Caregiver: il piano dello studio e quello della vita quotidiana

di Lorenzo Cuffini*
«In questa discussione si sono mescolati due piani differenti. Uno teorico o di studio, e uno di vita quotidiana. Come si capisce subito, i due piani sono diversi, anche se interconnessi e alla lunga intersecanti»: lo scrive Lorenzo Cuffini dell’Associazione Gilo Care, intervenendo ulteriormente nel dibattito da noi lanciato in queste settimane sulle figure dei e delle caregiver, che prestano assistenza in modo globale, continuo e gratuito ad un familiare non autosufficiente a causa di una disabilità o di situazioni legate a patologie o all’invecchiamento

Disegno di due omini blu, uno dei quali spinge l'altro in carrozzinaIl rischio dei dibattiti, specie quelli a distanza, condotti a botta e risposta sulle pagine di un giornale o di un sito, è quello di avvitarsi su se stessi e di generare il classico esempio di dialogo tra sordi. Le parti, cioè, si incaponiscono sulle reciproche posizioni, e si instaura un’inevitabile spirale di precisazioni e contro precisazioni. Questa non è una semplice eventualità dialettica negativa (una discussione cioè che resti con l’essere fine a se stessa), ma diventa un’occasione sprecata quando in ballo ci sono questioni, come quella del caregiving e della sua indispensabile regolamentazione legislativa, che di tutto, oggi, in Italia, hanno bisogno, fuorché di discussioni su questioni di lana caprina e polemiche intestine. Credo, dunque, che la strada migliore sia recepire ogni punto di vista di chi partecipa al dibattito, almeno per la parte specifica che il singolo partecipante ha creduto meglio di sottolineare, e di tenerne conto al fine «di riuscire, magari insieme, a costruire qualcosa di diverso».

Per quanto riguarda le posizioni della nostra Associazione [Gilo Care, N.d.R.], esse sono state richiamate con chiarezza nei nostri due interventi precedenti pubblicati da questa testata [“L’interdipendenza tra caregiver e assistito: un modello in continua evoluzione” e “Il cambiamento nella cultura della cura e le esigenze concrete”, N.d.R.], cui rimando senz’altro.
Ringrazio Simona Lancioni che ha voluto citare di sua iniziativa, seppure a diversi anni di distanza dalla redazione di esso, il nostro Manifesto per i caregiver familiari, che rispecchia in pieno il nostro punto di vista. Lancioni ha ritenuto, come già fece nel caso del nostro approfondimento sull’interdipendenza tra assistito e caregiver familiare (il nostro NUBAC, Nucleo Base di Assistenza e Cura) [in “Ma quel che deve cambiare è proprio il modo di pensare al lavoro di cura”, N.d.R.] , di muoverci una serie di contestazioni e di formulare una serie di suoi giudizi personali in merito. Ne è ovviamente padronissima. Ci limitiamo a evidenziare un equivoco di fondo nella sua impostazione del problema.

Qui nessuno deve convincere nessuno. Ciascuno, se lo ritiene, si fa portatore di esigenze e di istanze e di proposte di soluzione di un problema. In questa discussione, si sono mescolati due piani differenti. Uno, diciamo così, teorico o di studio, e uno di vita quotidiana. Come si capisce subito, i due piani sono diversi, anche se interconnessi e alla lunga intersecanti. A nostro avviso, esiste una questione drammatica e impellentissima, che riguarda la vita di centinaia di migliaia di persone con problemi di limitata o perduta  autosufficienza e  quella delle famiglie di cui fanno parte. Questione che erode, stravolge e rovina. Perché  tutti i soggetti coinvolti, tutti i giorni, sono costretti dallo stato delle cose a farsi personalmente carico, con le loro vite, il loro tempo, le loro risorse umane e patrimoniali, di problemi  enormi e di enormi costi, che dovrebbero (tradotto: devono) essere al contrario di competenza della collettività. Da qui il bisogno non più procrastinabile di un riconoscimento formale e sostanziale – legislativo e giuridico, economico e quant’altro – di questo ruolo, di questi carichi e di queste situazioni.
Naturalmente por mano a questo genere di problemi non è né facile, né lineare, né scontato nel modo di agire: diversi sono i caregiving, diverse le esigenze delle persone non autosufficienti, diverse quelle dei caregiver, e dunque dovranno necessariamente essere approntate modalità di intervento flessibili e orientate. Questo, però, resta  il primo e fondamentale punto cui metter mano.

Questo modo di impostare il problema può essere ritenuto  (Lancioni lo fa) “familista”? Boh. Non abbiamo nessuna passione per le etichette, dunque se salvaguardare la dignità e la stessa  possibilità di vita delle persone e delle loro famiglie, oggi calpestata al di là di ogni dettato e spirito costituzionale, significa essere familisti, bene, ci prendiamo anche dei familisti.
Poi: si possono analizzare e studiare forme e modi in cui l’assistenza sia gestita e condotta in ambito extrafamiliare, magari direttamente dallo Stato, o da una rete di soggetti terzi? Non solo si può: si deve. Dunque, l’impostazione caldeggiata da Lancioni ben venga. Il che non è per nulla in contraddizione con quanto scritto prima. Ribadiamo però che occorre passare da una questione – che per il momento è solo e tutta di accademia e di principio – a un radicamento di entrambi (accademia e princìpi) nella situazione concreta attuale del sistema Italia. E che, in questa auspicabile e necessaria fase di ideazione prima, di progettualità poi e di transizione infine, sono certamente necessari i pareri di sociologi, giuristi, operatori sociali, operatori sanitari, politici, amministratori  centrali e locali e quant’altro. Ma, prima di tutto e sopra tutti, saranno necessari i pareri fondanti di due categorie: le persone che abbisognano di assistenza, e i caregiver che quell’assistenza hanno, volenti o nolenti, gestito e dovuto sin qui gestire. Se no si rischiano i pateracchi tutti teoria e scarsissimo funzionamento pratico che, per esempio nell’attuale pratica di molti servizi domiciliari erogati, molti di noi possono quotidianamente constatare.
Inoltre, ribadiamo che l’intera questione, va inquadrata necessariamente con l’altra dimensione principe, che i piani di assistenza e cronicità sul tappeto in Italia hanno scelto come prioritaria per il prossimo futuro, che è quella della domiciliarità. Ogni questione di principio che non tenga conto di questo contesto, ci pare partire azzoppata.

In definitiva, nessun problema a “inclinare il piano”, come chiede Lancioni, perché le cose cambino. Ma solo se e dopo che siano messe in sicurezza, in termini di dignità, diritti e rispetto della Costituzione, i soggetti che su quel piano sono costretti, non per scelta loro, a campare. Altrimenti saranno quelli  i primi a precipitare ulteriormente in un baratro di abbandono generalizzato. La citazione di Bertrand Russell proposta da Lancioni è suggestiva [«Siate il peso che inclina il piano. Siate sempre informati e non chiudetevi alla conoscenza perché anche il sapere è un’arma. Forse non cambierete il mondo, ma avrete contribuito a inclinare il piano e avrete dato vita a un seme che non sarebbe mai cresciuto», N.d.R.], ma ci pare bene appaiarla a una, forse meno alta, di Giorgio Gaber: «Un’idea, un concetto un’idea, finché resta una idea è soltanto un’astrazione. Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione».

Associazione Gilo Care.

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