Essere caregiver è paradiso, purgatorio e inferno contemporaneamente!

di Silvia Cerqua
Lo scrive Silvia Cerqua, portando la sua testimonianza di donna che da quindici anni è caregiver del marito e che dice tra l’altro: «Non è giusto che due giovani genitori, invece di vivere una vita “serena” per quanto possibile, debbano passare le giornate a chiedersi come camperanno le loro bambine quando il più devastato dalla malattia non ci sarà più, poiché come consorte non godrò di alcuna reversibilità. Lo Stato deve intervenire, perché un malato e il suo caregiver hanno diritto a una vita vera: famiglia, figli, vecchiaia, ma soprattutto dignità»

Mano di caregiver su mano di persona con disabilitàSono caregiver di mio marito da oltre quindici anni e vorrei fornire la mia testimonianza, dopo avere letto su queste stesse pagine vari contributi sul tema del caregiving.
Sappiamo bene che non tutti i caregiver sono uguali, con le stesse esigenze o situazioni familiari. Iolo sono per scelta. Lavoravo, e quando conobbi mio marito era già malato, ma camminava e guidava la macchina. Dopo poco più di un anno, la sclerosi multipla gli ha portato via tutto, fino alla tetraplegia e poi alla cecità.
Abbiamo due bambine di 10 e 7 anni, che abbiamo fortemente voluto mettere al mondo dopo otto anni di convivenza, quando il nostro rapporto è arrivato al classico bivio: o si evolveva o finiva. Così per un certo periodo siamo stati una sorta di mistero tra l’“immacolata concezione” e l’adozione in segreto, persino per i nostri genitori, figuriamoci per taluni esterni, pochi per fortuna. Quanto sarebbe tutto più facile se si parlasse di sessualità nella disabilità, smetterebbero di vedere le nostre figlie come frutto di chissà quale alchimia!

Se dovessi stabilire esattamente quando è stato il momento in cui ho preso coscienza del mio ruolo nella coppia, posso con estrema precisione determinarlo durante il nostro mitico e unico viaggio in America. Eravamo fidanzati da circa tre anni, lui era già in sedia a rotelle e una sera, tardi, noi ragazze decidemmo di sperimentare la lavanderia dell’albergo. Così, tra momenti di infinita ilarità e spensieratezza, sentimmo bussare alla porta e l’omino dell’albergo ci dice “Miss Silvia?”, alzo timidamente la mano, «Your Boy-Friend!». Capisco subito, mi precipito come un fulmine in stanza e lo trovo dove lo avevo lasciato da non so dire quanto tempo. Il Tempo. Ecco, in quell’istante ho capito che la mia relazione con il tempo non sarebbe stata più la stessa, da quel momento ho redistribuito quello che era il mio tempo e ho capito che da lì in poi avrei dovuto spartirlo con più generosità.
Sei improvvisamente l’ago della bilancia, il perno di una grossa leva, senza il quale non si muove niente. Il vero problema di ricoprire il ruolo di caregiver di mio marito è cercare di mantenere l’equilibrio, di tenere l’ago sempre sulla normalità e per farlo devi essere sempre pronta e presente a tutte le esigenze della famiglia, meno che a te stessa, per un mix di sensi di colpa e debito di tempo. Il Tempo.

Sono successe tante cose da allora e tra le classiche peripezie della vita, la perdita dei nostri genitori è stata la più devastante, perché ci ha privato di quel supporto fondamentale per respirare un po’, ma soprattutto dei nonni. Un muro di solitudine si è costruito attorno a noi, se non fosse per qualche sporadica figura che si offre.
Ma parto da qui: un giorno come tanti, mentre trafficavo in cucina, mi sono affettata un dito, il tempo di girarmi verso il lavandino per sciacquare via il sangue e mi ritrovo a terra senza occhiali, con la bocca sanguinante e dolori ovunque, svegliata dalle urla delle bambine piccole spaventate, troppo piccole per reagire adeguatamente. Me la sono cavata con un taglietto e qualche bozzo, ma il trauma per le mie ragazze no, quello non è passato, è un allarme, l’ennesimo campanello, che si aggiunge a tutti quelli che hanno imparato a gestire tra cadute, urla, dolori del loro papà, e le mie. Nessuno che le abbia tranquillizzate, nessuno che mi abbia alzato da terra dove sono rimasta per non so quanto tempo (ancora il Tempo), nessuno che spiegasse a mio marito cosa fosse successo, solo panico e confusione. E dopo? Nessun riposo, veloce check dei dolori, un abbraccio generale, sorrisoni a volontà e di nuovo al lavoro con una spalla già malandata, ora dolorante, ma che avrei dovuto usare comunque per alzare mio marito…
Parto da questa storia di ordinario incidente domestico, perché racchiude tutti i punti di vista, inquadra bene il cosiddetto burden [letteralmente “fardello”, “peso”, N.d.R.] del caregiver, come conseguenza delle notti insonni, delle pressioni psicofisiche quotidiane, del carico di responsabilità di quelle tre vite che da me dipendono in tutto, rende l’idea di quanto sia usurante il caregiving, ventiquattr’ore su ventiquattro, trcentosessantacinque giorni all’anno, al netto degli altri ruoli di madre, moglie e casalinga che già ricevi in dote dalla vita.

Scegliere di tirar su famiglia con la persona che ami è cosa normale, o così dovrebbe essere. Se hai sposato una persona con disabilità sarai sempre quella strana, e se poi decidi di avere figli, anzi due, allora sei proprio pazza! Perché non siamo pronti ad accettare, ad accogliere, a fare domande, soprattutto quelle imbarazzanti, che però aiuterebbero a capire…
Il problema di chi ti dice «sei proprio brava», o «non so come fai!» o peggio ancora «ti ammiro per quello che fai!», è che concepisce una famiglia come la mia, come un’eccezione, una rarità, e in quanto tale un problema che potevi evitare, e che ora loro devono risolvere, sì, magari concedendoti una piccola priorità o agevolandoti una fila «perché sei te», passando per direttissima “da sfigata a privilegiata”.
Penso a mio marito, una persona che combatte una malattia che lo riduce all’immobilità totale e decide di avere figli, oltre ad essere un atto d’amore e di estremo coraggio, consapevole che non avrebbe potuto fare altro che esserci e comunicare, che questo per le sue figlie non sarebbe bastato e che proprio questo, però, gli avrebbe restituito la forza di non cedere alla malattia e la felicità di una genitorialità purtroppo crudele, zoppa e incasinata e, dulcis in fundo, la perenne e sanguinante consapevolezza che tutto ricadrà su sua moglie, verso la quale nutrirà un senso di colpa insaziabile.
Penso a me, che sono andata avanti senza farmi tante domande sul mio futuro, ho deciso di abbracciare la vita e cercato di viverla al limite della normalità, e dopo oltre quindici anni di “fusione di vite”, ti accorgi che non c’è separazione, non può esserci, che stai vivendo due vite ma senza un confine, nessun grado di separazione, come sarebbe giusto. Penso a noi, strafatti di amore l’uno per l’altra, un amore che si crede assoluto, ma tradito dal terzo incomodo della malattia.
Essere caregiver è paradiso, purgatorio e inferno contemporaneamente.

Oltre le normali funzioni di casalinga e genitore, il mio fisico e la mia psiche vivono la vita di un’altra persona: cammino per due, faccio due docce, firmo sempre due volte, spesso espongo i pensieri anche di un altro e quando mi trovo alle urne, ho il “privilegio” di esprimere due voti. Insomma, per fare quello che faccio avrei bisogno di due vite, ma la realtà è che ne ho solo una, e mi consumo prima. Non posso lavorare per accudire mio marito e non avrebbe senso lavorare per pagare qualcuno che lo accudisca, questo è il punto. Ho bisogno di essere riconosciuta alla pari di un vero e proprio operatore socio sanitario con stipendio, malattia, tredicesima, liquidazione e, alleluja, pensione! Chiedere in alternativa un part-time o un telelavoro fa sorridere solo a pensarci, ma un passo avanti in tal senso sarebbe doveroso.
Non è giusto che due giovani genitori, invece di vivere una vita “serena” per quanto possibile, debbano passare le giornate a chiedersi come camperanno le bambine quando il più devastato dalla malattia non ci sarà più, poiché come consorte non godrò di alcuna reversibilità. Lo Stato deve intervenire, perché un malato, anche se giudicato EDSS 8,5-9,0* (e qui dovrei aprire un capitolo a parte, per ciò che concerne l’aggiornamento del Nomenclatore…) e il suo caregiver hanno diritto a una vita vera: famiglia, figli, vecchiaia, ma soprattutto dignità.
Riecheggiano ancora nelle mie orecchie le parole lapidarie di un vicequestore a cui mi rivolsi: «Signora, ma con tutti i privilegi che diamo a questi disabili, anche il parcheggio gratuito vogliamo dargli?». Era il 2011. Ammetto che ora salirebbe almeno un po’ di sdegno anche al più indifferente degli esseri umani e che i tempi sono fin troppo maturi per cominciare a proteggere finalmente chi si occupa di persona fragile. Purtroppo il Governo sonnecchia sulla questione caregiver, alternando promesse a briciole, ma ora siamo ad un punto di svolta. Confido che non solo la nostra figura venga riconosciuta come lavoratore, ma che abbia il diritto al riposo, alla malattia, alla pensione, al reinserimento alla vita lavorativa, e a tutti quei “pruriginosi privilegi” tanto indigesti a quello “stitico” vicequestore, ma che ci garantirebbero dignità e salute.

*La Scala EDSS (“Expanded Disability Status Scale”) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stabilisce in quale grado (da 0 a 10) la sclerosi multipla influisca sulla vita della persona.

Nella colonnina a destra del contributo da noi pubblicato con il titolo Caregiver: il piano dello studio e quello della vita quotidiana (a questo link), è presente l’elenco dei contributi da noi recentemente pubblicati sul tema del caregiving.

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