Le luci si spengono a teatro, un padre e un figlio con grave disabilità si spingono sul palco. Si fa quiete nella platea di Stabat Pater che accoglie gli ospiti invitati di DLA Piper, uno studio legale internazionale presente in oltre quaranta Paesi.
Siamo a teatro, ma potremmo trovarci a curiosare in una delle tante case italiane che accolgono una famiglia con un ragazzo con una disabilità grave o gravissima. In scena ci sono Manuel Ferreira e Gioele Cosentino, ovvero l’attore che interpreta il padre e il danzatore che si cala nei panni della persona con fragilità che non cammina, non parla e forse pensa a modo suo.
Non importa la patologia! Le rappresenta tutte e nessuna. È la magia del teatro, il poco (due attori, qualche abito, poche caramelle gettate in aria come coriandoli, e un tappeto elastico) che racchiude il tutto. In un’ora di spettacolo, progettato e messo in scena dalle compagnie Alma Rosé e Sanpapié, viene condensato l’estratto della vita di un padre, in un alternarsi di dolore, rabbia, amore, affetto, disperazione, rassegnazione… in un equilibrio precario che ha per fulcro un figlio.
È notte, una lunghissima notte. È il tempo del dialogo con le tenebre che stringono le persone in un abbraccio caldo e intimo. È la notte delle confessioni e delle riflessioni. Quando il mondo esterno si ferma e resta un padre a vegliare il figlio. E inizia il racconto che si fa presto teso, in perenne disequilibrio tra emozioni opposte e in conflitto. Un filo narrativo che unisce storie vere di padri smarriti e defraudati due volte dal destino: la prima quando la vita ha consegnato nelle loro mani un figlio diverso da quello sognato, e la seconda nel sentirsi sottratti dal ruolo che la società affida loro, quello di trasmettere ciò che si è imparato fino a quel momento, di crescere un altro essere umano. Soli nel loro smarrimento a parlare, come l’attore, alla notte. «I figli sono un dono – racconta fuori dal palco Manuel Ferreira -, ma quando arriva la “sassata” ti senti solo. Quasi sempre si pensa alla mamma, raramente al padre, anche se il dolore esiste per entrambi».
Ma esiste una via maschile all’accudimento? Ripenso alle tante persone che ho incontrato in quindici anni di interesse per la disabilità: quante donne si sono raccontate. E quanti pochi uomini! Alcuni erano fuggiti dalla responsabilità, altri avevano delegato l’accudimento e si erano volutamente immersi nel lavoro. E poi c’erano loro, i padri presenti da contare sulla punta delle dita di un paio di mani.
Il mio pensiero ritorna a Zigulì, il libro di Massimiliano Verga. Ecco dove ho incontrato per la prima volta questa sensazione mista di rabbia e smarrimento, voglia di lottare e amore irato per il figlio. Lo riprendo in mano e ancora oggi avverto la stessa sensazione di “fastidio” di dieci anni fa, oggi come allora non ne condivido alcuni tratti, ma faccio ammenda: allora non ne capii la profonda natura. Ruvido, talvolta respingente, ma di un realismo vivido. Ma un inno all’amore paterno, quotidiano, spesso dominato da un senso d’impotenza verso qualcosa di sfuggente, dalle mille forme.
Forse è più comprensibile una disabilità propria, che si vive sulla propria pelle, rispetto a quella di un pezzo di sé… di un figlio. L’io diventa noi.
Dalla carta al teatro tutto cambia. Ci si immerge nel mondo portato in scena (una volta si parlava di “arte mimetica”), si soffre, si piange, si ride con gli attori. Disponendo di una via d’uscita. A fine spettacolo ciascuno torna alla propria vita. Un “regalo” non concesso neanche per pochi minuti a quei padri caregiver, votati a vita alla propria prole. Finché morte non vi separi!
Per chi volesse toccare con mano, Stabat pater tornerà dal 10 al 12 novembre al Teatro Litta di Milano.