Storia e attualità del wheelchair hockey

di Riccardo Rutigliano
L'hockey su carrozzina elettrica in Italia e nel resto del mondo: Riccardo Rutigliano analizza, seziona e ricompone l'anatomia di un piccolo boom

Può uno sport che vanta meno di 150 praticanti essere considerato prossimo al grande salto di qualità? Se dovessimo applicare il metro comune, bisognerebbe rispondere sicuramente in modo negativo a questa domanda. Centocinquanta atleti, acquisiti in poco più di dieci anni di storia, sono briciole di fronte alle grandi cifre a 4 o addirittura a 5 zeri che possono essere mosse da discipline quali calcio, basket, ciclismo, tennis, ormai consolidate nella prassi e nella cultura sportiva (peraltro tuttora carente) italiana. A dire il vero i numeri sono così bassi da non costituire minaccia nemmeno per sport con una base di praticanti assai meno ampia, come ad esempio il pugilato, la lotta, il tiro con l’arco… Eppure, esistono seri presupposti per ritenere l’hockey su carrozzina elettrica, o “electric wheelchair hockey” nella dizione inglese che si va affermando a livello internazionale, come uno sport alle soglie di un piccolo ma significativo “boom”.

Naturalmente occorre riportare subito l’argomento entro precisi ambiti e altrettanto precise cifre: perché stiamo parlando di uno sport praticato da disabili e di conseguenza la base di leva per i praticanti è senz’altro molto più ridotta rispetto a quella di uno sport per normodotati. Di più. Questa disciplina è rivolta in modo preponderante ai disabili che sono portatori di una specifica patologia: la distrofia muscolare, insieme alle malattie ad essa connesse.

Detto questo, resta comunque da analizzare un trend in crescita sia a livello nazionale che internazionale, pur tra mille ostacoli distribuiti senza distinzioni tra confini patrii e ribalta extra-italiana.

L’hockey su carrozzina elettrica è nato quasi per caso nei primi anni ’70: alcune scuole per studenti disabili del Nord Europa incominciarono ad organizzare lezioni di educazione fisica rivolte principalmente a giovani con severo handicap fisico-motorio. A causa delle limitate possibilità atletiche di questi ragazzi, dovute soprattutto alla ridotta forza muscolare, venne scelto un gioco nel quale essi potessero usare un’attrezzatura di materiale estremamente leggero (nel nostro caso una mazza e una pallina da unihockey o, all’estero, floorball). Si aggiunse poi un attrezzo più specifico, lo stick. Questa disciplina, a causa della grande somiglianza con l’omonimo sport, venne chiamata hockey, con l’aggiunta della specificazione che si trattava di hockey “su carrozzina”, mentre successivamente venne anche accostato al nome l’aggettivo “elettrica”, per sottolineare che i partecipanti facevano uso esclusivo, nella vita e nella pratica sportiva, di questo ausilio. Electric Wheelchair Hockey, in inglese.

In Olanda, dopo alcuni tornei-pilota negli anni 1978-79, nel 1982 partì il primo autentico Campionato nazionale. Successivamente, nel 1987 si svolse in Germania il primo torneo internazionale. Nel 1991 questo nuovo sport arrivò anche in Italia e nel 1997 (un anno dopo la disputa del primo Campionato italiano) si svolse a Milano anche il primo vero torneo a carattere internazionale, che vide il debutto della Nazionale azzurra.

Oggi è in corso il 10° Campionato Italiano e ci siamo messi da poco tempo alle spalle la kermesse iridata che si è svolta in Finlandia nel giugno 2004, appuntamento che ha rappresentato anche il primo Campionato del Mondo “ufficiale” di questa disciplina. E i mondiali finlandesi dovrebbero diventare una sorta di pietra miliare per favorire la nascita di una autentica Federazione Internazionale. In Italia, per contro, ottenuta nel 2003 la tanto attesa affiliazione alla Federazione Italiana Sport Disabili (l’attuale presidente FISD Luca Pancalli sembra credere molto in questa disciplina), si sta tentando di dirimere gli ultimi intricati nodi che ancora impediscono al movimento di spiccare compiutamente il volo. Uno sport in piena crescita, dunque.

Certo, sui suoi campi da gioco è ancora possibile di tanto in tanto imbattersi in turbolenti genitori che, nel sostenere il proprio figlio-atleta, spesso trascendono i limiti della buona educazione e del convivere civile. Vedere questi personaggi, normalmente amorevoli (e ragionevoli) padri e madri di ragazzi disabili, scagliarsi dai bordi del campo con fare minaccioso verso arbitri e avversari, fa sinceramente male al cuore.

Altrettanto spesso, il rettangolo di gioco viene avvelenato dalle faide esistenti tra alcune squadre, che antepongono il proprio interesse particolare ai bisogni di tutto il movimento. Problemi di immaturità dell’ambiente, certo. Ma forse, per comprendere questi atteggiamenti, occorre risalire alla dimensione sociale di questo sport: per molti di questi atleti (e di riflesso per le loro famiglie) il wheelchair hockey, infatti, non è stata una semplice scelta sportiva, quanto una scelta di vita. Giornate vuote si sono improvvisamente riempite, azioni di gioco prima seguite solo in tivù si sono tradotte come per magìa sul campo, e gli interpreti erano proprio quegli stessi ragazzi che una malattia estremamente penalizzante costringeva quasi all’immobilità: e l’immobilità riguardava non solo le loro membra, ma anche i loro spostamenti. Ora, giocando a hockey, i distrofici viaggiano indubbiamente molto di più. Anche perché, essendo le squadre praticanti poche e mal distribuite lungo la penisola, i gironi nei quali si suddivide il Campionato impongono spesso trasferte impegnative. Questo non significa che l’hockey su carrozzina elettrica debba però tralasciare ogni possibile tentativo per allargare il numero e la consistenza geografica delle squadre partecipanti. Perché “muoversi è bello”… ma, quando a disabili con serie complicazioni respiratorie e cardiache sono richieste trasferte che superano i 400 – 500 chilometri, il gioco comincia a farsi un po’ troppo duro: non dimentichiamo che alcuni di questi atleti esibiscono orgogliosamente gole segnate da autentiche tracheotomie, attraverso le quali sono collegati 24 ore su 24 ai ventilatori meccanici posizionati dietro le carrozzine.

Sarebbe un errore tuttavia pensare che la Federazione (che si chiama FIWH e le 4 lettere dell’acronimo stanno naturalmente per Federazione Italiana Wheelchair Hockey), dopo aver raccolto il testimone dalla WHL, cioè la Lega che fin dal 1995 si è assunta il compito di gestire il wheelchair hockey nel nostro Paese, non si sia mai posta questo problema e non abbia tentato di porvi rimedio. Purtroppo essa si è dovuta scontrare con molteplici impedimenti: ad esempio una iniziale partnership con un Ente di promozione sportiva, stretta dalla stessa WHL per l’organizzazione del Campionato, che non ha dato i risultati sperati ed anzi ha non poco rallentato ogni possibile processo evolutivo; ma in parte, occorre dire, anche per le diatribe storicamente insorte all’atto della annuale suddivisione delle squadre nei diversi gironi (solitamente 3). Non secondario tra gli elementi di turbativa connessi a questi ultimi aspetti, va considerato l’approccio sospetto di alcuni rappresentanti-accompagnatori di questi sportivi (e in questo caso raramente si tratta di genitori) che hanno utilizzato con troppa disinvoltura e opportunismo i problemi fisici dei propri atleti affetti da distrofia di Duchenne, la già descritta e più grave forma di distrofia, per evitare forse l’inserimento all’interno di gironi ritenuti “scomodi”.

Oggi la FIWH, trasformatasi in autentica Federazione oltre un anno e sgravata da alcune delle più pressanti esigenze organizzative dopo il già citato “matrimonio” con la sorella maggiore, si appresta a un impegno assai più intenso sul piano della diffusione e della divulgazione della propria disciplina, potendo anche contare sull’apparato comunicativo di una FISD a sua volta fresca reduce da una svolta epocale, la trasformazione in CIP, Comitato Paralimpico Italiano.

Inoltre, la Federazione del wheelchair hockey sta cercando di percorrere strade innovative, spostando la sfida portata da questo specialissimo sport anche nella quotidianità.

Se da questo punto di vista è stata persa purtroppo la grossissima opportunità di sfruttare la cadenza nel 2004 dell’“Anno europeo dell’educazione attraverso lo sport”, fallendo l’opportunità di instaurare un legame scuola-wheelchair hockey, altre strade sono state intraprese in maniera più soddisfacente. Come è accaduto in Sicilia, dove sulla spinta del locale rappresentante FIWH, è stata istituita in più di un Comune la figura inedita del “Garante per la Disabilità”, che si occuperà di tutelare i diritti dei “diversamente abili”. Sempre in Sicilia, a Palermo, è stato inaugurato il primo impianto sportivo intitolato ad un giocatore di hockey su carrozzina elettrica, il compianto portiere della Nazionale Pietro Di Giglia.

Ma, naturalmente, l’allargamento della base geografica e la soluzione dei principali problemi organizzativi (relativi a corpo arbitrale e giustizia sportiva) non esauriranno i compiti che la Federazione Italiana Wheelchair Hockey sa di dover portare a termine nell’atto di essere ammessa a tutti gli effetti allo sport ufficiale.

Si tratta ad esempio di riuscire a fare coesistere le due anime dell’electric wheelchair hockey: il legittimo desiderio di primeggiare dei giocatori con maggiore forza residua (quelli che utilizzano la mazza, per intenderci) e l’esigenza prioritaria di consentire la partecipazione, una partecipazione dignitosa, anche agli atleti che possono prendere parte al gioco solo grazie allo stick, lo speciale attrezzo che, applicato alla carrozzina, consente loro di colpire la palla. È una questione molto più complessa di quello che potrebbe sembrare: questo sport è nato principalmente per loro, per i ragazzi con distrofia di Duchenne, che non hanno forza sufficiente nemmeno per stringere una leggera mazza di plastica, ma solamente per guidare la propria carrozzina elettrica. L’allargamento ai giovani con forme di distrofia differenti dalla Duchenne, che potesse consentire anche ad essi una pratica sportiva altrimenti impossibile, è stata una evoluzione naturale della disciplina, utile tra l’altro per permettere ai giocatori che utilizzano lo stick la possibilità di un minimo di gioco di squadra. In seguito, però, soprattutto all’estero, si è scelto di ammettere anche atleti con patologie del tutto diverse, senza creare speciali categorie o meccanismi tutelanti.

In Italia la WHL ha rifiutato fin dalla sua nascita questa filosofia, riservando questo sport ai disabili affetti da distrofia muscolare o a patologie ad essa assimilabili per forza fisica. Niente paraplegici o amputati, quindi. A meno che non accettassero di giocare con lo stick, ovviamente. Non si tratta di una specie di “razzismo di ritorno”, intendiamoci: grande rispetto per queste categorie di disabili, ma obiettivamente la differenza che passa tra la forza presente nelle loro braccia e in quelle di un distrofico, è di fatto identica a quella che intercorre tra un atleta con distrofia e un normodotato. Praticamente incolmabile.

Il concetto stesso di patologie assimilabili alla distrofia, tuttavia, è sempre stato fonte di diatribe nel movimento italiano, in quanto non esistevano strumenti idonei a valutare la forza fisica e la mobilità degli atleti. La WHL, già nel suo primitivo statuto, aveva previsto l’istituzione di una Commissione per l’accertamento delle patologie e delle potenzialità fisiche. La costituzione di questa Commissione si è dimostrata però uno degli scogli più difficili da superare per la Lega Hockey prima, e per la neonata FIWH poi; uno scoglio molto più arduo e impegnativo del previsto. Nel frattempo, alcune squadre avevano cominciato a schierare tra le proprie fila elementi border-line, quando non proprio marcatamente fuori regola, togliendo la possibilità di giocare ad autentici distrofici e soprattutto ai giocatori con lo stick. Occorreva correre ai ripari. Rendere la disciplina più open possibile (secondo la cultura dei padri fondatori di questo sport, contraria ad ogni “barriera”), disciplinando allo stesso tempo la partecipazione degli atleti. Agendo cioè in modo tale che coloro per i quali l’hockey su carrozzina elettrica era nato venissero adeguatamente tutelati. Così, il Consiglio della Lega, decideva all’inizio della stagione 2002-2003, l’introduzione di un sistema di punteggi che, in attesa che la Commissione preposta terminasse i suoi lavori, avrebbe sanato le ormai palesi disparità tra le squadre.

Naturalmente l’arbitrarietà della assegnazione di questi punteggi è stata una ulteriore fonte di polemiche nel litigioso mondo del wheelchair hockey italiano, ma la scelta della WHL è stata corroborata dal dato di fatto che i valori del Campionato non sono stati stravolti in seguito alla introduzione della normativa: ad esempio, nel primo Campionato dell’“era punteggi”, il titolo è andato ancora agli allora campioni in carica dei Blue Devils Napoli (tra i meno favorevoli all’introduzione della nuova normativa), mentre sicuramente aumentato è risultato invece l’equilibrio delle singole partite del torneo.

Forte di questo successo, confermato anche nella stagione 2003-2004, che ha visto l’avvento della Commissione Medica, la FIWH si prepara ora a spostare la battaglia sul terreno internazionale. Perché non è affatto pacifico che la linea italiana venga accettata dai maggiorenti stranieri. Che sì, sono soddisfatti dei risultati organizzativi conseguiti dagli italiani e del loro impegno nella diffusione di questo sport, ma che sono anche ben decisi a difendere la propria “visione sportiva” dell’electric wheelchair hockey.

Come ben sa lo stesso Presidente FIWH Antonio Spinelli, spesso bersaglio in Italia di duri attacchi, l’incontestabile apprezzamento dei partner stranieri per la gran mole di lavoro svolta dai rappresentanti italiani nel CIF (il Comitato che lavora alla nascita della Federazione Internazionale) insieme alle Nazioni più attive, è destinato a sbiadirsi non poco quando si tratterà di far digerire a tedeschi e olandesi (ma soprattutto a questi ultimi) un approccio decisamente lontano dalla logica del best player: una logica che tende a schierare sempre e comunque i migliori in ogni ruolo, indipendentemente dalla patologia. La visione olandese dell’electric wheelchair hockey è per questo contraria, soprattutto a livello di Nazionale, alla limitazione dei giocatori con mazza ai tre quinti dei componenti di una squadra (espediente atto a costringere le squadre all’impiego in campo di un secondo giocatore con lo stick oltre al portiere, obbligatorio), oltreché all’introduzione di un sistema di punteggi, sia per i giocatori che per squadra.

Questo perseguimento ad ogni costo del cosiddetto top level spaventa non poco le squadre italiane, come già era accaduto prima dell’ingresso nella italica FISD, della quale si temeva una possibile  tendenza, non suffragata dai fatti, a sacrificare lo sport di base sull’altare della rincorsa al risultato eclatante, della vittoria Paraolimpica. Ma la FIWH guarda avanti, forte dei dati che dimostrano che, malgrado tutte le difficoltà (che hanno portato anche alla scomparsa di società “storiche”), il numero delle squadre iscritte al Campionato si mantiene più o meno invariato ed anzi, ogni anno, si assiste alla nascita di almeno una nuova compagine. La “nuova frontiera” è rappresentata dalla conquista alla causa hockeistica di regioni importanti quali la Toscana, la Puglia o l’Abruzzo, che possano costituire naturali “cuscinetti” per le squadre delle regioni limitrofe, ora fatalmente isolate e costrette a spostarsi con notevole sacrificio nei gironi esistenti.

Un ruolo importante, verrebbe da dire fondamentale, potrà giocarlo a questo scopo, e sotto molti altri aspetti, il nuovo presidente nazionale UILDM Alberto Fontana, tra le altre cose il primo presidente della Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare ad aver praticato (e a praticare tuttora) questo sport. E difatti Fontana, dopo la sua elezione, ha cominciato subito a dedicare attenzione al fenomeno hockey in carrozzina, cercando innanzitutto di ricomporre le diatribe esistenti tra la Federazione e alcune delle squadre che a causa di incomprensioni e rancori si erano allontanate dal movimento. Ci sono gli interessi di molti giocatori, che sono distrofici e soci UILDM, da difendere. Una discesa in campo in forma ufficiale, quella di Fontana.

Allo stesso modo, cioè con la stessa autorevole e ferma volontà di riportare “lo sport dei distrofici” nell’ambito della più grande associazione di riferimento in Italia per queste patologie, è pensabile che il nuovo presidente agisca al fine di coinvolgere finalmente un numero consistente di sezioni della UILDM nei confronti del wheelchair hockey. La UILDM può vantare 71 Sezioni sparse per l’Italia. Tra queste, soltanto 10 intrattengono attualmente rapporti o hanno contribuito alla nascita di una squadra di hockey su carrozzina elettrica. Eppure, quello del tempo libero dei giovani distrofici è uno dei grossi problemi di ogni realtà UILDM sul territorio. Allora perché una Sezione si arrende così facilmente all’idea di non poter costituire una squadra? La molla deve scattare anche e soprattutto negli stessi giovani, stimolo e motivazione per la nascita di una compagine presso la propria Sezione di appartenenza.

Ad ogni modo, nei giocatori già tesserati si continua a respirare l’entusiasmo di sempre e la stessa sana voglia di scendere in campo che caratterizza ogni stagione. Qualche nuova squadra è andata ad aggiungersi alle undici del campionato 2003-2004 e in questo 2005 l’Italia ospiterà la prima edizione dei Campionati Europei, opportunità ineguagliabile per ritagliarsi attenzione ad ogni livello. E grande chance anche per la Nazionale azzurra. Che, ad onta di polemiche e attività limitata dai fondi a disposizione, negli ultimi anni è costantemente rimasta tra le migliori squadre del mondo. Come testimonia la medaglia di bronzo ai Mondiali di Helsinki dello scorso anno. Anche in questo caso l’ambizione a fare un ulteriore salto di qualità appare più che legittima.

In definitiva, qualche problema di crescita, certo. Ma soprattutto risultati, entusiasmo, ambizioni.

Niente male, per uno sport piccolo piccolo.

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