In altre parole. Dizionario minimo di diversità è un libro uscito recentemente (Effequ Editore) di cui è autore Fabrizio Acanfora. La prefazione è a cura di Witty Wheels, ovvero delle sorelle Elena e Maria Chiara Paolini, attiviste per i diritti delle persone con disabilità e impegnate nel contrasto all’abilismo.
Acanfora è una persona autistica che coordina un Master all’Università di Barcellona ed è membro del Comitato Scientifico di un Master all’Università LUMSA di Roma. Si occupa di inclusione della diversità in ambito aziendale, come consulente di diverse compagnie. Ha una spiccata passione per la musica, è pianista e clavicembalista, con un passato da costruttore di clavicembali.
L’idea di scrivere il testo, una sorta di guida-vademecum per il corretto utilizzo di certi termini sui concetti di diversità, gli è nata durante la presentazione del suo precedente libro (Eccentrico. Autismo e Asperger in un saggio autobiografico, Effequ Editore 2018), che parla di autismo, e scaturisce anche da conferenze, lezioni e una serie di webinar nei quali ha visto che «certe dinamiche non erano valide esclusivamente per la minoranza autistica, ma potevano essere applicate a tante altre categorie della diversità», come dice egli stesso.
Come mai ha scelto questo titolo? «Il titolo – risponde – rispecchia l’idea alla base del libro: analizzare da un punto di vista linguistico, emotivo o storico e sociale alcune parole chiave che ruotano intorno al concetto di diversità. Ho voluto mostrare quanto il linguaggio influenzi sia la percezione delle persone che vediamo come differenti da noi, che il modo in cui modelliamo la società nella quale viviamo, e che molte volte tende ad escludere chi ha caratteristiche nelle quali non si riconosce».
La premessa si intitola Contro l’inclusione, scelta volutamente provocatoria, come racconta Acanfora: «Il problema nel concetto di inclusione sta nel fatto che è un processo verticale: è un atto dal carattere fortemente paternalistico con cui la maggioranza “normale”, oppure “sana”, concede l’ingresso nel proprio gruppo a una minoranza o a un individuo percepiti come “diversi”. Se ci si riflette, però, le cosiddette minoranze si trovano a subire passivamente questo processo, al quale quasi mai partecipano in modo paritario. C’è un forte squilibrio di potere tra chi include, che decide se e come farlo, e chi viene incluso, che vede questa possibilità come una concessione. Personalmente preferisco utilizzare una definizione più neutrale come “convivenza delle differenze”, che presuppone una parità di dignità, diritti e potere tra maggioranza e minoranze, e soprattutto una mutua responsabilità tra le categorie».
Il testo è suddiviso in trenta capitoli, ciascuno dei quali focalizzato su un termine specifico. Eccone alcuni.
Autorappresentanza: secondo Fabrizio «l’inclusione, come la pensiamo oggi, manca di “autorappresentanza”, che è una delle voci che spiego, ed è il diritto di rappresentare se stessi. È interessante notare che è un diritto che la maggioranza dà per scontato, ma ad alcuni, come le persone autistiche o disabili, non è sempre garantito, tant’è che gli stereotipi che girano su certe categorie sono frutto della visione distorta che ne ha la maggioranza, e non di una narrazione in prima persona».
Diversità: ci sono due voci intorno alle quali si sviluppa tutta l’idea del libro. «La prima – spiega Acanfora – è il concetto di diversità, che a mio modo di vedere non va intesa in termini comparativi come contrario di normalità. Io mi rifaccio all’idea di biodiversità, e quindi utilizzo la parola diversità come sinonimo di variabilità dell’esperienza umana, delle caratteristiche che ci contraddistinguono e ci rendono tutte e tutti diversi sotto differenti aspetti».
Intersezionalità: la seconda parola chiave è intersezionalità, un termine che spiega come differenti caratteristiche possano intersecarsi tra loro. «E per caratteristiche intendo anche quelle che possono diventare causa di oppressione o esclusione. Una persona può avere ad esempio un orientamento sessuale differente dalla “norma”, e per questo essere discriminata. Ma potrebbe essere contemporaneamente neurodivergente, avere un colore della pelle diverso da quello della maggioranza della popolazione, e professare una religione minoritaria. Tutte queste caratteristiche e tante altre non possono essere separate, ma costituiscono l’identità di una persona, si intersecano».
Discriminazione: letteralmente discriminare significa differenziare, distinguere tra due oggetti o persone. «Per una serie di motivi tanto culturali quanto legati alla nostra evoluzione biologica – si legge nel libro -, come la rivalità tra gruppi o lo sviluppo di sistemi autoritari col fine di tramandare informazioni e tecniche, questa naturale tendenza a creare distinzioni, a scegliere, si è stratificata ed evoluta culturalmente in comportamenti socialmente discriminatori, che escludono chi percepiamo come diverso. E noi, a tali comportamenti, dobbiamo fare molta attenzione perché la consapevolezza rende responsabili».
Normodiversità: «Con la creazione dell’ideale di normalità nella seconda metà dell’Ottocento – scrive Acanfora – la diversità è stata ingabbiata in categorie di cui la più estesa (denominata maggioranza o normalità) determina le sorti delle altre. Le persone, divise in categorie diagnostiche, sociali o culturali, vengono discriminate (nel senso sia di differenziate che giudicate e ghettizzate) in base alle loro caratteristiche, così anche le loro differenze, entro certi limiti dettate da un concetto di inclusione paternalistico e assimilativo, diventano tollerabili, parte del panorama quotidiano seppure considerate a volte come esotiche, altre come indesiderabili».
Il presente contributo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Il libro che guarda all’inclusione con un altro punto di vista”) e viene qui ripreso – con minime modifiche dovute al diverso contesto – per gentile concessione.
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