Divulgata il 9 novembre scorso sui social media, la nuova campagna di comunicazione denominata Poteva andarmi peggio, promossa dall’Associazione Parent Project, sta suscitando reazioni fortissime, una parfte di esse indignate, in particolare su Facebook.
Realizzata in collaborazione con KIRweb, l’agenzia di Riccardo Pirrone nota per le campagne pubblicitarie in stile black humour, prodotte per le onoranze funebri Taffo, essa è stata costruita giocando provocatoriamente sulla “visione tragica della disabilità”. Due gli scopi dichiarati: decostruire tale pregiudizio e raccogliere fondi per la ricerca sulle distrofie muscolari di Duchenne e Becker da cui sono interessate le persone e le famiglie afferenti all’Associazione stessa.
La campagna si compone di sei locandine, ognuna delle quali ha per protagonista una giovane persona con disabilità motoria. I protagonisti sorridono ed esprimono un messaggio con un’identica frase principale – «Poteva andarmi peggio» – e una subordinata diversa per ciascuna locandina: «Poteva andarmi peggio. Potevo nascere complottista», oppure omofobo, no-vax, razzista, terrapiattista, negazionista.
Le sei locandine sono completate dal logo dell’Associazione e dalla seguente dicitura: «La distrofia di Duchenne e Becker è una grave patologia che comporta una progressiva degenerazione dei muscoli. La ricerca ha fatto grandi progressi, sostienila insieme a noi». Viene poi specificato che la campagna è stata realizzata nell’àmbito del progetto ConSolidare, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ai sensi del Decreto Legislativo 117/17 (Codice del Terzo Settore), avviso 2/2020.
I sei protagonisti ci mettono la faccia e il pensiero. La “visione tragica” secondo cui «non c’è niente di peggio che avere una disabilità», ancora largamente condivisa, viene ribaltata individuando “mali ben peggiori” nel complottismo, nell’omofobia, nell’essere no-vax, nel razzismo, nel terrapiattismo e nel negazionismo.
Il messaggio è molto potente perché queste persone si propongono in modo assertivo – ironizzando su uno stereotipo che riguarda la disabilità – e prendono una precisa posizione politica su temi considerati “divisivi”.
Mentre scriviamo, i commenti sulla pagina Facebook di Psarent Project sono quasi 9.000, le condivisioni 2.520, le reazioni quasi 4.400 (di cui circa 1.850 di disappunto).
A parte gli insulti, che ovviamente scegliamo di non riportare, la critica più frequente è che queste persone si siano fatte strumentalizzare, escludendo, senza alcun motivo se non il pregiudizio abilista, che quei pensieri possano essere realmente i loro.
A questa argomentazione risponde l’Associazione stessa, spiegando che sono i protagonisti medesimi «a prendere la parola in questa campagna, smontando attraverso un paradosso e un’ironia graffiante il preconcetto che nascere con una patologia rappresenti la peggiore delle sfortune possibili; e a trasmettere l’idea di essere persone pronte a giocare un ruolo attivo nel mondo che le circonda e ad esprimere le proprie opinioni, non condizionate da etichette legate alla disabilità».
Luca Buccella, 30 anni, traduttore per il cinema, persona con distrofia di Duchenne, è uno dei testimonial della campagna (è il giovane sorridente con la maglia bordeaux che pensa «Poteva andarmi peggio. Potevo nascere complottista», nella locandina qui a fianco riprodotta), intervistato dalla testata «Mashable Italia», ha dichiarato: «Penso sia molto offensivo guardare una persona con disabilità dall’alto in basso e pensare che non sia capace di prendere decisioni autonomamente. Sono stato contattato direttamente dall’ufficio di Parent Project che mi ha proposto di partecipare alla campagna mostrandomi un template. Io e gli altri ragazzi avevamo quindi un’idea chiara di come sarebbe stata strutturata la campagna e abbiamo deciso consapevolmente di partecipare. Non c’è stata alcuna pressione: a me è sembrata subito una bella idea».
Anche Pirrone, sulla testata «Redattore Sociale», conferma che i protagonisti hanno agito in piena libertà: «Abbiamo realizzato la campagna pubblicitaria tutti insieme, siamo andati a fare le foto e i ragazzi hanno scelto la frase che volevano abbinare alla loro immagine. Sono particolarmente fiero di questa campagna social, perché è coraggiosa, attuale, forte, decisa e simpatica come loro».
Diverse critiche sono arrivate da alcuni/e caregiver. Ne citiamo qualcuna ripresa da «Redattore Sociale». Elena Improta, presidente dell’Associazione Oltre lo Sguardo, ha dichiarato: «Essere terrapiattista, negazionista ecc. sono scelte. Diverso è vivere sulla propria pelle una condizione di disabilità così grave e degenerativa. Sono immagini completamente diverse: non si fa una campagna di sensibilizzazione o raccolta fondi paragonandosi a persone dotate di una struttura fisica, motoria, mentale in grado di fare delle scelte. Chi vive sulla propria pelle una disabilità così grave e degenerativa non ha scelta. Perché non si domanda a una madre se avrebbe preferito un figlio no-vax piuttosto che un figlio psichiatrico grave, o tetraplegico?».
A questa critica risponde indirettamente Buccella, quando, sempre su «Mashable Italia», argomenta: «La verità è che la disabilità è ancora un grosso tabù: se ne deve parlare sotto voce e si ha sempre il timore di offendere. La disabilità è invece una cosa come un’altra e, purché non si offenda, se ne può parlare in qualsiasi termine anche con ironia, come abbiamo fatto noi. Lo scopo di Poteva andarmi peggio è comunicare che mentre la nostra disabilità fisica ci è capitata, ci sono persone che scelgono di seguire determinate posizioni: la nostra disabilità non dipende da noi, l’intolleranza invece sì».
Un altro caregiver ha spiegato: «I nostri figli sono in condizione di totale dipendenza dal prossimo: c’è poco da decidere chi deve o non deve aiutarli. Se mio figlio cade dalla carrozzina, perché magari c’è una buca sull’asfalto, accetta l’aiuto di chiunque glielo offra. Così, un’associazione che chiede aiuto per le famiglie, deve rappresentare i bisogni di quelle famiglie e accettare l’aiuto di chiunque lo offra: non può permettersi di selezionare in base al credo, o al pensiero politico o culturale».
Ma forse la critica più dura è quella di questa mamma: «Poteva andarmi peggio, potevo nascere piena di pregiudizi. Invece sono la mamma di Simone, un meraviglioso bambino affetto da distrofia muscolare di Duchenne, a cui insegno quotidianamente l’amore, la tolleranza, il rispetto delle minoranze e delle loro opinioni. Simone si terrà sempre lontano dagli sciacalli che strumentalizzano il dolore altrui».
Che il messaggio della campagna sia provocatorio è vero ed è voluto. Pertanto va messo in conto che questo approccio possa non piacere. Però la “strumentalizzazione del dolore altrui” non la vediamo. I protagonisti della campagna parlano di sé, non di altri. Costoro non raccontano la propria condizione con dolore, non perché essa non comporti delle difficoltà, ma perché hanno scelto di non identificarsi con esse. E anche questo, per chi riesce a cogliere il significato profondo che si nasconde dietro l’ironia, è un bellissimo messaggio d’amore.
Anche le altre critiche espresse dai caregiver sono poco convincenti, visto che, come ben chiarito da Buccella, la campagna esprime il pensiero dei protagonisti e ognuno di loro è libero di esprimerlo come meglio crede.
Infine, è corretto precisare che anche i messaggi di apprezzamento sono stati davvero tantissimi.
La scelta di provare a scardinare un pregiudizio abilista è comprensibile e condivisibile, ci auguriamo che l’impiego di un registro provocatorio non incida negativamente sul successo della raccolta fondi per la ricerca scientifica, anche in considerazione del fatto che gli sguardi pietistici che accompagnano la visione tragica della disabilità non sono meno graffianti, e le persone che li subiscono magari non hanno più voglia di ingegnarsi ogni volta per trovare modalità di risposta che non disturbino troppo chi le discrimina.
«La distrofia di Duchenne e Becker è la forma più grave delle distrofie muscolari, si manifesta nella prima infanzia e causa una progressiva degenerazione dei muscoli, conducendo, nel corso dell’adolescenza, ad una condizione di disabilità sempre più severa – si legge nel sito dell’Associazione –. Al momento, non esiste una cura. I progetti di ricerca e il trattamento da parte di un’équipe multidisciplinare hanno permesso di migliorare le condizioni generali e raddoppiare l’aspettativa di vita» delle persone che ne sono interessate. Possiamo dunque convenire che questi, al di là delle posizioni individuali sui temi divisivi, sono motivi più che buoni per sostenere la ricerca scientifica.