Tramite un articolo pubblicato il 30 settembre da «Avvenire», abbiamo avuto notizia di una Sentenza pronunciata dall’Alta Corte Inglese che conferma la legittimità della norma, già operante in quello Stato, la quale consente l’interruzione della gravidanza, anche oltre il limite massimo di 24 settimane, addirittura fino al momento della nascita, se viene individuata un’anomalia del feto che possa comportare che il nascituro abbia anomalie fisiche o mentali tali da provocare disabilità grave.
In buona sostanza, l’Alta Corte Inglese ha respinto la richiesta avanzata dall’attivista sui diritti umani Heidi Crowter, donna inglese con Sindrome di Down, di modificare la legislazione in vigore in Inghilterra, Galles e Scozia (Abortion Act 1967) che permette appunto alle donne di interrompere la gravidanza fino al momento della nascita, se individuato il rischio sostanziale di un feto «con anomalie fisiche o mentali tali da comportare disabilità grave», ivi inclusa la sindrome di Down. Sebbene Crowter abbia denunciato che tale legge costituisce a tutti gli effetti una violazione dei diritti umani, discriminando nonché stigmatizzando la sindrome di Down e, più in generale, la disabilità, il verdetto negativo dei giudici porta quale giustificazione il fatto che la normativa sull’aborto inglese, a loro parere, non è illegale o discriminatoria, mirando, anzi, «a trovare un equilibrio tra i diritti del nascituro e delle donne».
Questa notizia si pone nel solco di quanto, sempre più spesso, si apprende stia accadendo in vari Paesi europei e del mondo su tale delicato e controverso tema, come ad esempio in Islanda, ma non solo, che mira a diventare il primo Paese europeo senza persone con Sindrome di Down, essendo tra l’altro già vicino a raggiungere questo obiettivo. Nessuno dice, tuttavia, che a pagarne il prezzo, con la propria vita, sono molti bambini che vengono abortiti anche in caso di un semplice sospetto che ci si trovi in presenza di un’alterazione cromosomica come la trisomia 21, la sindrome di Down, appunto.
Anche l’emittente radiotelevisiva statunitense CBS ha recentemente pubblicato un servizio in cui racconta che le nuove tecnologie e la semplicità dei nuovi test diagnostici prenatali, sempre meno invasivi, permettono di sapere se il feto presenta la sindrome di Down. I dati disponibili, dunque, dicono che in Islanda, ad oggi, secondo uno studio del Landspitali University Hospital di Reykjavik, circa l’80-85% delle donne incinte fanno ricorso ai suddetti test e che la tendenza preponderante è quella, una volta ricevuta risposta positiva, di porre fine alla gravidanza. E ancora, lo statistico Roberto Volpi, che nel 2016 ha scritto il libro La sparizione dei bambini down. Un sottile sentimento eugenetico percorre l’Europa, denuncia, numeri alla mano, una generale tendenza in tutta Europa – non solo nei Paesi nordici, ma anche in Spagna, Grecia, Francia e anche Italia – a evitare quanto più possibile che vengano messi al mondo bambini con la trisomia 21. L’obiettivo ultimo, quindi, sarebbe quello di rendere il mondo Down Syndrome Free. A questo punto la domanda sorge spontanea: tutto questo quali radici ha, a che cosa tende?.
Più volte la nostra Associazione [ANFFAS-Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale, N.d.R.] si è occupata del tentativo effettuato in epoca nazista, da parte dei suoi medici, di “sterminare” le persone con disabilità tramite il progetto Action T4; questo prima che poi, negli anni immediatamente successivi, si aprisse l’altrettanto terribile capitolo dello sterminio del popolo ebreo. Pertanto, si ha come l’impressione che questa ideologia non si sia mai assopita del tutto e che tutt’oggi, anche se derubricata come evoluzione della ricerca scientifica, di fatto nasconda un approccio prettamente eugenico.
È come se i sistemi sanitari di taluni Stati ritenessero un grande successo quello di trovare le soluzioni più idonee per indurre e convincere le mamme a non far nascere figli che, anche potenzialmente, possano poi sviluppare una grave disabilità.
O ancora, è come se tali Stati o i loro medici ritenessero che una società nella quale tutti i bambini nascono “sani” sia una società migliore. Ma se così fosse, come occorrerebbe comportarsi, secondo questa logica, con tutti coloro che dopo la nascita, o nel corso della loro vita, hanno delle disabilità gravi? Ripristiniamo la “rupe tarpea”? O troviamo forme più subdole per “eliminare” dalla faccia della terra tutti coloro che non corrispondono a determinati “canoni” o la cui vita non viene, da qualcuno, ritenuta degna di essere vissuta?
Per le famiglie della nostra Associazione tutto questo rappresenta un forte arretramento rispetto alle tante battaglie poste in essere nei sessantatré anni di vita dell’Associazione stessa, per far comprendere a tutti che la diversità fa parte della condizione umana e che la vita va sempre rispettata in qualsiasi forma essa si manifesti. Piuttosto gli Stati dovrebbero attuare ogni sforzo affinché tutti i propri cittadini, a prescindere dal loro funzionamento o dalle caratteristiche personali, disponessero di tutti i servizi e i sostegni per poter vivere una vita degna e pienamente inclusa nella società in condizione di pari opportunità con tutti gli altri cittadini. Alle mamme, oltre che dare l’opportunità di valutare se proseguire o meno la loro gravidanza inducendole ad interromperla, dovrebbero sempre garantire che in presenza di un figlio con disabilità non verranno mai lasciate sole e che potranno sempre contare su tutta una serie di aiuti, supporti e servizi, per poter continuare a vivere al meglio anche le loro vite.
Quanto detto non significa limitare o sindacare sulla libertà di scelta delle donne, che va sempre rispettata e salvaguardata, ma sottolinea l’urgenza a una maggiore presa di coscienza da parte della società – a partire dalle Autorità preposte – rispetto ai messaggi che si rischia di inviare quando si induce l’opinione pubblica, anche con provvedimenti apparentemente neutri, a vedere la condizione di disabilità come una condizione di vita non degna di essere vissuta o addirittura alla quale occorre tout court negare il diritto alla vita.
Riprendendo le parole di Heidi Crowter, la vita delle persone con disabilità non è meno preziosa di quella degli altri e non è tantomeno definibile in base al numero di cromosomi o dalla patologia che si ha.
Ancora troppo spesso la disabilità è oggetto di pregiudizi e di stigma sociale, accompagnati da una visione “economicista” e “sanitarizzante”. E questa, purtroppo, rappresenta una visione dura a morire che è foriera di tutta una serie di problematiche, ivi compresa quella di cui qui ci si sta occupando. In ultimo lo abbiamo sperimentato, ahinoi, sulla nostra pelle, durante la pandemia – come accuratamente documentato dal Comitato Sammarinese di Bioetica nello studio denominato Umanizzazione delle cure e accompagnamento alla morte in scenari pandemici [sulle nostre pagine, a questo link, ne abbiamo ripreso integralmente il capitolo “La deumanizzazione delle persone con disabilità durante la pandemia”, N.d.R.] -, lo apprendiamo quotidianamente dalle diverse proposte di legge su eutanasia e aborto (come quella su cui siamo chiamati ad intervenire oggi), dai numerosi e allarmanti casi di discriminazione e violenza nel quotidiano…
La fotografia che ne scaturisce è lampante: c’è ancora molto da fare.