Se vogliamo trovare un indicatore che misuri quale sia la disposizione delle persone riguardo ad un dato fenomeno possiamo efficacemente intraprendere la nostra riflessione iniziando a prestare attenzione alle parole con cui viene nominato. Se, ad esempio, qualcuno/a invece di chiamare le persone con disabilità con questa espressione, preferisce utilizzare quella, che vorrebbe essere tranquillizzante, di “persone diversamente abili”, ci sono buone probabilità che questa persona abbia qualche problema con la disabilità per il semplice fatto che ha difficoltà a nominarla, o considera offensivo riferirla alle persone che ne sono interessate.
Le cose non vanno certo meglio se parliamo di vecchiaia. Come chiamiamo i vecchi e le vecchie? Coraggiosamente la filosofa e femminista francese Simone de Beauvoir (1908-1996) aveva intitolato il suo prezioso saggio del 1970 La Vieillesse (La vecchiaia), ma nella traduzione curata da Bruno Fonzi per Einaudi il titolo è diventato magicamente La terza età. E se non è terza, l’età può essere quarta, pur di non nominare la vecchiaia e contribuire ad uno dei più significativi rimossi collettivi della nostra epoca. Per questa stessa via la “morte” è diventata “fine vita”, e vecchio/vecchia sono spesso considerati e utilizzati come insulti. Volendo essere educati/e, parliamo di anziani/anziane, e ci premuriamo di dire che però non è l’età anagrafica quella che conta, l’importante è “sembrare giovani o “rimanere giovani dentro”.
L’altra scappatoia è rappresentata dalla coppia nonno/nonna, anche questa utilizzata con intenti benevoli (come, del resto, “diversamente abili”). In realtà né la disabilità, né l’invecchiamento sarebbero fenomeni catastrofici, ma noi ci comportiamo come se lo fossero, e finisce così che sia le persone con disabilità che quelle dai trenta in su, cogliendo tale interpretazione nello sguardo altrui, possano convincersi che sì, nell’avere una o più disabilità e nell’invecchiare c’è qualcosa che non va. E che ci sia qualcosa che non va è abbastanza evidente, ma non nei fenomeni considerati – l’unico modo per non invecchiare è morire, ogni tanto sarebbe bene ricordarselo –, quanto nella nostra masochistica propensione a trasformare in “mostri” due “fatti naturali” della vita.
Va per altro notato che i “due mostri” possono anche coesistere, sia perché anche le persone con disabilità invecchiano, sia perché le persone vecchie possono incontrare la disabilità nell’ultimo periodo della loro vita.
Sul filo di questi pensieri diventa interessante vedere come viene trattato il tema dell’invecchiamento delle persone con disabilità. Per farci un’idea possiamo prendere in esame alcuni materiali prodotti dalla Comunità di Pratica sulle Persone con disabilità anziane costituitasi nell’àmbito di Disabilità: la discriminazione non si somma, si moltiplica. Azioni e strumenti innovativi per riconoscere e contrastare le discriminazioni multiple, un progetto realizzato nel 2020 dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap)*. In particolare abbiamo esaminato I diritti non vanno in pensione, kit informativo rivolto a persone con disabilità anziane, famiglie, associazioni, operatrici e operatori di settore, e il report dell’indagine Invecchiare con una disabilità. Opinioni di giovani e anziani sulla discriminazione multipla, realizzata a cura di Pinuccia Dantino e Simona Mennuni dell’AUSER (Associazione per l’invecchiamento attivo) e di Sabrina Spagnuolo dell’ANTEAS (Associazione Nazionale tutte le Età Attive per la Solidarietà-CISL).
Il kit I diritti non vanno in pensione è un agile strumento di quattro pagine che affronta il tema delle persone con disabilità anziane (questo è il termine utilizzato) e veicola tre concetti rivolti direttamente alle stesse persone con disabilità anziane.
Il primo concetto è che «I diritti non invecchiano. Se sei una persona con disabilità, indipendentemente dalla tua età e da quando è insorta la tua disabilità, conservi ancora tutti i tuoi diritti». Il secondo richiama il diritto all’autodeterminazione: «La tua opinione conta ancora. Se sei una persona con disabilità, qualunque sia la tua età, i tuoi diritti, i tuoi bisogni ed aspirazioni contano ancora, esattamente come prima. Il tuo progetto di vita continua ad avere lo stesso valore: se non hai ancora un progetto individuale, puoi richiederlo al tuo Comune di residenza. Se, invece, è stato interrotto perché hai compiuto 65 anni stai subendo una grave discriminazione!». Il terzo concetto, infine, si focalizza su un aspetto specifico del diritto all’autodeterminazione: «Dove, come e con chi vivere lo decidi tu. Se sei una persona con disabilità, qualunque sia la tua età, hai il diritto a scegliere tu – e tu solo – dove vivere, come e con chi. Con l’avanzare dell’età, infatti, non viene meno il diritto a vivere nella comunità con la stessa libertà di scelta delle altre persone, a scegliere senza condizionamenti dove e con chi vivere, e a non essere obbligato a restare in una particolare sistemazione abitativa. In altre parole, le tue scelte, i tuoi desideri e aspirazioni contano ancora!».
Questi tre concetti sono referenziati dalla medesima affermazione: «Perché i diritti umani non vanno in pensione», e sono completati con la segnalazione dei siti di quattro Enti impegnati nel settore dell’invecchiamento: i già citati AUSER e ANTEAS cui si aggiungono la Federazione nazionale ADA (Associazione per i Diritti degli Anziani-UIL) e lo SPI (Sindacato Pensionati Italiani-CGIL). I contenuti del kit sono stati individuati e selezionati a partire dagli esiti dell’indagine effettuata dalla stessa Comunità di Pratica.
L’indagine Invecchiare con una disabilità ha preso invece le mosse da un’analisi della letteratura scientifica circa il fenomeno dell’invecchiamento con disabilità che ha evidenziato la presenza di alcuni pregiudizi (o falsi miti) diffusi sull’invecchiamento e sulla disabilità e il persistere di un modello prevalentemente medico di approccio alla disabilità.
I pregiudizi riscontrati sono riconducibili a tre concetti. L’ageismo, un anglismo che denota il pregiudizio verso le persone anziane a causa dell’età stessa, e porta a considerare l’invecchiamento prevalentemente come decadimento fisico e mentale, che rende le persone meno attraenti, attive e produttive. L’abilismo, definito come «la tendenza a credere che per essere un essere umano “perfetto” il proprio corpo e la propria mente debbano essere privi di difetti. In questo senso, la disabilità è intesa come una menomazione, un “qualcosa in meno” e dovrebbe per quanto possibile essere risolta o eliminata» (pagina 3). Infine è stato rilevato il disabilismo, vale a dire «la mancanza di accoglienza per le necessità delle persone e le altre strutture biologiche viste mancanti di certe abilità» (pagina 3). Tre tipi di pregiudizio che intrecciandosi insieme danno vita a forme di discriminazioni multiple da affrontare con il coinvolgimento delle stesse persone con disabilità.
Lo studio ha indagato la percezione soggettiva dell’invecchiamento con disabilità, da parte di giovani e anziani, focalizzandosi in particolare sul fenomeno della discriminazione multipla che scaturisce dall’intreccio di età e disabilità. A tal fine sono stati predisposti due schemi di intervista semi-strutturati rivolti ai due target considerati, coinvolgendo un campione non probabilistico di 23 persone: 15 giovani (8 donne e 7 uomini) e 8 anziani (di cui 6 con persone con disabilità motoria o visiva acquisite). Tra i risultati sono emerse alcune similitudini nelle risposte dei giovani e degli anziani: «Nessuno lega e/o considera il superamento dei 65 anni come un momento di cambiamento reale nello stile e nella qualità della vita di una persona; il concetto di “anziano” è legato prevalentemente a un dominio semantico negativo, di decadimento fisico e psichico e di riduzione delle relazioni sociali che portano alla solitudine; la “disabilità” è percepita secondo un modello medico e non secondo un modello sociale; la “discriminazione”, sia legata all’età sia legata alla disabilità, è intesa nella totalità dei casi come perpetrata da una persona nei confronti di un individuo o un gruppo, ma è poco riconosciuta nella quotidianità, se non dopo molti esempi da parte dell’intervistatrice» (pagina 9).
Le opinioni espresse mostrano come «l’ageismo, il pregiudizio e la discriminazione in base all’età, sia fortemente radicato nella nostra cultura, in quanto lo rileviamo sia negli anziani che nelle nuove generazioni» (pagina 7); gli stessi anziani hanno mostrato pregiudizi negativi riguardo alla loro età.
Il concetto di discriminazione, e ancor più quello di discriminazione multipla, non sembra affatto noto né tra le persone anziane né tra i giovani. Infatti «in tutte le fasce d’età, il concetto di discriminazione viene legato prevalentemente al dominio dell’atteggiamento personale verso le altre persone, senza mai riconoscere la discriminazione in quanto diminuzione delle possibilità di completa partecipazione su vari fronti».
Nonostante la bassa numerosità del campione e la sua poca eterogeneità, l’indagine è comunque interessante, sebbene sarebbe stato utile che venisse indagata anche la variabile del genere. Variabile che non rileva nell’analisi dei risultati dell’indagine, se non in modo implicito nel momento in cui è riportata la risposta di una ragazza che, parlando di come, a suo parere, la nostra società si relaziona alla vecchiaia, osserva: «Siamo una società che ha difficoltà a rapportarsi con ciò che l’anzianità rappresenta, siamo una società che punta all’immortalità, all’eterna giovinezza, all’eterna bellezza, all’eterna possibilità della vita e che non accetta il cambiamento, non accetta tutto ciò che la vecchiaia significa, quindi non si spende per […] perdere tempo, soldi, energia in qualcosa che teme, che non vuole e che preferirebbe evitare» (pagina 7).
Non è un caso che sia una giovane l’autrice di tali riflessioni giacché le donne, ancora più degli uomini, sono le destinatarie delle aspettative di eterna giovinezza, eterna bellezza, eterna seduttività. Non si tratta di un semplice invito, la pressione sociale su questi temi è tale da portare molte – troppe – donne a ritenere che negare il passaggio del tempo, assumere sembianze e atteggiamenti di un’età non propria siano gli unici modi per continuare ad essere parte di una società che si accorge di loro solo se deve vendergli qualcosa. «[…] per le donne anziane vale il diktat che le vuole eternamente giovani. E quando questo diventa impossibile, vengono poste fuori dalla vita sociale, con pensioni dimezzate rispetto agli uomini, relegate – al massimo – nel ruolo di nonne, decisamente e saldamente fuori da ogni potere decisionale», osserva la scrittrice e conduttrice radiofonica Loredana Lipperini nel suo illuminante saggio (ricco di dati) Non è un Paese per vecchie (Feltrinelli, 2010, pagina 25). «[…] si passa dalla giovinezza alla morte quasi di colpo, e la vecchiaia diventa una piccolissima zona prima della sparizione. Ma in quella piccolissima zona, che può durare anni, si scompare anzitempo. Si diventa invisibili. Si viene espulsi», argomenta ancora Lipperini (pagina 15).
Inutile dire che in questo contesto la situazione delle donne con disabilità diventa ancora più insostenibile. Se in gioventù il fattore che sovrastava tutte le altre caratteristiche personali era la disabilità, ora l’età concorre a completare l’opera di cancellazione, come se non ci fossero altri criteri da utilizzare come base relazionale. In realtà, a pensarci bene, sarebbe proprio questa la chiave di volta, individuare nella comune appartenenza al genere umano, nei percorsi di vita, negli interessi e nei desideri che non spariscono con l’età gli “agganci” per stare in relazione, per includere invece di escludere.
«Se io penso che è un errore fare della gioventù un valore, neanche vorrei che si pensasse che sto dicendo che la vecchiaia è un valore, perché non lo è. Valori sono, quando lo sono, gli esseri umani, indipendentemente dall’età che hanno», ebbe a dire lo scrittore e Premio Nobel per la letteratura José Saramago (1922-2010) nel 1998. Lo stesso si potrebbe affermare per l’abilità e la disabilità. Trattare gioventù e abilità come valori le ha trasformate in dispositivi di esclusione. Smettere di trattarle come tali apre mondi di possibilità. Disvelare quanto sia delirante questo meccanismo depotenzia la loro attrattiva: siamo sicuri/e di voler assecondare un sistema che prima o dopo ci sbalzerà fuori perché basato sull’irrealtà? Ognuno e ognuna incarna l’età e le disabilità che ha. Non vanno esibite, né camuffate. Semplicemente sono.
*All’interno del progetto FISH Disabilità: la discriminazione non si somma, si moltiplica si sono costituite cinque comunità di pratica impegnate ad indagare altrettante forme di discriminazione multipla: quella relativa al genere e alla disabilità (donne con disabilità), quella sull’età e disabilità (che comprende sia minori che anziani/e con disabilità), quella sulla cittadinanza e disabilità (migranti con disabilità) e quella sull’orientamento sessuale/identità di genere e disabilità (persone con disabilità appartenenti alla comunità LGBT+: lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, ecc.).