Nella mia attività di operatore del servizio pubblico, quale direttore dei Servizi sulla Disabilità e la Salute Mentale del Comune di Roma, ho sempre cercato di alimentare il mio lavoro con quella cultura socio/politica e quella prassi professionale, che negli Anni Settanta ha dato forza e visione a me, come a tantissime altre persone – sia professionali che dell’associazionismo – per rompere emarginazioni e segregazioni e far nascere tanti servizi territoriali a sostegno e miglioramento reale dell’esistenza di persone segnate da diverse difficoltà esistenziali.
Il mio lavoro si è indirizzato soprattutto alle persone con disabilità, inizialmente nel privato convenzionato e poi, dalla metà degli Anni Settanta, nell’Amministrazione del Comune di Roma. In quell’epoca, per le persone con disabilità le risposte disponibili erano quasi esclusivamente affidate a strutture sorte a seguito della Legge 118/71 [Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili, N.d.R.], Centri di riabilitazione a forte impronta sanitaria, sostenuti dal Ministero della Sanità. Purtroppo tali strutture stavano trasformandosi in grosse istituzioni per soli disabili, orientandosi verso pericolose nuove forme neo/istituzionalizzanti.
Come raccogliere, dunque, tale disagio e soprattutto come gestire il mio ruolo di pubblico operatore, con vincoli e lacci tipici delle Pubbliche Amministrazioni? Serviva un deciso cambiamento, per tentare di mettere in crisi i modelli organizzativi dominanti e forse attivare un po’ di fantasia per inventare nuove soluzioni. Ho così iniziato ad ascoltare le famiglie e le loro Associazioni, cercando di tradurre le loro proposte in programmi e progetti da proporre al mio decisore politico, facendo leva sulla più ampia creatività, attenta unicamente a costruire progetti inclusivi per una positiva vita sociale.
Ecco allora che, a partire dagli inizi degli Anni Ottanta, partirono i primi segnali di cambiamento: via le “colonie estive” per soli disabili e avvio di soggiorni estivi nei mesi di vacanze, in normali alberghi di mare o montagna a piccolissimi gruppi come per tutti i cittadini; garantire la massima mobilità attraverso la possibilità di un servizio taxi; nuove opportunità di integrazione nelle scuole, con i Laboratori Teatrali Integrati: fare cioè utilizzare agli alunni delle scuola media con e senza disabilità uno strumento originale, quale la pratica teatrale condotta e agìta con mezzi e professionalità altamente qualificati.
E poi arriviamo alle prime esperienze del SAD (Servizio di Assistenza Domiciliare, 1983), centrato prevalentemente sull’aiuto domiciliare delle persone. Ma da subito ci siamo resi conto che la natura complessa degli interventi avesse bisogno di ben altri investimenti (sia professionali, che tecnico-amministrativi ed economici). Serviva in fretta un diverso progetto che potesse contare su collaborazioni stabili e competenti, partendo dall’abolizione delle classiche gare d’appalto, adottando il sistema dell’accreditamento e coinvolgendo maggiormente e responsabilmente tutti i protagonisti interessati al problema: l’Amministrazione Comunale, le ASL, gli organismi di Terzo Settore, le persone con disabilità e le loro famiglie.
Si struttura così il nuovo servizio: il SAISH (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione Sociale della persona con disabilità), con l’obiettivo di dare maggiore evidenza alla centralità della persona con disabilità, un servizio basato su un prodotto intangibile la cui qualità fosse possibile valutare solo al momento della fruizione, poiché fondato su relazioni di aiuto, spostando cioè la valutazione da ex-ante (sistema utilizzato generalmente nelle gare d’appalto) a ex-post, in cui si valutano gli esiti a intervento avvenuto.
Si arriva finalmente all’elaborazione di un progetto personalizzato d’intervento e viene ripensata anche la modalità attuativa del servizio stesso, che potrà essere realizzato in forma diretta, indiretta o mista. Nella forma diretta attraverso la libera scelta di un Ente Gestore già accreditato, che con suoi operatori attuerà il progetto personalizzato, articolato in interventi individuali e/o di gruppo. Nella forma indiretta attraverso l’assunzione dell’assistente personale da parte dell’interessato o della sua famiglia, osservando un regolare contratto di lavoro e con la possibilità, a seguito di definizione della quota economica spettante, di poter riscuotere tale quota regolarmente a fine mese.
Complessivamente, tra assistenza diretta e indiretta a fine 2009 (anno del mio pensionamento) a Roma erano fruitrici del servizio oltre 3.500 persone con disabilità.
E arriviamo agli Anni Novanta. Dopo attento ascolto e consultazioni, viene lanciato il Progetto Residenzialità del Comune di Roma, soluzioni esistenziali che felicemente hanno anticipato tutta la complessa problematica del “Durante e Dopo di Noi”.
Impostato sulla tipologia della casa famiglia (massimo 6 persone) in normali case di civile abitazione e con la massima attenzione al rispetto della scelta autonoma e della dignità di ogni persona, il progetto intendeva far vivere in un ambiente sereno, confortevole e di positive relazioni, ma nel contempo ricco di stimoli per un’effettiva crescita personale: esperienze e attività interne ed esterne alla casa famiglia, dinamiche positive nel gruppo, sostegno alle potenzialità personali in rapporto all’età, alle capacità cognitive, comunicative, affettive e motorie e non, offrendo al tempo stesso possibilità di partecipazione e di inclusione sociale, mantenendo sempre i rapporti con il nucleo di origine. Altro obiettivo: stimolare l’attivazione di tutte le risorse territoriali, per creare occasioni di inclusione nelle normali attività lavorative o di tempo libero.
Per raggiungere un buon livello di qualità della vita bisognava attivare una vera partnership: condividere un linguaggio comune e sperimentare insieme un sistema di valutazione, un buon sistema di manutenzione attraverso il metodo di una ricerca partecipata con gli operatori su come valutare il proprio lavoro, un’occasione anche formativa, non per dare nuovi strumenti operativi, ma uno strumento di riflessività e, ove necessario, di cambiamento.
Partito nel 1996, il Progetto Residenzialità è purtroppo rimasto sostanzialmente immutato, nonostante l’arrivo della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e soprattutto della Legge 112/16. Due sistemi paralleli, e a volte divergenti, che affrontano uno stesso problema: il “Durante” e il “Dopo di Noi”!
Attualmente il Progetto Residenzialità sembra fare molta fatica a rispettare quotidianamente una buona qualità del benessere delle persone, un’inclusione attiva nel territorio e, al contempo, una corretta sostenibilità del sistema gestionale. La staticità di esso e il progressivo aumento degli aspetti negativi, ritengo siano principalmente da attribuire al fatto che, dopo il 2009 il cambio della dirigenza ha portato ad un progressivo smantellamento dell’équipe pubblica di controllo e di indirizzo, istituita da chi scrive, per vigilare, ma soprattutto per sostenere, insieme agli operatori gestori, le eventuali criticità del sistema, dovute anche al naturale mutare delle esigenze esistenziali e sociali dei cittadini delle case famiglia. Ecco perché gli organismi gestori, non avendo praticamente più sistematici supporti con gli interlocutori pubblici, alla fine hanno orientato ogni richiesta unicamente all’aumento delle risorse, senza alcuna preoccupazione del crescente immobilismo e dell’abbassamento della qualità esistenziale.
Credo quindi sia importante sottolineare come in generale la mancanza di una robusta e preparata guida pubblica, attenta e sollecita nell’agire con gli organismi gestori per una sana manutenzione del sistema strutturale e gestionale, determini che ogni progetto, ogni servizio diventi pericolosamente terreno di speculazione economica (tendenza a ridurre il personale, aggregazione di molte strutture da gestire ecc.) e di scivolamento verso un sistema assistenziale passivizzante.
Il diritto all’autonomia e all’inclusione sociale diventano in tal modo utopie accademiche, mentre avanza di fatto la prospettiva di “mini-istituto” camuffato da casa famiglia.