessi compagni e aumentarne il senso di autoefficacia.
L’anno successivo, cambiati la curricolare e il sostegno, non mi fu più consentito, perché «l’assistente non può stare da sola con gli alunni, neanche col proprio» (queste normative tendono a variare da scuola a scuola, o anche da classe a classe, a volte…).
Probabilmente, sotto un profilo legale era anche corretto, ma aveva senso ai fini dell’inclusione scolastica dell’alunno? So solo che, all’inizio della scuola primaria, l’alunno in questione ebbe un gruppo di compagni che gli fecero da supporto affettivo e organizzativo per il passaggio ad un altro ciclo e fu più facile gestirne l’inserimento.
Dunque la questione è più profonda. E pragmatica.
Diamo per scontato che il modello full inclusion [“piena inclusione”, N.d.R.] sia il migliore possibile e quindi riteniamo che debba essere realizzato sempre e con tutti. E allora come si spiega che finora le cosiddette “aule H” (orrore e raccapriccio!) siano ben presenti e radicate nelle scuole italiane? Come si può ancora spiegare il passeggio in giardino o alle macchinette del caffè mano nella mano con il proprio alunno/a? Oppure, al contrario, come si spiega che un alunno/a possa restare in classe otto ore sulla sua sedia, seppure colga appena l’idea di dove si trova, con chi e perché?
Non si tratta di ratificare una cattiva abitudine, si tratta di trasformarla, laddove ve ne sia assoluta necessità e un senso, una cornice, in un progetto, possibilmente cooperativo e socializzante, teso ad un obiettivo chiaro e definito, che arricchisca l’alunno di competenze. Di cui tutti condividano obiettivi, strumenti, tempi, modalità. Perché non bisogna dimenticare che un progetto educativo si costruisce sull’alunno, cui non può essere applicato un principio a prescindere, per quanto giusto e moralmente alto.
Si tratterebbe anche di discutere se davvero le modalità correnti con cui siamo abituati a pensare la didattica siano in grado di rispondere a necessità inclusive. Se cioè una lezione frontale e trasmissiva possa essere tollerabile da un alunno che ha magari difficoltà di comprensione e decodifica verbale per ore.
Che esistano molti modelli alternativi è certo. Sarebbe possibile, ad esempio, utilizzare modelli dialogici, cooperativi, supportare il verbale col visivo (le LIM-Lavagne Interattive Multimediali, se ci fossero…).
Sono modelli, questi, dimostratisi , alla luce di meta-analisi approfondite, assai più efficaci ed efficienti di quelli tradizionali (John Hattie, Visible Learning, 1981).
Si tratta delle strategie didattico educative che funzionano così:
° Discussione in classe (Debate).
° Lavoro sulle aspettative degli studenti.
° Chiarezza e competenza dell’insegnante.
° Cooperative Learning [“apprendimento cooperativo”, N.d.R.].
° Gestione della classe (Soft Skill: combinazione delle abilità delle persone; competenze socio-emotive).
Eppure queste metodologie sono ancora del tutto residuali.
Difficoltoso appare, inoltre, effettuare una ricognizione qualitativa e quantitativa dell’efficacia dell’inclusione scolastica. Credo infatti non sia sufficiente “dare i numeri” e indicare quanto personale c’è a disposizione. Si dovrebbe poter valutare, sul medio e lungo periodo, quanti dei nostri alunni in difficoltà abbiano raggiunto una soddisfacente autonomia adulta e realizzato almeno una parte di un Progetto di Vita più ampio.
Ci sarebbe la possibilità di utilizzare uno strumento tutto sommato semplice che è l’Index per l’Inclusione, che coinvolge la comunità educante tutta: insegnanti, istituzione scolastica, genitori, alunni, e che serve a valutare la policy di quella specifica scuola [il complesso delle azioni messe in atto, N.d.R.], ma non mi risulta che esso venga utilizzato.
Il nuovo PEI, in questo senso, introduce la possibilità di utilizzare uno strumento standard, quindi più facilmente verificabile.
Ci sono carenze di organico, di docenti specializzati sul sostegno, di formazione iniziale (soprattutto pedagogica, ma anche psicologica) e continua, carenze strutturali (spazi e tecnologie) che ci allontanano dalla “luna”, senza contare l’annoso problema della continuità didattica e educativa.
Che poi il PEI in questione (e il relativo Regolamento) presenti criticità, esuberanze verbali e aspetti discutibili (uno per tutti: si basa su un documento che non esiste, il Profilo di Funzionamento) è fuor di dubbio. Ma tant’è, non è inciso sulla pietra. Dunque presumo che potrà essere modificato, specie quando, all’attuazione pratica, emergeranno le criticità.
E mi piacerebbe, a questo punto, introdurne una nuova, di cui nessuno sembrerebbe essersi accorto, credo, per un motivo molto specifico.
Quando, nel corso di un webinar di presentazione del Ministero ci si è soffermati sul GLO (Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione), si è parlato di personale specializzato, ovvero degli «insegnanti di sostegno e altro». Ebbene, alla voce “altro” ci sono i quasi 60.000 assistenti all’autonomia e alla comunicazione d’Italia, ovvero poco meno del 30% del personale specializzato che si occupa degli alunni e delle alunne con disabilità.
I motivi di questa svista? Li conosciamo bene: siamo gli “ospiti” della scuola, quelli che non si sa da chi, come e perché vengono gestiti, che appaiono e scompaiono come i dischi volanti!
La novità è che uno di questi motivi lo troviamo anche nel nuovo PEI e su quello che spero sia solo un equivoco di fondo. Se infatti salutiamo con favore la distinzione fra assistenza di base (riquadro di sinistra, dedicato agli ATA-Ausiliari Tecnici Amministrativi) e assistenza specialistica (riquadro di destra), non può non saltare agli occhi il riquadro in cui si definiscono, basilarmente, le funzioni dell’assistente all’autonomia e alla comunicazione. Vi si specifica, infatti, che le sue funzioni sono legate alla comunicazione per disabilità, sorvolando sugli aspetti pragmatici e socializzanti della comunicazione stessa, che sono il vero messaggio della comunicazione.
Più in basso, poi, si sostanzia l’intervento per l’autonomia nella “cura di sé” e nella “mensa” (in cui però l’assistenza materiale spetta agli ATA, come da riquadro di sinistra).
È proprio questo termine – “cura di sé” – che sa di inclusione mancata, che esclude, dal computo di cosa sia un intervento finalizzato all’autonomia, tutto quegli aspetti che determinano il passaggio dall’autonomia all’autodeterminazione dell’alunno.
L’autonomia scolastica, ossia la capacità di aderire alle regole sociali e ai tempi scolastici senza costrizione, ma per il piacere di rispettare tutti insieme le stesse regole (“educazione collettiva”, per citare Maria Montessori) , l’autonomia nella gestione delle proprie cose, nel pianificare e svolgere piccoli e grandi apprendimenti (da generalizzare in tutti i contesti, possibilmente).
Questo per fare un elenco non esaustivo di quali declinazioni abbia l’autonomia nel PEI come Progetto di Vita. Assente del tutto è la socializzazione, appunto.
Qui qualcuno potrebbe eccepire – come mi è accaduto, del resto – che ciò non spetta all’assistente all’autonomia e alla comunicazione. Peccato, però, che ormai la maggior parte dei regolamenti e mansionari d’Italia richiedano questa mansione/funzione da molto tempo, e che venga svolta nei fatti, come nell’esempio descritto sopra.
Il nuovo PEI è il frutto di un adempimento previsto dalle normative vigenti le quali prevedono e da molto tempo, la normazione definitiva della mansione di assistente all’autonomia e alla comunicazione in un profilo unitario. Ma senza una discussione aperta, sensata, progettuale di ciò che occorre realmente, si potrebbe trattare dell’ennesima scatola vuota.
La strada per la “luna”, quindi, è ancora lunga e accidentata. Potremmo avviarla, a mio modestissimo parere, solo se avessimo:
– docenti motivati, preparati, naturalmente inclini a trarre reciproco piacere dal rapporto con gli alunni tutti, capaci di ascoltarli e valorizzarli tutti; docenti sempre aggiornati e attenti alle tendenze della pedagogia e psicologia dell’educazione; docenti in grado di utilizzare modelli di costruzione della conoscenza reciproca e dialogica, e non solo trasmissiva;
– scuole in grado di reggere la sfida della tecnologizzazione e dei nuovi linguaggi, in grado di utilizzare correttamente tutte le tecnologie, normali, assistive e compensative di cui gli studenti necessitano, siano essi BES (con Bisogni Educativi Speciali) o semplicemente nativi digitali con uno stile di apprendimento che non corrisponde al nostro;
– centri specializzati e pubblici in grado di erogare supporto a scuole e famiglie, terapie affidabili agli alunni, parent training alle coppie genitoriali in difficoltà;
– figure strumentali per l’inclusione in grado di dirigere, accogliere, supportare docenti e famiglie in quel processo accidentato che è la costruzione dell’alleanza educativa la quale è il frutto di un lavoro di gruppo guidato con mano sicura e autorevole (che non è il Patto di Corresponsabilità, una legge che è tutto sommato, solo sulla carta, l’ennesimo adempimento), sicché c’è bisogno di una direzione del gruppo di lavoro in grado di gestire, con leadership adeguata, le dinamiche complesse che si creano sul piano comunicativo ed emozionale fra i vari attori in gioco;
– sistemi di monitoraggio e valutazione del processo inclusivo basati su criteri chiari e univoci e che abbiano il solo fine di ottimizzare e valorizzare i processi;
– indicazioni chiare su ruoli e l’operatività dei singoli professionisti, da utilizzare secondo necessità e bisogni, esaltando la professionalità di ciascuno in un’ottica di collaborazione d’équipe, secondo un modello ecologico delle competenze e in cui, possibilmente, non ci siano “lavoratori ospiti”, come noi assistenti all’autonomia e alla comunicazione.
Un “Libro dei Sogni”? Non lo credo; al di là di rigidità ideologiche, manifestazioni di disappunto, piccoli rancori personali che contrappongono ogni giorno, in maniera sotterranea, alunni e docenti, docenti e genitori, docenti di sostegno e assistenti all’autonomia e alla comunicazione, e via variamente guerreggiando inutilmente, disperdendo energie e motivazione.
Quei passaggi costituiscono ciò che servirebbe a colmare la distanza fra le intenzioni dei legislatori e ciò che produrrebbe il cambiamento, ossia una società più equa e giusta o meglio, per restare in tema, l’inclusione, quella vera, quella che non c’è, quella che vorrei con tutto il cuore. Oppure continueremo tutti, saecula saeculorum, a fissare il nostro “dito”.