Senza alcuna retorica si può affermare che diventare ed essere genitori sia una delle esperienze più coinvolgenti e in qualche modo sconvolgenti nella vita di una persona e di una coppia. Quanti sogni e desideri, prima ancora che l’attesa di un bambino sia realtà, non meno che apprensioni, paure e ansie che dal primo momento abitano il cuore e la mente dei futuri genitori e poi dei neogenitori e che li accompagnano per tutta la vita. Ansie riguardo al figlio, alla sua salute, al suo futuro, ma anche relative alla loro stessa capacità di essere genitori e di dare al figlio tutto quello di cui ha bisogno.
Se quanto detto è vero per tutti i genitori, risulta ancor più amplificato se i genitori in questione sono persone con disabilità.
Innanzitutto ci dobbiamo chiedere se è riconosciuto il diritto delle persone con disabilità a essere genitori e ancor prima se la persona lo riconosce a se stessa. Non è una questione di pura filosofia: io, donna e moglie con disabilità, per anni mi sono chiesta se sarebbe stato giusto mettere al mondo un figlio destinato a vivere una condizione particolare, a confrontarsi con gli altri che non avrebbero avuto i suoi problemi e che magari lo avrebbero deriso o messo a disagio. Ho il diritto di fare questo a mio figlio?
Io e mio marito, anch’egli disabile, non ci siamo dati una risposta teorica, ma questo diritto ce lo siamo presi, mettendo al mondo nostra figlia, che oggi ha 13 anni.
Scelta azzardata? Forse per alcune persone sì, e tale opinione, come tutte, va rispettata; io però penso di no, se e solo vivendo ogni momento con consapevolezza e responsabilità. Nessuno può sapere o ipotecare il futuro, quindi non ha senso, secondo me, porsi i problemi prima del tempo, ma bisogna affrontarli man mano che si presentano, non negandoli, ma nemmeno amplificandoli.
Ripensando a questi tredici anni, devo dire che per me i più difficili sono stati i primi; potrebbe sembrare un’affermazione ovvia e banale, nel senso che per tutti i genitori l’avere a che fare col proprio bimbo piccolo che dipende in tutto e per tutto da loro è faticoso e complicato. Quello che però voglio dire è un’altra cosa e mi spiego: io ho sempre saputo che se avessimo avuto un figlio, io e mio marito, che vivevamo da soli, seppur con l’aiuto delle rispettive famiglie, avremmo dovuto avere una persona che vivesse con noi e che ci aiutasse nella cura del bambino. Pensavo che fosse una cosa per me ovvia e quindi accettata; ho scoperto invece che non era affatto così, che non era così automatico accettare che un’altra persona si prendesse cura della mia piccola, che io non potessi fare quello che fa ogni madre. Ho dovuto intraprendere un percorso di accettazione, di rielaborazione della mia situazione personale anche in relazione alla mia bambina, alla persona che ci aiutava – con la quale ho dovuto trovare un equilibrio e il modo giusto di rapportarmi -, a tutti gli altri che ci circondavano, ma soprattutto a me stessa.
Il tempo è stato il miglior medico e consigliere: ho trovato il mio modo di essere madre, aiutata anche dal fatto che Chiara cresceva e che quindi è stato per me via via più facile trovare le modalità più idonee di relazionarmi con lei.
Questo mi porta a fare una riflessione più generale; io ho sentito la mancanza di servizi, di persone esterne alla mia cerchia familiare e amicale, che potessero supportarmi con competenza e professionalità fin dai primi momenti della gravidanza. La mia non vuole essere tanto una recriminazione, quanto una semplice costatazione di un dato di fatto che per altro ha una sua logica.
Se infatti pensiamo che fino a qualche decennio fa per le persone con disabilità si parlava ancora di scuole speciali e istituti, che l’inserimento scolastico e lavorativo – sui quali per altro ci sarebbe tanto da dire – sono conquiste abbastanza recenti, è logico che si faccia fatica a pensare alle persone disabili come genitori e quindi a progettare servizi che possano essere loro di supporto in questo senso. Ritengo tuttavia che sia una strada da intraprendere, incominciando banalmente, ma neanche tanto, col rendere accessibili gli studi medici e ginecologici, col formare medici e sanitari sui problemi che una donna con disabilità può incontrare durante la gravidanza e nel periodo immediatamente successivo alla nascita del bambino. Sarebbe anche importante creare momenti di scambio e confronto tra genitori con disabilità, gruppi di donne che potessero parlare del loro vissuto, esprimere le gioie, non meno che le paure e le difficoltà e magari beneficiare dell’esperienza di chi è più avanti nel percorso.
Sempre partendo dalla mia esperienza, non posso esimermi dal dare un giudizio positivo sulla scuola, su come gli insegnanti, gli alunni e i genitori si siano relazionati con noi e soprattutto con Chiara.
Come dicevo all’inizio, una delle mie paure era che alla bambina potesse in qualche modo venir fatto pesare l’essere in una situazione particolare, avere due genitori la cui diversità dagli altri è molto evidente. Spesso i bambini, non per colpa loro, sanno essere cattivi e ferire; e anche gli adulti a volte hanno comportamenti dettati da pregiudizi e chiusura.
Tutto questo, in dieci anni di scuola, non c’è stato; tutti si sono relazionati con noi tre nella massima normalità, pronti ad aiutarci laddove ne avessimo bisogno – penso alle attività extrascolastiche con le famiglie, cui abbiamo sempre partecipato – senza alcuna difficoltà o imbarazzo. Certo, anche da parte nostra c’è stato lo sforzo di essere sempre presenti e favorire questa relazione positiva, ma devo dire che questi sforzi, almeno fino ad ora, sono stati ampiamente ripagati.
Ho lasciato per ultimo l’argomento più importante: Chiara, come vive il nostro essere una famiglia “particolare”? Come noi cerchiamo di aiutarla nel suo cammino?
Non è questa la sede più opportuna per toccare aspetti molto personali, è tuttavia innegabile che alcuni momenti e alcune situazioni siano molto faticosi: penso ad esempio al turn over di assistenti familiari che abbiamo avuto che è molto gravoso sia sul piano pratico, quello cioè di adattarsi a una nuova persona con le sue modalità di lavoro e di relazione, sia su quello emotivo. E penso agli sguardi delle persone quando andiamo in giro noi tre, che possono imbarazzare e ferire, nonché al fatto che crescendo noi le chiediamo anche più aiuto, cosa che in alcuni momenti può essere pesante.
Ritengo fondamentale che per affrontare tutto questo sia la relazione che noi genitori instauriamo con lei. È importante esserci, farle percepire non solo il nostro amore, ma anche la disponibilità al dialogo e al confronto.
Una cosa che ho sempre ritenuto molto importante è la chiarezza: mio marito ed io abbiamo una tetraparesi spastica causata da asfissia perinatale: ricordo che mia figlia era abbastanza piccola quando, usando parole che potesse comprendere, le ho spiegato perché il suo papà e io abbiamo delle difficolta nei movimenti e nel parlare. Allo stesso modo abbiamo cercato di farle comprendere il perché dello sguardo degli altri a volte così fastidioso, che nasce dal fatto che la diversità, ciò che non conosciamo, attrae e incuriosisce. Le abbiamo anche detto che è normale che chi è oggetto di queste attenzioni non richieste si senta ferito, noi stessi lo siamo stati, ma bisogna imparare a gestire queste emozioni, a capire anche le ragioni degli altri e a reagire in modo adeguato e positivo.
Se essere genitori è bellissimo, ma difficile e complesso, l’esserlo da persone con disabilità lo è ancora di più; in questa sede ho solo accennato a una serie di questioni che andrebbero approfondite.
Può sorgere spontanea una domanda: con tutti i problemi che noi persone con disabilità abbiamo, le difficoltà che dobbiamo affrontare, vale la pena mettere al mondo un figlio e complicarci ancora di più la vita? Per quanto mi riguarda, per rispondermi mi basta guardare in faccia mia figlia.