Come annotato già anche su queste pagine, è stato pubblicato recentemente A Sua immagine? Figli di Dio con disabilità (La Vita Felice, 2022), basato su quanto scritto nel saggio “Us” not “Them”. Disability and Catholic Theology and Social Teaching (“Noi”, non “loro”. Disabilità, teologia e dottrina sociale cattolica), scritto dal teologo neozelandese Justin Glyn, avvocato e sacerdote gesuita cieco che si interroga su come la Chiesa Cattolica si occupi delle persone con disabilità, anche dal punto di vista teologico. A Sua immagine?, curato da Alberto Fontana e Giovanni Merlo, raccoglie vari contributi provenienti dal mondo cattolico, prodotti da ecclesiastici, esperti dell’associazionismo, studiosi.
Le riflessioni di Glyn toccano alcuni elementi dell’approccio teologico della Santa Sede. Prima di tutto l’ambivalenza della visione che lega la condizione di limitazione funzionale al peccato che l’ha causata (della famiglia, della persona, al peccato originale…), affermando al contempo il privilegio di “soffrire per tutta l’umanità” che sarà ricompensato nella vita dopo la morte. Io stesso ricordo che nei cinque anni passati in istituto riabilitativo romano gestito da monache (Lux et Amor), mi sentivo incoraggiare da una frase ricorrente: «La tua condizione sarà ricompensata in Paradiso nell’al di là». A 10-12 anni di vita risultava per me una frase misteriosa.
Questa duplice lettura, contraddittoria in sé, si ritrova in vari documenti del Vaticano, ma ambedue le visioni negano in ogni caso che la persona abbia una propria autonomia e identità: o oggetto di carità o segno di una missione terrena predeterminata e decisa non si sa da chi.
Glyn smentisce poi l’idea della sofferenza legata alla limitazione funzionale, che in realtà è quella percepita da chi ci guarda che, non potendo accettare di poter convivere con quella limitazione, trasferisce la propria idea di non accettazione alla persona con disabilità, ipotizzando che anche lei ne soffra. Anche in questo caso le persone con disabilità sono solo oggetto di percezione di altri.
E ancora, Glyn sottolinea che le persone con disabilità non sono pensate con un ruolo attivo, bensì condannate da un destino infausto, punitivo od oggetto della carità e di buon cuore e solidarietà da parte di chi le cura e se ne occupa. Detto in altro modo, rimane sempre una netta separazione tra il “noi”, sani, adeguati, credenti “normali” e il “loro”, malati di cui prendersi cura, speciali.
Il sacerdote gesuita auspica infine che la Chiesa Cattolica riesca in un prossimo futuro ad avere una teologia della disabilità tramite la quale poter finalmente accogliere queste persone, senza pregiudizi o forti stigma negativi, come parte integrante della comunità ecclesiale, senza restrizioni culturali e pratiche discriminatorie.
I contributi raccolti in A Sua immagine? condividono l’inadeguatezza di questa impostazione della Chiesa, analizzandola da vari punti di vista. Non potendo soffermarmi su ognuno di essi, pongo in evidenza l’obiezione di Matteo Schianchi che coglie un’evidente contraddizione del discorso teologico. Attribuire infatti alle persone con disabilità la limitazione funzionale come segno, come simbolo della sofferenza patita da Gesù per redimere l’intera umanità, rappresenta un riconoscimento della diversità di quella persona, se è vero che nella resurrezione di Gesù le ferite dei chiodi della croce e del costato rappresentavano una caratteristica che lo faceva riconoscere (anche se Tommaso aveva bisogno di toccarle), mentre per le persone con disabilità sono la caratteristica che le stigmatizza, spesso l’unica caratteristica distintiva che viene loro attribuita. Per cui quello che è il segno distintivo di Gesù diventa lo stigma (in greco “segno”) negativo che separa quella persona dalle altre.
Credo sia utile, per allargare il campo di riflessione, non rimanere in un àmbito solamente religioso e teologico, ma evidenziare un confronto con una lettura laica di come la società internazionale abbia elaborato il tema dell’uguaglianza di tutte le persone, quale che sia la caratteristica personale che esse vivano.
Il punto di svolta di un lungo processo storico, sociale e culturale è stata l’approvazione nel 2006, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata al momento da 183 Paesi (il 94,8% degli Stati membri dell’ONU), che ha riconosciuto la titolarità dei diritti umani e delle libertà fondamentali alle persone con disabilità (articolo 1, comma 1), affermando la necessità di conseguire la loro piena ed effettiva partecipazione e cittadinanza (articolo 1, comma 2), oltreché garantendo l’uguaglianza di opportunità e la non discriminazione (articolo 5). Queste affermazioni riconoscono la loro piena appartenenza a qualsiasi società e la protezione legale contro le discriminazioni.
L’Ad Hoc Committee, ovvero il Comitato Ad Hoc istituito a suo tempo proprio per scrivere la Convenzione, sulla base di una ricerca di due eminenti studiosi, Gerard Quinn e Theresia Degener, constatò che in tutti i rapporti all’ONU delle Convenzioni sui Diritti Umani fino ad allora approvate, l’attenzione ai diritti delle persone con disabilità era stata scarsissima se non nulla. Da qui la decisione di scrivere una specifica Convenzione basata sui diritti umani la cui titolarità era appunto negata alle persone con disabilità.
La storia di come sono state trattate nei millenni le persone con disabilità è abbastanza nota: abbandonati appena nati sul monte Taigeto in Grecia, scagliati dalla rupe Tarpea dai Romani, rinchiusi in luoghi separati, istituti e manicomi, considerati “speciali”, da trattare non come gli altri cittadini, fino ad essere soppressi dall’Aktion T4 dei nazisti. L’abbiamo visto anche all’inizio della pandemia, quando una società professionale, la SIIARTI (Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva), propose di escludere le persone molto anziane e le persone con disabilità grave dal triage medico di selezione per le cure contro il coronavirus. In tale occasione, tutta la comunità internazionale – sollecitata dal Comitato Sammarinese di Bioetica – condannò l’idea che si selezionassero i pazienti per categorie e non per le loro condizioni cliniche. È quello che viene definito il modello medico/individuale, il quale attribuisce alla condizione di limitazione funzionale l’esclusione dalla società di queste persone. Un modello, questo, che permea tuti i sistemi di welfare pubblici (riconoscimento della minorazione; attenzione prevalente alla condizione sanitaria; luoghi separati se non segreganti), un’impostazione spesso veicolata dai mass media, che ripropone nelle pratiche sociali l’idea del “noi” e del “loro”.
Si tratta di un’impostazione che corrisponde ad un pregiudizio divenuto senso comune e che è alla base di come la società ci osserva e giudica, anche nelle impostazioni religiose e scientifiche. Se analizziamo infatti il campo delle religioni, scopriamo che in quella buddhista chi convive con una limitazione funzionale si è comportato male nella vita precedente e dal canto suo, Martin Lutero sosteneva che le persone con disabilità intellettiva dovessero essere buttate al fiume…
L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ci ricorda che nell’arco di tutta la vita i 7 e più miliardi di persone che abitano la terra vivranno in varie forme (da bambini, per incidenti di varia natura, per esiti di malattia, per decadimento del corpo in età anziana) una condizione di disabilità. Già questa considerazione mette in crisi l’idea del “noi” e “loro”. Le Associazioni radicali americane, del resto, distinguono le persone con disabilità da quelle “non ancora disabili”. E d’altra parte, se valutiamo le varianti delle performance degli esseri umani, scopriamo che nessuno raggiunge il 100% di capacità in tutti gli àmbiti di attività. In altre parole, la condizione di limitazioni funzionali appartiene a tutto il genere umano…
La Convenzione ONU è molto chiara e definisce le persone con disabilità come «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». Questa definizione fa capire come le azioni che la società deve mettere in campo devono basarsi sulla rimozione delle barriere, degli ostacoli e delle discriminazioni che impediscono alle persone con disabilità di essere parte della società, operando altresì per garantirne il rispetto dei diritti umani. Ed è anche nei linguaggi che bisogna descrivere correttamente la loro condizione: le persone con disabilità non sono vulnerabili, ma rese vulnerabili dai trattamenti che la Società (e anche la Chiesa) mette in pratica sulla base di una visione distorta della loro umanità. La giusta polemica sollevata a suo tempo da Salvatore Nocera sulle regolamentazioni durante la pandemia, che imponevano alle persone con disabilità la partecipazione ai riti cattolici in chiesa in luoghi separati [se ne legga ampiamente anche su queste pagine, N.d.R.], è uno degli esempi di questa idea di persone speciali, del “noi” e “loro”. Né è un caso che Helena Dalli, commissaria europea per l’Uguaglianza e la Parità di Genere abbia sottolineato il carico sproporzionato di problemi che ha colpito le persone con disabilità e le loro famiglie durante la pandemia. Il cosiddetto “welfare di protezione”, infatti, non ha affatto protetto le persone con disabilità, cosicché è quanto meno necessario passare ad una riforma del welfare verso un modello di inclusione, di prossimità territoriale, di partecipazione, in cui siano riconosciuti e tutelati i diritti fissati dalla Convenzione ONU, siano mesi in campo nuovi approcci e strumentazioni appropriate (empowerment, inteso come crescita dell’autoconsapevolezza, abilitazione, autodeterminazione, cittadinanza, vita indipendente).
Ma qual è la riflessione di un laico verso un dibattito teologico cattolico su chi siano le persone con disabilità e su come comportarsi nei loro riguardi?
La separazione tra “noi” e “loro” ha una storia legata al trattamento che la società ha costruito per millenni di stigmatizzazione delle persone con limitazioni funzionali, attraverso una visione culturale/tecnica/politica che le ha relegate nella dimensione “speciale”, da trattare in maniera speciale, in luoghi spesso separati dalla società ordinaria e con uno stato di cittadinanza limitato.
La religione cattolica ha contribuito in maniera positiva alla protezione degli esseri umani, introducendo il valore della persona umana, messaggio straordinario di Gesù, ma purtroppo – influenzata anche da pratiche laiche stigmatizzanti – non lo ha applicato fino in fondo alle persone con disabilità.
L’approccio duale ambiguo e fuorviante (colpa e/o peccato da un lato, segno della sofferenza per essere ricompensato in Paradiso dall’altro) continua a stigmatizzare queste persone. Solo di recente (1983) la Chiesa ha rimosso per loro il divieto di diventare sacerdoti. Ma il vulnus storico non è dato solo dal dualismo corpo/anima, ma anche da quello persona/cittadino o, in altre parole,. dall’idea che le persone con disabilità non abbiano gli stessi diritti degli altri (ancora il “noi” e “loro”), ma bisogni che nei secoli si sono articolati in un àmbito quasi esclusivamente sanitario e assistenziale. Riducendo pertanto i diritti a bisogni, l’azione sociale si è ristretta alle competenze tecniche di professionisti sanitari e assistenziali e la società ha relegato la vita di queste persone a decisioni prese da altri (la cosiddetta “presa in carico”), che riducono appunto l’attenzione alla dimensione sanitaria e assistenziale ritenuta, l’unica legittima per tali persone. In questo la visione e la pratica cattolica non si distinguono molto da quella laica: la visione caritativa della chiesa, pur svolgendo nei secoli un ruolo positivo (le istituzioni religiose hanno avuto un ruolo importante a garantire la vita di persone spesso abbandonate), ha relegato le persone con disabilità alla dimensione di “malati da assistere”, di oggetti su cui esercitare azioni di carità, assistenza e amore, senza riconoscere le loro capacità di autodeterminarsi e di accedere ai diritti riconosciuti a tutti i cittadini.
Esempi recenti hanno mostrato al mondo intero che le persone con disabilità, se adeguatamente sostenute, possono raggiungere risultati importanti; basti ricordare il cosmologo Stephen Hawking, che si muoveva in sedia a rotelle elettrica e comunicava attraverso il movimento degli occhi e delle palpebre o l’atleta Oscar Pistorius, che partecipò alle Olimpiadi ordinarie, pur se amputato ad entrambe le gambe. E perché non ricordare Giusy Spagnolo e Filippo Adamo che si sono laureati vivendo con la sindrome di Down, senza necessariamente pensare a Toulouse-Lautrec, il grande pittore con malformazioni congenite, John Nash Jr., che con la sua schizofrenia ha vinto un Premio Nobel per l’Economia, Miguel Cervantes che scrisse il Don Chisciotte senza una mano, Gustave Flaubert che era asmatico, Ludwig van Beethoven che era sordo… E potremmo continuare con tante altre persone famose che hanno convissuto con una condizione di disabilità, a dimostrazione che le limitazioni funzionali non producono affatto una perdita di umanità e di capacità.
In realtà, se analizzassimo a fondo le performance degli esseri umani, scopriremmo, come già accennato, che nessuno di loro può dire di esprimersi al 100% in tutte le attività che li contraddistinguono: c’è chi ha limitazioni nella vista, chi nell’udito, chi è distratto, chi è una frana in matematica, chi è goffo, chi è timido… L’essere umano perfetto non esiste, anzi proprio per come è formato, un misto delle caratteristiche del padre e della madre, ogni essere umano è unico e, per molti versi imperfetto. In più, gli esseri umani non dipendono necessariamente dalle eredità genetiche dei genitori, dal momento che la loro storia di vita, le loro esperienze e consapevolezze ne influenzano profondamente le forme e le modalità di vita (perigenetica). Ed è questa la nuova consapevolezza veicolata dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità: le persone con limitazioni funzionali diventano persone con disabilità a causa degli ostacoli, delle barriere, degli impoverimenti e delle discriminazioni prodotti dalla società in cui esse vivono, dalla famiglia e dalla comunità in cui crescono, dalle scelte spesso fatte da altri.
Ogni persona, quindi, è fatta di tutte le caratteristiche che le appartengono, in un insieme in cui ognuna di tali caratteristiche interagisce con l’altra, creando capacità di adattamento nello svolgimento delle attività quotidiane, resilienza alle varie avversità e alle problematiche che la vita ci presenta, motivazioni a conseguire obiettivi e risultati. In sintesi, ogni persona ha un suo modo di funzionamento, che nel tempo si affina e si trasforma, anche grazie agli strumenti e alle tecnologie che oggi spesso ci emancipano dalle limitazioni corporali.
In quel suo modo di funzionamento, ogni essere umano – per chi ci crede – è fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Non c’è un modello di perfezione umana che si pensa sia ad immagine divina, bensì ci sono sulla terra più di sette miliardi di persone tutte diverse, ognuna con una propria identità di persona, che proprio perché diverse ci insegnano una ricchezza di caratteristiche umane straordinarie. La Convenzione ONU lo esplicita in uno dei princìpi dell’articolo 3, ove si parla di «rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa».
Ci sono filosofi morali come Peter Singer che da un lato riconoscono giustamente i diritti degli animali, ma dall’altro considerano le persone con disabilità intellettive e con gravi dipendenze quali “esseri subumani”, e quindi da non riconoscere come persone. Non si scandalizzano, quindi, anzi considerano legittime, pratiche eutanasiche o azioni di violenza come lo stupro verso queste persone.
Il programma nazista Aktion T4 rappresenta il culmine di tale approccio eutanasico, fortemente condannato dalla comunità internazionale in tutte le sue articolazioni, anche se in alcuni Stati degli USA, in Catalogna, in Quebec, questa pratica deumanizzante è stata riproposta e praticata.
La definizione di persona con disabilità della Convenzione ONU è uno strumento euristico, in quanto permette di riconoscere che è la società a disabilitare le persone con caratteristiche socialmente stigmatizzate da determinate e culture. Sostituite la parola “minorazioni” con “donne” e scoprirete la società costruita dai Talebani in Afganistan; provate a sostituirla con il termine “omosessuali” e vedrete la “disabilitazione” in quei Paesi che la puniscono con la pena di morte; utilizzate la parola migranti e scoprirete che l’interazione con determinate culture razziste “disabilita” chi fugge da guerre e carestie.
La separazione tra “noi” e “loro” è una costruzione sociale, un modo di stigmatizzare le caratteristiche umane per considerarle non desiderabili e costruire modalità culturali e sociali di distinzioni, limitazioni e discriminazioni. Per questo il riconoscimento della titolarità dei diritti umani e dei diritti fondamentali alle persone con disabilità su cui si basa la Convenzione ONU ha rappresentato una svolta epocale, alla base della rivoluzione di come definire chi siano le persone con disabilità, il loro ruolo nella società e il loro contributo ad un’umanità fraterna, solidale e partecipativa. Le persone con disabilità, infatti, non sono più oggetto di decisioni prese da altri (articolo 4, comma 3 della Convenzione), ma soggetto del cambiamento, perché laddove partecipano in maniera competente, esse producono innovazione, con il loro sguardo e la loro esperienza innovazione.
La religione cattolica dovrebbe riflettere su questi nuovi princìpi e valori umani introdotti dalla Convenzione, principi e valori che si ritrovano nel messaggio di Gesù, nel Vangelo e nell’essenza dell’umanità. Dovrebbe rivedere la decisione di non sostenere l’applicazione della Convenzione stessa e applicare la metodologia del mainstreaming della disabilità [inserimento della disabilità in tutte le azioni di natura generale, N.d.R.] in ogni sua pratica e riconoscere la piena umanità delle persone con disabilità nei discorsi teologici.
La comunità internazionale ha riconosciuto l’importanza di proteggere le diversità animali, vegetali e minerali, ora va fatto un altro passo verso il riconoscimento delle diversità umane. Le ultime encicliche di Papa Francesco vanno nella giusta direzione, riconoscendo il valore della protezione dell’ambiente e della fratellanza. È quindi il momento di applicare il motto che rivendica The right to be different, the difference as a right, ossia “il diritto di essere differente, la diversità come una buona cosa”.
E su un altro versante, naturalmente, a livello di comunità nazionali, e dal punto di vista laico, il lavoro da fare resta per lo meno altrettanto, per passare, come auspicato in precedenza, da un modello di welfare basato sulla protezione a un modello fondato sul rispetto dei diritti umani.