Come abbiamo segnalato in altra parte del giornale, nella serata di oggi, 18 novembre, all’interno di BookCity Milano 2022 e durante l’incontro denominato Disabilità: tra segregazione e relazione. Voci e volti del passato aiutano a comprendere le contraddizioni del presente, in programma presso il Teatro LaCucina di Milano (ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano), organizzato dalla LEDHA, la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), dall’Associazione Olinda e dall’AIB (Associazione Italiana Biblioteche), verranno presentati i libri Un manicomio dismesso di Maria Antonella Galanti e Mario Paolini e Storie dal manicomio di Francesco Paolella.
Sul primo di quei due volumi si sofferma qui di seguito Giovanni Merlo, direttore della LEDHA.
Il libro Un manicomio dismesso di Maria Antonella Galanti e Mario Paolini, racconta storie di persone segregate a causa della loro disabilità. È un saggio perché raccontando stralci di vita di alcune persone internate nell’ex Manicomio Sant’Artemio di Treviso presenta e approfondisce idee, tesi e contenuti sulla segregazione delle persone con disabilità, basate su informazioni storiche, dati e soprattutto sull’analisi di documenti raccolti dall’archivio dell’ospedale psichiatrico. Ma è anche un libro saggio perché è scritto con saggezza, ovvero con rispetto, attenzione e delicatezza verso le persone, ma anche con la giusta severità nel raccontare il contesto sociale e culturale, dentro il quale i manicomi trovavano la loro giustificazione e funzione.
È un testo che non nasconde il punto di vista degli Autori, ma riesce a rendere merito della complessità delle questioni che affronta e non commette l’errore di giudicare “a posteriori” (cioè con gli occhi di oggi) i comportamenti e le scelte delle persone protagoniste dei racconti.
Emergono dall’oscurità parole, silenzi, sospiri, urla, soprusi, affetti, preghiere, preoccupazioni dei protagonisti principali di queste storie: le persone internate, i loro familiari ma anche degli operatori e dei direttori e persino dei parroci e delle forze dell’ordine.
Attraverso le storie, ma soprattutto attraverso le parole scritte dalle persone internate, veniamo accompagnati in un viaggio nel tempo, alla scoperta di come le condizioni di alcune persone potevano essere definite e considerate “anormali” e di conseguenza determinate nei loro percorsi di cura e assistenza. Condizioni e scelte che erano considerate normali e accettabili, per quanto faticose e dolorose, rispondendo alla necessità di protezione e controllo delle persone stesse, dei loro familiari e vicini e della società stessa. Una “necessità” che – non a caso – fa rima con invisibilità.
Signor direttore, a mani giunte la prego farmi avere notizie de miei bimbi, le ho chieste e richieste, abbia pietà del mio sentimento di madre.
Incontriamo persone che, a un certo punto della loro vita, sono uscite dalle esistenze e dalla relazione con i loro familiari più stretti; divenute non simbolicamente invisibili, private spesso di ogni possibilità di comunicazione. Dimenticate come le loro lettere, mai spedite e mai lette se non a distanza di decenni, da noi posteri.
Carissimo papà, varia piacere di venirmi a prendere io sto bene […]. O papà non credeva che lei mi mettesse in ospedale.
Una storia del passato ma che parla alle nostre storie di oggi: alle storie delle persone che vivono nei manicomi, più o meno nascosti, ma certo ancora attivi. Alle storie delle persone che rischiano ancora oggi di subire il destino della separazione e dell’invisibilità. Alle tentazioni, sempre presenti e ricorrenti nella nostra società che forse il miglior posto per qualcuno non è qui, oggi e per sempre, insieme a noi, ma là, oggi e per sempre, insieme a quelli come lui e insieme a chi sa stare con loro.
Il presente contributo è già apparso in “Persone con disabilità.it” e viene qui ripreso per gentile concessione, con alcune modifiche dovute al diverso contenitore.