Queste mie riflessioni arrivano a margine di un mese molto pesante, fatto di lotte e rivendicazioni degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione di Roma, per impedire un nuovo regolamento del servizio, che intende equiparare il diritto allo studio ai servizi socio-assistenziali della Legge 328/00, snaturandolo e affidandolo alla procedura dell’accreditamento, con scelta della cooperativa da parte delle famiglie. Un duro colpo, a parere di chi scrive, alla scuola pubblica e al principio di autonomia educativa e di reciprocità, opposto a quello di subordinazione che, tristemente, si profila ancora e ancora. D’altronde è giusto condurre delle battaglie per ciò in cui si crede profondamente, anche se si sa già che la sconfitta è certa o, perlomeno, molto probabile.
Da bambina, in un reparto di Neurologia/Psichiatria con mia madre infermiera, non pensavo mai che ci fossero i medici da una parte e i pazienti, o meglio, i “matti”, dall’altra. Anzi, i miei grandi amici erano uno schizofrenico di due metri, appena “liberato” da un manicomio, e il primario, un buffo omino che mi chiedeva cosa fosse un oggetto per poi contraddirmi, dicendomi che nulla è davvero quel che sembra, se solo ne immagini un uso diverso.
Mi piacevano entrambi. Entrambi mi insegnarono a guardare le cose dal punto di vista degli altri per scoprire altri mondi. Più belli, più colorati. Che arricchivano e rendevano tridimensionale la mia personale visione del mondo. Molto prima di leggere Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma, di Edgar Allan Poe, in cui i matti si ribellano e impiumano i loro dottori, rovesciando la realtà.
Ora. Per la scuola e la tanto sospirata inclusione scolastica, non è diverso il livello di scostamento fra la Realtà e l’Ideale. In un mondo ideale non ci sono alunni “con BES” [Bisogni Educativi Speciali, N.d.R.], “con disabilità” o, il cielo ne scampi, “normali”. Ci sono bambini, ragazzi, giovani adulti che si affacciano alla vita e che sfiorano quelle di noi assistenti e insegnanti, restituendoci ogni volta cambiati e un po’ più ricchi. Insegnandoci più di quanto noi possiamo mai insegnare loro.
Ogni persona è un Mondo. Unico e speciale. Ognuno di noi porta con sé ciò che potrebbe o dovrebbe essere.
Ma… Tanti, troppi, ma.
Ma la burocrazia. Le griglie di valutazione, le programmazioni e il curricolo, la formazione. Gli insegnanti non specializzati, o comunque non abbastanza formati. E poi gli assistenti, che nessuno sa cosa davvero fanno, perché veri detentori dell’Immateriale. Le competenze socio-affettive, l’autonomia e l’autodeterminazione, la comunicazione e la relazione col mondo, tutto troppo immateriale, meglio definire le loro mansioni come «vigilanza-assistenza-accompagnamento» (articolo 2 della Deliberazione n. 162/20 del Comune di Roma).
Nel novembre dello scorso anno, in un magnifico evento comunitario quale la tre giorni del Convegno Erickson sulla Qualità dell’inclusione scolastica e sociale, ho partecipato come relatrice ad una tavola rotonda dal titolo L’ecologia dell’inclusione scolastica. Si intenda, per “ecologia dell’inclusione”, un sistema in cui tutti i compartecipi del Progetto di Vita dell’alunno rappresentano ciascuno un polo di conoscenza, un tassello che compone il grande quadro del Piano Educativo Individualizzato (PEI). Vediamola, allora, questa ecologia dell’inclusione nella cruda realtà dei GLO (Gruppi di Lavoro Operativi per l’Inclusione) che si svolgono nelle nostre scuole.
Gli esperti delle ASL, che purtroppo ormai da troppo tempo sono i grandi assenti in tanti, troppi GLO; i genitori, troppo spesso stanchi e afflitti da abbandono da parte di larga parte dello Stato, cui è richiesto lo sforzo di fiducia maggiore; i docenti curriculari, cui sicuramente venticinque ore di formazione sull’inclusione non possono né devono bastare, e che devono imparare a lavorare in codocenza; i docenti specializzati sul sostegno, la cui formazione andrebbe sicuramente implementata maggiormente e i cui ruoli andrebbero stabilizzati seriamente secondo necessità; gli assistenti, infine, ovvero gli “abitatori del Limbo delle Necessità” cui viene richiesto tutto e il contrario di tutto, ma ai quali, al contempo, nulla o poco è concesso in termini di riconoscibilità e diritti.
Il GLO, in un Mondo Ideale, non dovrebbe essere semplicemente un incontro che si svolge una/due volte l’anno per approvare e verificare un documento triste e solitario scritto da un solitario insegnante di sostegno. Dovrebbe essere uno spazio mentale e organizzativo in grado di lavorare sistemicamente ogniqualvolta serva e in grado di produrre quel quadro cui si accennava sopra.
Ebbene, perché tutto questo non funziona bisogna chiederselo seriamente, senza infingimenti e preclusioni ideologiche.
Ci sono tutti i problemi elencati sopra, certo. Ma sento che c’è di più. C’è quella visione del mondo, quella rappresentazione mentale degli altri che, anziché produrre conoscenza e ricchezza, produce categorie ed etichette da parte di tutti gli attori in causa.
La verità, secondo me, è che non ci può essere conoscenza, compresenza, compartecipazione, reciprocità, dove non c’è fiducia. E la fiducia, lo vedo, lo sento ogni giorno a scuola, viene sempre più affievolendosi, come base per la costruzione di una vera ecologia dell’inclusione.
Ci vogliono persone di buona volontà, disposte ad accogliere gli altri. C’è bisogno di una visione profondamente etica per essere dei buoni insegnanti ed educatori. E i genitori devono poter tornare a fidarsi degli insegnanti e degli educatori dei figli, devono poter delegare quando necessario e lasciare andare se serve, i propri figli, magari verso obiettivi neanche immaginati o preventivati. Perché, in tutto questo, l’unico vero obiettivo è il bambino/ragazzo/giovane adulto. Perché è l’unica cosa che conta davvero. La vita che vorrà. Non quella che vorrebbero per lui/lei gli adulti intorno.
La fiducia bisognerebbe accordarla ai nostri alunni e alunne.
Psicologa clinica, formatrice, insegnante, ex assistente specialistica non pentita.
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