Il termine disabilità è ancora presente nell’immaginario collettivo come qualcosa di strettamente collegato a una visione negativa, ma questa idea sta cambiando, portando a una nuova visione che pone attenzione alla figura della persona con disabilità come soggetto, individuo e appunto persona, che ha una serie di attitudini e particolarità da non nascondere, ma da impiegare a favore della società. E tuttavia, nonostante negli ultimi decenni si sia sviluppata più attenzione, ci siano più diritti e più leggi, sia cambiato il linguaggio, molto spesso noi persone con disabilità ci troviamo a fare i conti con gli infiniti modi nei quali gli altri ci vedono. Purtroppo l’atteggiamento di molti ci può indurre ogni volta a ridiscutere il modo nel quale noi stessi ci percepiamo. Quante volte chi ci vuole bene ci vede pienamente in grado di gestire tutti gli aspetti della vita, ma poi talvolta capita che problemi ordinari ci angoscino e ci facciano sentire inetti… O, al contrario, a volte il senso di protezione di molte famiglie impedisce alla persona con disabilità di sviluppare le proprie capacità e di realizzarsi.
In vari casi il sentirsi inadeguati ad un compito o al rapportarsi con l’altro “diverso da noi” non riguarda solo la persona “normodotata” nei confronti di chi ha una disabilità. A quanti infatti è capitato di sentirsi dire o pensare «è più disabile di me, non me la sento di frequentarlo/a». Nei casi peggiori, talvolta sono i genitori o i familiari che non accettano la disabilità e fuggono lontani.
Non penso sia facile per nessuno raggiungere una vita autonoma e soddisfacente su vari aspetti fondamentali, quali una buona formazione, un lavoro adeguato alla preparazione che tenga presenti anche i limiti della persona, coltivando le proprie passioni e creandosi delle ricche relazioni interpersonali. Ma c’è comunque differenza tra l’essere una persona “normale/normodotata” con tante potenzialità o partire con un deficit che può essere più o meno grave e complesso, a livello fisico, sensoriale, cognitivo. Anche se si hanno molte potenzialità, infatti, non è facile accettare e misurarsi continuamente con un corpo che ti limita in ciò che vorresti fare e ti rende, tuo malgrado, dipendente da qualcun altro nella vita quotidiana. E c’è anche da mettersi nei panni di chi tutti i giorni si occupa di una persona non pienamente autosufficiente, compito non certo facile, sia che si tratti di un familiare che di una persona esterna.
Purtroppo la disabilità di un figlio o di un familiare involontariamente ricorda un evento traumatico, e molti genitori non vogliono o non ce la fanno a dedicarsi al figlio. In altri casi l’età avanzata e gli scarsi aiuti esasperano la situazione. Spesso, accudire una persona non completamente autosufficiente, aiutarla ad avere una vita piena, sono mansioni che richiedono sforzi fisici e mentali. C’è chi fa tutto questo con amore e dedizione e chi no.
E ancora, c’è da tener presente che, a volte, un badante o assistente personale che dir si voglia ha la propria storia: magari il suo livello socioculturale non gli ha permesso di trovare altri impieghi. Può non essere più giovane e quindi sopraggiunge la stanchezza. Tutto questo può portare al rischio di burnout, che secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è «una sindrome derivante da stress cronico associato al contesto lavorativo, che non riesce ad essere ben gestito». Il termine viene spesso usato per chi è a contatto con persone anziane e con disabilità e non in altri tipi di lavori: non sono lavori adatti a chiunque.
Un altro problema legato alla cura della persona con disabilità è che non sempre è possibile emanciparsi dalla famiglia. In molti casi, infatti, le varie situazioni personali e familiari non permettono di poter scegliere come vivere e soprattutto con chi. Ciò detto, vale soprattutto quando la disabilità non è lieve e quindi si necessita di aiuti nelle azioni della routine giornaliera. Servirebbero più supporti e tutele per crearsi una vita indipendente e per non temere, una volta rimasti soli, di ritrovarsi in realtà che non si sono scelte e sono molto diverse dalla casa dove si è cresciuti. Proviamo dunque a vedere qualche esempio virtuoso.
Una soluzione che si sta creando in varie Regioni, soprattutto al Nord d’Italia, è il cohousing, consistente in piccole realtà abitative, dove vi è un rapporto bilanciato tra assistenti e assistiti. Il cohousing per persone con disabilità può essere inteso in modi diversi. Ad esempio come una convivenza tra persone adulte già inserite nel mondo del lavoro e autonome oppure come un percorso verso un’“adultizzazione” consapevole per ragazzi e studenti, o ancora come un nuovo stile di vita per le famiglie con componenti disabili, che mettono insieme le forze per una quotidianità più sostenibile.
Un altro esempio positivo, è quello di Elena Rasia, una ragazza della Provincia di Bologna, che si è trasferita in città per inseguire i suoi sogni: primo fra tutti, vivere una vita in indipendenza, senza che siano gli altri a decidere per lei, nonostante la disabilità. Da un anno Elena divide un appartamento con Margherita Pisani, coinquilina gratuitamente, che dà in cambio una mano tra le mura domestiche. Fra le due è nata una grandissima amicizia, oltre a Indi Mates, un progetto sociale di scambio alla pari e coinquilinaggio sperimentale che chiunque può realizzare con l’obiettivo dell’indipendenza. Le parole di Elena dicono già tutto: «Se non avessi agito d’anticipo, un giorno i servizi mi avrebbero portata in qualche struttura, in qualche gruppo appartamento. Invece, per fortuna, ho voluto lavorare sulla mia autonomia prima che fosse tardi. E la fortuna ha voluto che trovassi, oltre che una coinquilina, un’amica».
Anche chi scrive, come Elena, ha potuto scegliere una vita indipendente ed è riuscita a vivere da sola (con un aiuto in casa) dall’età di 21 anni. Per questo mi sento molto fortunata. Le mie esperienze personali nell’àmbito di chi riceve assistenza e cura da persone al di fuori dei familiari mi portano a pensare che sia abbastanza semplice trovarsi bene tra coetanee con interessi in comune. Non sono pochi i fine settimana, i viaggi e le vacanze dei quali, sia io che la persona che mi accompagnava, abbiamo un bel ricordo. Cosa diversa è “Con-Dividere” la vita di tutti i giorni e non farsi sopraffare dal carico che ogni persona (assistito e assistente) porta con sé. Anche i rapporti più lunghi, infatti, possono diventare di dipendenza e si possono usurare per colpa di entrambe le persone. È importante riuscire a rispettare le esigenze di vita e la privacy di chi assiste e di chi viene assistito.
Credo insomma ci voglia saggezza e buona volontà per evitare che un rapporto si logori e che il burnout prenda il sopravvento. Alle famiglie mi sento di suggerire che è importante lavorare, fin da quando il bambino è molto piccolo, sulle capacità residue, per valorizzare al massimo la persona. Ci vorrebbero altresì più aiuti e sostegni per pesare di meno sui familiari e per crearsi una vita piena e soddisfacente. Ciò detto, andrebbe a beneficio di persone e famiglie, ma anche dell’intera società. In tal senso ricordiamo che la cultura e il livello di civiltà della società moderna dovrebbero essere valutati anche sulla qualità e quantità degli strumenti che vengono creati al fine di tutelare e di integrare le persone più deboli.