Recentemente «Il Sole 24 Ore», uno dei più importanti quotidiani economico-finanziari, ha pubblicato un’interessante intervista a Marianne Waite, top manager, nonché una delle massime esperte al mondo sull’accessibilità, attualmente Director of Inclusive Design nella Società Interbrand e Access Ambassador per il governo inglese (l’intervista è disponibile nella rassegna stampa del sito Edscuola: «Addio agli slogan, è ora di misurare le performance», in «Il Sole 24 Ore», 11 ottobre 2021).
«Le aziende devono pensare all’inclusione allo stesso modo con cui pensano alla gestione del loro marchio. Per costruire una storia di successo devi coinvolgere tutta l’organizzazione: passare dall’essere passivi a intenzionali negli sforzi di inclusione [grassetti nostri in questa e nelle successive citazioni, N.d.R.]», esordisce Waite, che nel suo lavoro punta alla sostanza, vale a dire smettere di considerare l’inclusione come un accessorio o un aspetto della comunicazione, e integrare il design inclusivo nelle attività delle aziende allo scopo di modificarne il comportamento.
Proprio perché l’inclusione non è uno slogan, questa va misurata. A tal fine Waite utilizza «un modello di brand experience senza barriere per esaminare le prestazioni di inclusività dei marchi durante il loro percorso». Questa misurazione evidenzia le lacune, infatti «la maggior parte delle realtà soddisfa appena i requisiti minimi obbligatori riguardanti le esigenze delle persone disabili e vede l’inclusione come complicata e non necessaria. Classifichiamo queste organizzazioni come passive in quanto non lavorano attivamente per rimuovere le barriere per i clienti», spiega Waite. Ma ci sono anche situazioni molto positive: «Per alcune realtà l’inclusività è così al centro delle proprie esperienze che non c’è distinzione nell’offerta per i consumatori disabili e non disabili».
Tra gli esempi positivi, Waite cita un’iniziativa sulla mobilità che Jaguar Land Rover sta promuovendo grazie a una collaborazione di lunga data con The Invictus Game, evento sportivo inaugurato nel 2014 dal Principe Henry, che coinvolge veterani di guerra con disabilità. Ebbene, «negli ultimi due anni il brand ha lanciato nuovi prodotti, migliorando l’esperienza del cliente e cambiando i processi per tessere l’inclusività nel tessuto stesso dell’azienda».
Tra le ultime attività realizzate da Interbrand, vi è quella che nel 2018 «ha contribuito a lanciare The Valuable 500, una campagna globale sulla disabilità basata sul fatto che mentre il 90% delle aziende afferma di dare priorità alla diversità, solo il 4% la considera davvero come rilevante». L’inclusione richiede invece che l’azienda si impegni per mettersi in grado di soddisfare le esigenze del maggior numero possibile di persone e il più a lungo possibile, la qual cosa ha le sue ricadute, e alcune aziende mostrano di averlo ben compreso: «Brand come Apple, Amazon, P&G e Netflix comprendono che l’inclusività offre opportunità di crescita sostenibile. Ecco perché stanno investendo sempre più nella rimozione delle barriere».
Invitata a riflettere sul futuro, Waite esprime la seguente considerazione: «Gli sforzi di inclusione devono andare oltre le mode. Un vero cambiamento può essere ottenuto solo come parte di programmi aziendali ampi che modificano i comportamenti. Ci vogliono tempo, investimenti e perseveranza. Ma il momento è adesso e l’unico vero rischio è restare indietro» (Simona Lancioni)
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.