Una pandemia, una guerra sul suolo europeo, la crisi economica ed energetica, la terra che reagisce allo sfruttamento dell’uomo con i cambiamenti climatici: non possiamo certo dire che i macro fenomeni che dovrebbero farci riflettere sulla vulnerabilità umana scarseggino. E, a dire il vero, non ci dovrebbe nemmeno essere bisogno di indicatori così eclatanti per comprendere che l’esposizione all’altro e al mondo è un tratto comune che ci caratterizza sia in termini negativi che positivi. Perché se è vero che siamo esposti alla ferita – intesa come violenza sia fisica che morale –, alla mancanza di potere e al danno in senso lato, lo siamo altrettanto all’amore, alla carezza e alla cura (pur con le sue ambivalenze).
Di questi temi si occupa il volume Vulnerabilità: etica, politica, diritto, curato da Maria Giulia Bernardini, Brunella Casalini, Orsetta Giolo e Lucia Re (IF Press, ©2018, testo liberamente fruibile/scaricabile da questo link). Si tratta di dodici saggi brevi, con un’introduzione e una conclusione che sono anch’esse veri e propri saggi. La pubblicazione annovera tra i suoi autori e autrici anche nomi di riconosciuto prestigio internazionale, quali sono certamente Martha Fineman, giurista, filosofa americana e figura imprescindibile per chiunque voglia occuparsi di vulnerabilità, ed Eva Kittay, filosofa femminista e docente, anche lei americana, nota per il suo contributo ai temi dell’etica della cura, della dipendenza e dell’interdipendenza degli esseri umani.
La ricchezza di quest’opera scaturisce proprio dalla pluralità di voci che da prospettive e approcci disciplinari differenti si sono interrogate sul tema della vulnerabilità, analizzandolo sia in termini filosofico-giuridici e filosofico-politici, sia sotto il profilo del dibattito politico-giuridico.
Dopo un’introduzione in cui Lucia Re traccia le linee attraverso le quali il tema si è sviluppato nei diversi contesti, viene posto in luce l’importante contributo apportato alla riflessione sulla vulnerabilità dalle teorie femministe contemporanee (nel saggio di Brunella Casalini), con un focus specifico sul dibattito tra Adriana Cavarero e Judith Butler (nel saggio di Alberto Pinto). Quindi la possibile applicazione del concetto di vulnerabilità viene sviluppata oltre che in chiave umanistica, anche in quella anti-specista, allargandola a tutti gli esseri viventi (nel saggio di Sandra Rossetti).
Proseguendo poi nella lettura troviamo un contributo a firma di Alessandra Grompi nel quale il rapporto tra vulnerabilità e politica è esaminato attraverso l’analisi di un’opera classica, il Filottete di Sofocle. Quali debbano essere le responsabilità dello Stato (americano) nei confronti dei soggetti vulnerabili è invece il tema della riflessione di Martha Albertson Fineman, mentre le due eccezioni della vulnerabilità – intesa sia come condizione umana, ma anche come esito della mancanza di protezione – sono prese in esame da Dolores Morondo Taramundi e i concetti di dipendenza e interdipendenza vengono analizzati da Eva Feder Kittay.
È Maria Giulia Bernardini a focalizzarsi sui diritti (umani) delle persone con disabilità ed in particolare sulla compatibilità del paradigma della vulnerabilità con il dettato della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità; la vulnerabilità e la risposta resiliente vengono invece considerati da Alexander Bagattini e Rebecca Gutwald in relazione alla situazione di bambini e bambine povere; e ancora, l’applicazione del concetto di vulnerabilità nelle scienze sociali è l’oggetto dell’analisi (critica) di Estelle Ferrarese, mentre Valeria Marzocco illustra come i concetti di vulnerabilità e resilienza siano utilizzati nel lessico giuridico-politico del neo-liberismo; dal casnto suo, Encarnaciòn La Spina mostra le modalità attraverso le quali le politiche in tema di immigrazione poste in essere nei Paesi dell’Europa meridionale contribuiscono a rendere vulnerabili gli/le immigrati/e; infine, nelle conclusioni, Orsetta Giolo, constatando come la nostra vulnerabilità sia una delle argomentazioni che tuttora legittima la presenza delle Istituzioni politiche e giuridiche – poiché è ad esse che è affidato il compito di una gestione condivisa della vulnerabilità stessa, nonché quello di regolamentare la violenza/forza pubblica e privata –, osserva che lo scarto in avanti che la riflessione sulla vulnerabilità intesa come dimensione della condizione umana potrebbe compiere, consiste nel riconfigurare gli aspetti della violenza/forza o, ancora meglio, nel tentare di superare quella concezione che, ancora oggi, «intende la violenza/forza quale elemento necessario e costitutivo delle istituzioni, del diritto e della politica» (pagina 350).
Occupandomi di disabilità anche per lavoro, ed avendo assunto per diversi anni il ruolo di caregiver, ho letto il testo in esame con l’aspettativa di trovare in esso riflessioni familiari, temi consueti, e così è stato, almeno in parte, anche se, com’è ovvio, i passaggi che mi hanno arricchita maggiormente sono quelli che hanno incrementato/integrato le conoscenze maturate nell’esperienza personale.
Non potendo dar conto di tutte le sollecitazioni che l’opera propone, mi limito ad accennare ad alcune riflessioni scaturite dalla lettura.
Penso ad esempio che il “mito dell’autonomia”, così ben delineato da Martha Fineman – quello che consente alle persone di occultare anche a se stesse la propria dipendenza dagli altri –, sia ancora piuttosto diffuso nel sentire comune, come pure l’«irresponsabilità dei privilegiati», espressione utilizzata da Joan Tronto (esponente, come Kittay, dell’etica della cura), per descrivere il privilegio di chi gode di una certa autonomia, ignorando l’importanza delle attività che la rendono possibile e ritenendo di potersi esentare dall’assumersi ogni responsabilità a riguardo.
Ecco, ho come l’impressione che finché non ci saranno cambiamenti significativi nel sentire comune riguardo a questi temi, l’elaborazione etica, politica e giuridica sulla vulnerabilità, certamente fondamentale e imprescindibile, non abbia la forza di modificare le strutture che continuano a produrre dinamiche sistemiche di disuguaglianza, esclusione, marginalizzazione, stigmatizzazione e discriminazione di alcuni individui e gruppi sulla base delle loro caratteristiche, delle relazioni in cui sono inseriti, e dei sistemi che non le tengono in debito conto. Prova ne sia che, nonostante negli ultimi anni gli studi sulla condizione dei/delle caregiver italiani/e si siano moltiplicati, documentando le drammatiche condizioni in cui spesso sono costretti/e a vivere e ad operare, nel nostro ordinamento non sono state ancora introdotte significative tutele per loro.
Ben vengano dunque opere come questa, ben venga qualunque cosa che, liberandoci dai falsi miti e dalle convinzioni ingannevoli, ci porterà a vedere la vulnerabilità umana non come un elemento squalificante e imbarazzante da occultare o temere, ma come un comune denominatore per promuovere alleanze, condivisione e solidarietà reciproca.