Da trentatré anni lavorava nella stessa azienda con un contratto regolare, a tempo indeterminato, nel settore del commercio. È stato licenziato per avere superato il periodo di comporto, cioè il numero massimo di giorni di malattia previsti dal Contratto Collettivo Nazionale, che sono di norma 180.
Due anni fa, in piena pandemia da Covid, l’uomo aveva ricevuto una diagnosi di miastenia grave, malattia rara e cronica, che lo poneva anche tra i «soggetti fragili da tutelare» di fronte alla pandemia stessa. Verso la metà dicembre del 2020, poi, l’azienda aveva deciso di metterlo in malattia precauzionale. «Lavoravo all’accettazione – racconta egli stesso – quindi a stretto contatto con il pubblico e non esisteva la possibilità di smart working o di un cambio mansioni. Quindi, in attesa della vaccinazione, sono stato messo in malattia dal mio curante. Mi sono dovuto sottoporre a un intervento importante e sono stato licenziato nel mese di luglio dello scorso anno, per avere sforato il periodo di comporto, che per il Contratto Nazionale del Commercio è di 180 giorni».
Purtroppo il Contratto del Commercio non prevede la possibilità di prolungare il periodo di comporto usando una specifica formula, quella della “terapia salvavita”, prevista invece da altri contratti. Questo ha reso più complicata la vicenda di Lorenzo, che però non si è dato per vinto e assistito dal proprio legale, si è rivolto al Tribunale di Milano, in funzione di Giudice del Lavoro, impugnando il licenziamento e denunciando il carattere discriminatorio del recesso datoriale e quindi la sua nullità.
Ebbene, il ricorso è stato accolto, l’azienda condannata alla reintegrazione del lavoratore e a un risarcimento, e le motivazioni della relativa Ordinanza sono decisamente importanti, potendo aprire un nuovo scenario per tante altre persone che potranno trovarsi nella stessa condizione di Lorenzo. Il Tribunale di Milano, infatti, non si è limitato a dare il suo giudizio sulla singola vicenda, ma ha fatto molto di più, sentenziando che «in caso di malattia cronica le assenze per motivi di salute non possono essere computate ai fini del comporto», a prescindere dall’esistenza di certificazioni comprovanti handicap o invalidità civile.
«L’Ordinanza – spiega poi l’avvocata Roberta Venturi, co-responsabile dello Sportello Legale Dalla Parte dei Rari [servizio dell’OMAR-Osservatorio Malattie Rare, N.d.R.] ribadisce anche, secondo quanto stabilito dalla Direttiva 2000/78/CE [“Quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, N.d.R.] e successivamente dalla Corte di Giustizia Europea, alcuni princìpi comunitari di particolare rilevanza che, seppure spesso richiamati da diverse pronunce giurisprudenziali, non sono ancora riconosciuti e integrati nella normativa nazionale. Nel 2019, ad esempio, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la malattia come disabilità, se duratura e incidente sull’integrazione socio-lavorativa di un soggetto; ancora nel 2016 il Tribunale di Milano ha riconosciuto la fattispecie di discriminazione indiretta nel caso di previsione per un lavoratore con disabilità e per un lavoratore senza disabilità, del medesimo periodo di comporto. Oggi questa Ordinanza sottolinea l’esigenza di interpretare la disciplina del periodo di comporto in una prospettiva di tutela e salvaguardia dei lavoratori che, portatori di disabilità, si trovano in una condizione di oggettivo e ineliminabile svantaggio. È pertanto un altro bellissimo esempio di giurisprudenza che speriamo possa essere riportato quanto prima in un testo di legge. Auspichiamo infatti che i contenuti di questa Ordinanza, come delle precedenti pronunce, possano diventare un principio di legge al quale i Contratti Collettivi Nazionali siano chiamati ad uniformarsi».
Da sottolineare, infine, un’ulteriore questione sostanziale stabilita dall’Ordinanza, ossia che disabilità non significa certificazione di handicap o invalidità. Essa esplicita infatti che «alla condizione di invalidità/disabilità deve riconoscersi una rilevanza obiettiva, per il sol fatto della ricorrenza di un’effettiva minorazione fisica e, addirittura, indipendentemente dal riconoscimento formale che della stessa i competenti Enti Previdenziali ne abbiano dato, pena la frustrazione delle tutele di legge, anche perché assoggettare l’applicazione delle tutele riservate ai soggetti portatori di questo specifico fattore di rischio alla ricorrenza, o all’adempimento, di formalità di qualsivoglia natura significherebbe creare un vulnus oltremodo severo allo statuto di protezione previsto dall’ordinamento, frustrandone ratio ed efficacia».
Rara malattia autoimmune delle giunzioni neuromuscolari, caratterizzata da una generale debolezza dei muscoli volontari, la miastenia grave (nota anche come miastenia gravis o più semplicemente come miastenia) non è una patologia ereditaria ma acquisita, può insorgere a qualunque età, e in particolare tra i 20 e i 30 anni nelle donne e tra i 50 e i 60 negli uomini. In Europa la prevalenza di essa è stimata in un caso ogni 5.000 persone. Le persone che ne sono colpite sembrano stanche, depresse, ma si tratta di una patologia severa e anche molto invalidante che, fortunatamente, può essere tenuta sotto controllo con la giusta terapia.
A questo link è disponibile un testo di ulteriore approfondimento sull’Ordinanza del Tribunale di Milano di cui si parla nel presente contributo. Per altre informazioni: Rossella Melchionna (melchionna@rarelab.eu).