Sono accessibili i mass media che utilizzano la scrittura? Bella domanda. Per cercare di dare una risposta, vediamo di definire meglio a quali mass media pensiamo: i quotidiani, i periodici, sia su carta che sul web, faremo un discorso solo su di loro. È vero, noi italiani per informarci usiamo più la televisione e i giovani le informazioni che arrivano dai social presenti in rete, ma occupiamoci, in questo breve contributo di riflessione, solo di quegli strumenti di informazione che sono ritenuti oramai dei classici. Se poi dovessimo dare una risposta veloce alla domanda da cui siamo partiti, la risposta sarebbe facile: «No, non sono accessibili, o per lo meno solo a pochi».
Uno strumento di informazione è accessibile quando viene capito; i giornali e i periodici sono troppo difficili per una gran parte della popolazione italiana. E non solo per le persone sorde o ipoacusiche che hanno difficoltà ad avere a disposizione un vocabolario abbondante della lingua italiana.
Nel 2008 il linguista Tullio De Mauro affermò che solo il 20% della popolazione italiana aveva una preparazione sufficiente per comprendere le comunicazioni scritte che una società complessa come la nostra proponeva ai suoi cittadini. E da allora la situazione non è certo migliorata.
Come si può vedere, dunque, il problema non riguarda solo le persone con un deficit cognitivo, oppure le persone con deficit sensoriali o con difficoltà di apprendimento. Riguarda i molti cittadini che hanno titoli di studio bassi.
In Italia solo il 20,1% della popolazione (di 25-64 anni) possiede una laurea contro il 32,8% nell’Unione Europea. Ampia distanza dagli altri Paesi europei anche nella quota di popolazione con almeno un diploma (62,9% contro 79% nell’Unione Europea). La partecipazione degli adulti alla formazione è inferiore alla media europea, con differenze più forti per la popolazione disoccupata o con bassi livelli di istruzione. Se a tutte queste persone aggiungiamo anche coloro per i quali la lingua italiana non è la lingua madre, arriviamo alla conclusione che il nostro Paese ha un capitale umano basso e questo ci riguarda tutti perché rappresenta un impoverimento complessivo.
Nel caso dei mass media, questa situazione di povertà culturale si traduce in termini di poca partecipazione alla vita democratica. Se non capisco bene quello che si scrive attorno a me, come potrò partecipare al dibattito pubblico? Come potrò far rispettare i miei diritti o prevenire un peggioramento della convivenza civile?
Torniamo ora ai nostri quotidiani e periodici. Questi mass media non sono chiari per tutta una serie di motivi. I media (soprattutto i quotidiani) sono scritti come una specie di romanzo a puntate o serie TV; danno cioè per scontato (a differenza anzi delle serie TV) quello che è successo prima, non spiegano mai niente, perché è il lettore che deve tenere il ritmo, deve cioè essere aggiornato. Ma è possibile in una società come la nostra essere aggiornati in un flusso informativo così complesso? I primi a perdersi saranno proprio i più deboli culturalmente. Al giornalista in generale manca proprio la sensibilità di contestualizzare il suo articolo. Questo succede perché chi scrive raramente si pone al livello del lettore. Pensiamo a certi editoriali o commenti presenti sui quotidiani, magari molto profondi e acuti, ma che di fatto vengono capiti solo da quei pochi che sono aggiornati e colti.
Esistono dei quotidiani (in questo caso online) che si sono posti il problema della chiarezza delle notizie. «Il Post», ad esempio, per alcune notizie chiave dedica un lungo articolo dove non si dà niente per scontato, ma spiega ogni cosa in modo che un lettore non debba informarsi altrove per capire il tema trattato.
Ci si potrebbe poi porre anche un’altra domanda: quanto di veramente essenziale troviamo sui mezzi di informazione? L’agenda decisa dalle redazioni potrebbe essere semplificata?
Per le notizie esiste una gerarchia che si basa sulla loro importanza per i cittadini. Si potrebbe pensare ad un’agenda limitata alle notizie veramente importanti che ci riguardano direttamente. Certo, il problema di cosa sia importante e cosa non lo sia, non è facile da definire ed è soggetto a valutazioni economiche e politiche. Aggiungiamo anche il fatto che le notizie sono solo un tipo particolare di merce e la loro abbondanza e varietà viene fatta proprio per vendere di più. Nonostante tutto si può pensare di realizzare un mass media con un numero limitato di notizie importanti. Ad esempio in Italia esiste da poco tempo «L’Essenziale», un settimanale che propone ai cittadini solo un numero limitato, ma appunto essenziale di notizie che riguardano l’Italia.
Anche le parole scelte o meglio i modi di dire possono generare confusione. Spesso la tecnica giornalistica prevede l’uso di nuovi coni linguistici; usare espressioni come «bombe d’acqua», «è stato uno tsunami», «il lato b» significa rendere la scrittura più oscura. Queste espressioni possono avere varie provenienze; possono derivare (nel caso delle citazioni) dal titolo di un libro o di un film che ha fatto storia o che è particolarmente di attualità, possono derivare da fatti avvenuti (come nel caso dello tsunami), possono provenire da altre lingue (soprattutto dall’inglese). Tutto questo a scapito della chiarezza. Altre volte i problemi possono derivare invece da motivi professionali: spesso se si scrive oscuramente è perché non si è capito bene la cosa, oppure perché tutto non si può dire.
La stessa educazione alla scrittura che ci impartiscono a scuola e che si riflette anche sui giornalisti, può contribuire alla confusione. Ci insegnano a non fare mai ripetizioni, ma a trovare sempre dei sinonimi che sono spesso desueti, ci dicono che la costruzione di una frase lunga significa un pensiero più profondo. Tutte cose non vere e che complicano la lettura.
Altri problemi di chiarezza possono derivare quando il giornalista non usa la sua scrittura funzionale (a informare appunto), ma ne usa un’altra di tipo letterario. Lo si fa per rendere l’articolo più avvincente e questo si verifica spesso nell’apertura del pezzo. La scrittura giornalistica, invece, dev’essere sintetica, chiara e precisa (sobria, insomma).
Infine citiamo anche, come cattivo esempio di scrittura, tutti quei casi dove il giornalista prende in prestito espressioni e parole da altri àmbiti, come quello burocratico, politico, sportivo (quando l’articolo non si riferisce allo sport).
Italo Calvino aveva coniato anche un termine per designare una scrittura che non informa e comunica, ma serve solo a tenere le distanze, definire i ruoli, la chiamava l’“antilingua”. Nel caso dell’informazione giornalistica si può parlare di antilingua quando il lettore non viene informato. Lo scrittore e giornalista Goffredo Parise negli Anni Settanta diceva invece che per essere chiaro un giornalista dovrebbe avere semplicemente il “sentimento della chiarezza”.
Abbiamo dato solo un accenno veloce ai tanti problemi di chiarezza che presenta la scrittura che informa, quella giornalistica insomma. Con queste note non vogliamo nemmeno dire che un bravo giornalista dovrebbe scrivere usando solo parole comuni, frasi brevi e con una strutturazione logica del discorso (che però non ci dispiace). Esistono oltretutto situazioni complesse a volte difficili da spiegare. Quello che ci basta è la consapevolezza, da parte di chi scrive, dell’importanza di essere chiari, per essere capiti. Da parte di chi legge, invece, la consapevolezza del diritto a essere informati e di capire quello che si legge. Si può fare (e questa è una citazione).