Condivido l’impostazione dei contributi di Simona Lancioni dedicati al lavoro di cura, pubblicati nei giorni scorsi da «Superando.it» [“Caregiver e persone con disabilità: cogliere l’interdipendenza della cura” e “Ma quel che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura”, N.d.R.], e mi permetto di aggiungere alle riflessioni proposte una diretta conseguenza di esse: l’operatore sociale deve volgere il suo sguardo, deve rifiutare la delega e includere nel suo lavoro di cura il mondo attorno.
Mi spiego meglio. Il compito dell’operatore sociale, addirittura più ancora che di quello del caregiver, è di cucire la trama delle relazioni tra le persone di cui si prende cura e la comunità circostante. Un continuo andata e ritorno di un ago, alla cui cruna è legato il filo che costruisce la trama e l’ordito di relazioni che assieme costruiscono la comunità.
«Io esisto in quanto sono in relazione con altri»: era un pensiero del filosofo e pedagogista Martin Buber, che ci ha scritto un bellissimo libro (Ich und Du). Ci sono persone che fanno più fatica di altre a tessere questa trama (che, per altro, per chiunque è sempre impossibile da tessere da soli!). E allora il lavoro di cura dovrà essere al 50% con lo sguardo rivolto verso il volto della persona di cui ci si prende cura, per l’altro 50% (del tempo, dell’attenzione, della concertazione, delle attività) rivolto verso la comunità.
Per ottenere questo, dunque, occorre un ripensamento culturale prima e politico poi, del lavoro di cura. Che non è una “prestazione”, che non è un “costo” (al limite è un investimento), che non è in capo al singolo utente, ma è in capo a tutta la comunità, che non solo deve pagare (il giusto) questo intervento, ma che ne beneficia in toto. Cioè il “beneficiario” non è più un “utente”, ma tutta la comunità.
Utopie? Può darsi, ma le ritengo necessarie, come i sogni, per continuare a evolverci e a non involverci.