Genitori spesso evocati come categoria, come blocco sociale omogeneo, con interventi per portare una “testimonianza”, di solito destrutturata, emotiva, per dare una fiammata al dibattito, ma per poi dimenticarsene subito dopo, emotivamente appunto.
Genitori che hanno in comune l’esperienza di una vita particolare, più particolare di altre, diversa da quella che si sarebbe attesa. Ma diversi in tutte le altre dimensioni. E diversi sono anche i figli di cui sono genitori, diverse le condizioni di disabilità, diversi i modi in cui ciascuna condizione si manifesta.
Genitori schiacciati dall’esperienza, che non riescono a risollevarsi, che si avvinghiano al rapporto simbiotico con il figlio, in un dolore che non passa.
Genitori che sanno solo loro il bene per il figlio. Che sanno di cosa ha bisogno, che hanno le parole giuste e sanno quali sono quelle sbagliate. Che stigmatizzano ogni tentativo di altri, sia esso informato o superficiale, necessariamente imperfetto, essendo umano. Che dettano legge negli spazi che frequentano, che impongono il loro lessico, il loro vissuto come prioritario, esclusivo.
Genitori che collaborano con i tentativi sempre parziali e sempre imperfetti di insegnanti, assistenti sociali, operatori della sanità, istituzioni, amministrazioni. Collaborano e spesso trovano attenzione parziale o scarsa, rassicurazioni superficiali, rappresentazioni roboanti a fronte di quotidianità disadorne.
Genitori che vedono spegnersi a poco a poco l’entusiasmo di una sfida difficile ma affrontata con coraggio e determinazione. Genitori che ascoltano, ascoltano, ascoltano. Ascoltano soprattutto i propri figli. E provano a dire anche una parola. In spazi dove la consuetudine, le politiche e lo spazio scientifico tendono a riprodurre se stessi, pur continuamente cambiando le parole per descrivere il mondo che propongono.
Genitori che vorrebbero cose molto modeste, non per se stessi, ma per i propri figli e per tutti. Che qualcuno si facesse sentire con una chiamata al telefono, con un invito, con un semplice «Come stai?», con una visita a casa, con due passi fuori insieme.
Genitori che si associano e costruiscono elaborazioni complesse e collaborano con le istituzioni, promuovendo la partecipazione allo spazio sociale non solo dei propri figli, ma di tutti. Che si confrontano con le differenze che in questa rappresentazione necessariamente emergono. E cercano di fare sintesi, la più alta possibile. Ma sempre complessa, perché le risorse personali e sociali sono limitate per definizione e si presenta la necessità della scelta.
Genitori che provano essi stessi in prima persona a costruire risposte sociali per le persone con disabilità, sia pure spesso dentro i recinti di specifiche condizioni di disabilità, di definizioni territoriali. E in questa ricerca si sporcano le mani e provano a modificare la percezione sociale. Ma anche lo sporcarsi le mani non è neutro. Le mani possono assuefarsi a vincoli, rappresentazioni della persona, possono abituarsi a compatibilità organizzative ed economiche che lentamente prendono il sopravvento sullo spirito con cui quell’impresa era stata intrapresa.
Genitori che chiedono che il loro ruolo di assistenza, mai dichiarato ufficialmente da nessuno, ma nei fatti di molti, sia riconosciuto, normato, avallato. Come un lavoro, non scelto, ma che si è dovuto fare. Che non riescono a immaginare altri spazi per i propri figli se non con sé, fino alla fine. Che non concepiscono i figli nella loro alterità, ma come un noi, inscindibile.
Genitori che arrivano a decidere che la vita del figlio non sia più degna di essere vissuta, come anche la propria, e mettono fine all’una e all’altra.
Genitori che provano a lasciare spazio alla libertà dei figli, misurando tutta la fatica e la difficoltà di vedere muoversi la persona amata in uno spazio che non la prevede, che non la supporta, in cui quella persona corre anche costantemente pericoli, anche della propria stessa vita. E continuamente si chiedono se il rischio sia giustificato. Dove fermarsi nell’accompagnare e dove invece continuare ad esserci. In domande che non trovano mai risposte, se non parziali, costantemente messe in discussione.
Genitori che addestrano i propri figli, sottoponendoli e sottoponendosi a protocolli e pratiche in cui dimostrare la propria compliance, per almeno pensare di avere fatto tutto, tutto, tutto il possibile.
Genitori che vedono morire il proprio figlio. E adesso cosa fare di quella vita tutta costruita intorno a lui? Continuare l’impegno per l’inclusione degli altri? E come? E perché?
Genitori, questo credo valga per tutti, che gustano i piccoli e grandi successi dei propri figli. Che li celebrano con gioia e che su questo cercano di costruire. Con gli altri.
La prossima volta che vi verrà alle labbra l’espressione «Che cosa ne pensano i genitori?», vi prego, tenete in considerazione questa galassia di forme in cui il termine può manifestarsi. E aiutateci e aiutiamoci a costruire una rappresentazione rispettosa di tutte le differenze.
Ma sopra tutto, prima di tutte le differenze, rispetto per l’alterità dei nostri figli. A cui vogliamo dare parola.