L’integrazione scolastica oggi

di Filippo Furioso*
"Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese - sulla realtà integrativa del sistema scuola, sui metodi e sulla loro applicabilità, oltre che sul rapporto tra scuola e famiglia

1. I principi
L’integrazione e’ un diritto
I diritti devono essere esigibili e certi, ma non ci sono diritti senza tutela; ogni minore-bambino-ragazzo disabile ha dei diritti aggiuntivi rispetto agli altri.
Il nostro Paese si è attrezzato attraverso l’emanazione di specifiche leggi e disposizioni che vengono considerate avanzate nel contesto internazionale ed a cui è necessario richiamarsi per una corretta gestione del servizio scolastico in collaborazione con tutte le istituzioni coinvolte e che devono intervenire per la migliore integrazione di tutti gli alunni.
L'integrazione scolastica oggiLa scuola in particolare opera per garantire il diritto all’Istruzione, a pieno titolo inserito fra i diritti essenziali, ed è dal diritto all’Istruzione che partiamo per leggere l’importanza della scuola come elemento centrale per i minori in situazione di handicap, e per noi professionalmente rilevante.
La scuola, come tutte le organizzazioni sociali, è preesistente rispetto ai singoli e alle diverse “categorie di utenti”, anche se talvolta una particolare categoria irrompe per la forza dei numeri, di problematiche e di opportunità che porta: è quello che è successo con gli studenti con disabilità.
L’integrazione scolastica degli alunni richiama fortemente il tema del diritto alla identità personale, «uno di quei diritti della personalità, che sono soggettivi, assoluti, personalissimi, indisponibili, imprescrivibili, irrinunciabili e intrasmissibili, che si acquistano dal momento della nascita. Per esso si deve riconoscere alla persona il proprio patrimonio intellettuale, culturale, ideologico, sociale, politico, religioso; cioè il diritto all’intangibilità della propria proiezione sociale» (L. Miazzi, in L’inserimento scolastico dei minori stranieri adottati, Firenze, Istituto degli Innocenti, 2003).
Inoltre la dimensione scolastica è una postazione avanzata nei rapporti di integrazione-inclusione sociale: nella scuola, nelle classi, spesso avvengono i primi contatti intensi e continuativi tra bambini-ragazzi-studenti, tutti molto diversi fra loro, e dalle dinamiche che si sviluppano si possono cogliere i segnali più significativi in atto.

Integrazione vs assimilazione-inserimento
Ho iniziato subito parlando di integrazione. Questa prospettiva, in cui mi piace pormi, si contrappone all’assimilazione, che rifiuta la differenziazione e tende a promuovere un contesto dominato da anomia ( = senza legge; insieme di situazioni derivanti da una carenza di norme sociali), che si manifesta con l’inserimento.
L’ottica dell’integrazione è lontana e antitetica rispetto ad un’ottica assistenziale degli interventi a favore delle persone con disabilità.
Mentre mi pare di poter dire che ancora oggi la scuola (la società) non sfugge ad una filosofia implicita, negli interventi riguardanti gli alunni disabili, intrisa di una sorta di antropologia schematica e meccanicistica che si esprime soprattutto con un’esigenza di classificazione ed in cui prevale una visione dei bisogni come carenze da compensare in una logica assistenzialistica.
Ho rielaborato lo schema che segue da un “vecchio” testo di A. Canevaro (Manuale per l’integrazione scolastica, NIS, 1983):

L’integrazione si caratterizza per:
– il suo aspetto sistemico, inteso come la dimensione complessiva in cui vengono situati i singoli individui e le loro relazioni;
– l’adesione alla realtà, alla sua complessità, come coscienza del suo essere composta da elementi che possono assumere connotati positivi o negativi a seconda delle diverse circostanze / interazioni;
– l’aspetto di ricerca, correlata quindi con gli elementi economici, culturali e politici;
– la personalizzazione/flessibilità, cioè l’attenzione alle esigenze della persona e la disponibilità a modificazioni anche importanti in funzione delle esigenze personali e di quelle che si manifestano nel processo educativo;
– la trasversalità, in riferimento a differenti competenze e professionalità, linguaggi e strumenti comunicativi, conoscenze, possibililità… ed in riferimento agli attori adulti e alunni della scuola, operatori e servizi, famiglia e famiglie, territorio-ambiente;
– la congruenza, come esigenza di trovare adeguate corrispondenze fra i contenuti delle affermazioni verbali e la comunicazione che passa attraverso l’organizzazione, gli spazi, gli oggetti, e le espressioni non verbali.
Infine, o l’integrazione scolastica riguarda tutti gli alunni, o non è.

Certo la realtà non sta mai dentro gli schemi; le nostre azioni, i nostri interventi oscilleranno sempre un po’ fra l’integrazione e l’assimilazione, ma credo sia importante possedere strumenti di analisi semplici ed efficaci per capire quale direzione si è presa, per correggere il tiro quando è necessario, per rinnovarsi e rinnovare.
In Italia «l’integrazione è l’unica riforma trasversale che ha interessato negli ultimi 30 anni tutti gli ordini di scuola […]. Si è trattato di un processo di riforma nato dalla base ed assunto successivamente dalle istituzioni» (M. Faloppa in «Handicap & Scuola», n.106/2002).
Noi, soprattutto noi “gente di scuola”, ci preoccupiamo di queste difficili e delicate questioni perché è una preoccupazione che ci compete, non una questione di “semplice” curiosità intellettuale, né “solo” di impegno sociale e politico; perché è evidente a tutti la valenza educativa del tema dell’integrazione: il tema su cui riflettere è quale progetto di vita questi ragazzi sono/sono messi in grado di elaborare per il loro futuro e con chi.
L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità, quindi, deve essere vista “solo” come una specifica e speciale articolazione del discorso che riguarda l’integrazione il benessere e gli apprendimenti di tutti gli alunni in una scuola di tutti e per tutti.
L’integrazione scolastica degli alunni – di tutti e quindi anche di quelli con disabilità – è un processo caratterizzato da intenzionalità, coerenza fra i contenuti proposti e le scelte metodologiche e fra le persone che li propongono, costanza temporale, interventi organizzativi.
Si tratta di costruire un progetto educativo, intenzionale per definizione, che attraversa trasversalmente tutte le discipline insegnate nella scuola e che si propone anche di modificare le percezioni e gli abiti cognitivi con cui generalmente ci rappresentiamo le interdipendenze, tanto a livello interpersonale quanto a livello sociale.

L’integrazione e’ un processo intenzionale
L’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap deve essere innanzitutto pensata.
Dagli adulti di riferimento, dai genitori (o chi ne fa le veci), dagli insegnanti e da tutti coloro che operano nella scuola, dagli operatori delle ASL e dei Servizi Sociali. E ancora, dalle persone che vivono nel contesto prossimale e dalla società nel suo complesso, dai disabili stessi.
Ma restiamo, per comodità di ragionamento, a cosa significa “pensare l’integrazione” nella scuola.
Significa ritenerla possibile e centrale (mi si accuserà di populismo se cito da Lettera a una professoressa, «…la scuola ha un solo grande problema: i ragazzi che perde»?).
Significa progettarla, e quindi dotarsi degli strumenti necessari per farlo.
Significa verificarla apertamente e in itinere.
Significa narrarla, creare gli spazi per poterlo fare in modo significativo.
Significa, in estrema sintesi, dotarsi degli strumenti di comprensione e crescita, di sapere e saper fare cose più utili per rispondere contemporaneamente ai bisogni dei soggetti e alla cura del contesto.
Dette così queste cose fanno sembrare l’integrazione un’operazione da Titani… io però vorrei sottolineare gli aspetti di normalità, della quotidianità possibile dei processi di cui stiamo parlando: certo non si tratta di operazioni che possano non veder coinvolti diversi soggetti con diverse competenze, e fra questi inserisco anche gli alunni.
Perché “pensare l’integrazione” presuppone l’integrazione fra adulti, tra enti e istituzioni, anche se l’integrazione la misurano, la vivono, soprattutto gli alunni.

5 punti fondamentali
Mi rifaccio al pensiero di Mario Tortello, cofondatore a Torino del Comitato per l’Integrazione Scolastica degli Handicappati e della rivista «Handicap & Scuola», di cui faccio parte, prematuramente scomparso nel 2001: «Un’integrazione scolastica di Qualità può costruirsi, fra l’altro, intorno a questi quattro concetti: la necessità di “Riprendersi la pedagogia”; l’opportunità di operare tenendo costantemente presente lo slogan “Pensami adulto”; la considerazione che è utile, forse indispensabile “Partecipare per apprendere”; l’esigenza di tenere nel debito conto anche la “Pedagogia dei genitori”» (M. Tortello in «Handicap & Scuola», n. 99 bis).

Riprendiamoci la pedagogia
Per sottolineare l’attenzione necessaria all’asse educativo e del diritto all’istruzione, senza negare l’esistenza di aspetti patologici rientranti nell’ambito medico-clinico. Per «pretendere che all’individuo in situazione di handicap venga assicurato anzitutto ciò che gli spetta in quanto persona, per poi provvedere a bisogni particolari, per i quali la risposta non dovrebbe mai essere totalizzante e emarginante» (Idem).

Pensami adulto

Per sottolineare la necessità di un progetto di vita, costruito non su o per, ma con l’alunno disabile e la sua famiglia. Guardando il disabile non come eterno bambino ma con l’obiettivo della sua crescita, che avviene in relazione al contesto in cui vive ed alle persone che incontra, che «passa anche (e soprattutto) attraverso prescrizioni finalizzate ad apprendere un ruolo via via crescente, in famiglia, a scuola, nella società» (Idem).

Partecipare per apprendere
«Obiettivo ultimo di ogni intervento educativo è l’apprendimento di un compito, attraverso l’assunzione di conoscenze e di competenze, nell’ambito dell’esperienza quotidiana» (Idem). Ma è necessario permettere a ciascuno di partecipare alla cultura dei compiti e delle discipline, far percepire all’alunno con disabilità che questi non gli sono estranei, che sono risolvibili e possono essere appresi a diversi livelli, anche in modo parziale mediante canali non necessariamente strutturati. Partecipare  alla cultura del compito favorisce l’apprendimento del compito stesso, se ad ogni alunno viene offerta l’opportunità di partecipare all’atmosfera culturale in cui è immerso.

Pedagogia dei Genitori
I genitori possono essere una risorsa importante per chi lavora con alunni con disabilità, spesso non utilizzata appieno. La concretizzazione del rapporto tra scuola, famiglia e territorio deve partire dal riconoscimento da parte degli operatori e dei familiari dell’importanza di ri-comporre insieme i rispettivi punti di vista educativi, per la promozione di un comune patto educativo.
Né va dimenticato quanto dice Bronfenbrenner: «Il potenziale evolutivo delle situazioni ambientali risulta incrementato nella misura in cui le modalità di comunicazione tra di esse sono di tipo personale» (citato in M. Pavone, Educare nella diversità, Brescia, La Scuola, 2001, p. 212).
Ecco perché il Comitato per l’Integrazione Scolastica di Torino, unitamente ad altre realtà italiane ed europee, sta portando avanti uno specifico progetto di Pedagogia dei Genitori che propone come metodologia la valorizzazione dei percorsi educativi dei genitori, in particolare quelli che hanno figli con disabilità, mediante la promozione e la raccolta delle narrazioni della crescita dei figli, la loro divulgazione come testimonianza e per momenti formativi, l’inserimento delle narrazioni tra il materiale di documentazione che accompagna la loro integrazione scolastica.

Il nodo dell’handicap grave
A questo proposito Mario Tortello usava anche le parole di Sergio Neri, che fu coordinatore dell’Osservatorio Permanente per l’Integrazione Scolastica delle Persone in Situazione di Handicap istituito dal Ministro dell’allora Pubblica Istruzione nel giugno 1997 (non voglio fare celebrazioni… ma anche lui scomparso!) che proponeva un modello integrazionista forte: «Un problema molto attuale sta davanti a noi: che non è tanto importante per la quantità delle persone coinvolte, quanto perché è sintomo di una situazione di disagio in cui di nuovo stiamo ritornando. È il problema dei cosiddetti gravissimi. […] si ripropone, sostanzialmente, un’idea di persone […] riabilitabili, ma [ritenute] non educabili, non istruibili o, se volete, educabili separatamente dall’istruibile, che facilmente diventa un addestrabile all’interno di una situazione di contenimento di effetti più gravi. Bisogna ripercorrere un cammino culturale, già avviato nel nostro Paese e in altri Paesi civili; passare dalla considerazione di una situazione ritenuta di irrecuperabilità a una ritenuta di ricuperabilità, poi di persone educabili, finalmente di persone istruibili» (S. Neri, 1998, p. 4, citato in «Handicap & Scuola», n. 99 bis); ed ancora parole del neuropsichiatra Adriano Milani Comparetti: « […] sostengo che la riabilitazione incomincia con la socializzazione e che senza quest’ultima è destinata a fallire. La segregazione è di per sé un handicap, e non mi riferisco solo all’isolamento fisico, ma a tutto l’insieme di interventi che agiscono subdolamente in senso emarginante […]. Tutto ciò fa di lui un handicappato invece di una persona con handicap, lo rende diverso e speciale, lo pone al di fuori della comunità preparandogli l’esclusione definitiva».
Si tratta, quindi, di distinguere fra un’eventuale specialità degli interventi e specialità della struttura.

2. L’evoluzione normativa
Prima della Costituzione Repubblicana
Logica emarginante
Logica assistenzialistica
Logica repressiva

Prima fase – Proclamazione del principio di inserimento
Costituzione:
– art. 2
– art. 3
– art. 34
– art. 38 (riconosce agli inabili e ai minorati il diritto all’educazione e all’avviamento professionale)

Anni Cinquanta-Sessanta: emarginazione, non dichiarata; classificazione nosografica; strutture mono-specialistiche, speciali
Legge 118/71: stabilisce che l’istruzione dell’obbligo deve avvenire nelle classi normali della scuola pubblica salvo in quei casi in cui i soggetti siano in situazione di gravita.

Seconda fase – Ricerca dell’efficienza dell’integrazione
Legge 517/77
: accoglie nelle scuole comuni alunni in situazione di handicap con particolari forme di sostegno. Definisce le modalità di integrazione, assegnando insegnanti specializzati e favorisce la stipula di intese. Abolisce le scuole speciali.
Sentenza Corte Costituzionale 215/87: impone di assicurare la frequenza degli alunni disabili alla scuola superiore.
Legge 262/88: assicura l’integrazione nella scuola secondaria di secondo grado.
CM 1/88: continuità educativa.
Legge 104/92: Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e scolastica e per la tutela dei soggetti in situazione di handicap.
DM 9/7/92: indirizzi per la stipula degli accordi di programma.
DPR 24/2/94: atto d’indirizzo sui compiti delle Unità Sanitarie Locali.

Competenze Specialistiche Diverse = Diversi Profili Diagnostici = Diagnosi Funzionale = Profilo Dinamico Funzionale = P.E.I. (Piano Educativo individualizzato)

Terza fase – Di consolidamento e del contesto
Legge 285/97
: attenzione diffusa ma non specifica all’handicap per azioni positive non separate e ghettizzanti, ma integrate in un contesto di normalità; metodologia della progettazione partecipata.
Legge 328/00: Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali; progetti individuali “di vita” anche per le persone disabili; Piano Nazionale… Piani di Zona; livelli essenziali delle prestazioni sociali erogabili.

C’è sempre un problema delle risorse che aggrava anche il problema della cultura.

3. Il momento in cui viviamo
Stiamo vivendo una fase destruens?
Il professor A. Canevaro a un grande convegno sulle dipendenze svoltosi a Torino (Strada facendo. Droga: la ricerca e la proposta, Torino, 20-22 settembre 2002), poneva l’attenzione sul bisogno di appartenenza di ciascuno di noi, per notare come viviamo in un periodo in cui le risposte a questo bisogno sono insufficienti, distorte e dannose. Si è verificato un cambiamento rilevante rappresentato dall’erosione dei comportamenti e degli apprendimenti sociali.
La proposta che ci viene fatta è fatta sempre più di programmi individuali.
Ad esempio nella scuola sta passando l’idea del programma individuale che rompe di fatto il patto che inseriva il percorso individualizzato in un progetto comune e unitario. Mentre bisogna rivolgere molta attenzione, per valorizzare i processi individuali e costruire un quadro di risposte che contenga tutti e con tutti sappia instaurare un dialogo costruttivo, ai potenziali di apprendimento di ogni soggetto, agli stili e alle strategie di elaborazione, puntando su come si apprende. L’individualizzazione è dei percorsi e delle strategie, proprio perché convivono stili diversi, non è personalizzazione estrema di obiettivi da raggiungere, magari, in situazioni segreganti e non attraverso l’organizzazione di vari gruppi, non alternativi alla classe ma che ad essa tornano e a cui fanno riferimento.
Inoltre i contesti prossimali vengono deprezzati a favore dell’offerta di uno spostamento dell’appartenenza in un altrove spaziale e temporale, che alimenta la speranza di appartenere al “club dell’élite” con una possibile escalation di questo tipo:
appartenenza / promessa (anche tu potrai appartenere al club dell’élite);
appartenenza / ascensore (entrerai nell’élite comprando, accettando, il pacchetto che ti si offre);
appartenenza / azzardo (se non riesci in altro modo, puoi sempre sperare, magicamente, nella buona sorte… devi essere quello/a al posto giusto nel momento giusto);
appartenenza / satellitare (se proprio non riesci o non vuoi, ti permetto di chiuderti in un tuo circolo dove ti troverai bene [e ti sentirai persino antagonista]).

C’è un forte elemento di competitività in tutto questo, si tratta di modalità violente, espressione di una struttura societaria violenta a cui ci si può (ci si deve) contrapporre:
– una diffusione di comportamenti sociali e di momenti per il loro apprendimento;
– la costruzione di buoni (almeno migliori) contesti prossimali e la loro valorizzazione;
– il recupero della memoria (perché le verità e i valori non sono opinabili e tutti equivalenti, ma storicamente costruiti e validati).
Questo vale per tutti, non solo per gli alunni e men che meno per i soli alunni con disabilità.
La scuola ha compiti importanti e prioritari rispetto a questi tre punti. E non sono compiti che riguardano solo chi vuole cambiare la società/la scuola, è un problema di migliore vivibilità anche all’interno di questa società e scuola, perché i meccanismi violenti sopra citati sono stressanti (provocano stress persecutorio in quanto tengono l’individuo sotto pressione costante e sempre sugli stessi punti) e rendono quindi le singole persone più vulnerabili e sempre più incapaci di vivere insieme.
Infine, mentre «Tutti dobbiamo essere consapevoli che l’attuale situazione socio-economica e politica fa prevedere situazioni di ulteriore contrazione dell’allocazione delle risorse e pertanto solo una fattiva integrazione e collaborazione tra tutte le componenti istituzionali e non, presenti sul territorio, può non fare ricadere completamente su quella parte di popolazione già così segnata, le conseguenti difficoltà» (P. Fasano in «Handicap & Scuola», n. 113), da più parti si ripete altresì che è fondamentale che gli alunni disabili:
«- Siano seguiti da un insegnante specializzato per le attività di sostegno assegnato alla classe(art. 14, L. 104/92).
– Le ore di sostegno assegnate corrispondano a quelle richieste dalla scuola (art. 41 DM 331/98).
– Le classi da loro frequentate rispettino i limiti numerici massimi (DM 141/99).
– Che PDF e PEI siano elaborati con la partecipazione della scuola, degli operatori socio-sanitari e delle famiglie (art. 12, L. 104/92 e atto di indirizzo DPR 24/2/94).
– Nei casi richiesti dal PEI venga ottenuta la nomina di assistenti per l’autonomia e la comunicazione (da parte dell’Ente locale) (art. 13, comma 3, L. 104/92).
– Siano presenti nella scuola un collaboratore o una collaboratrice scolastica per l’assistenza igienica (Nota Ministeriale prot. 3390/01 e CCNL 16/5/03).
– Siano organizzati brevi corsi d’aggiornamento sull’integrazione scolastica rivolti agli insegnanti curricolari della classe (Nota Ministeriale prot. 4088/02).
– Siano rimosse le barriere architettoniche (L. 23/96)» (Da Documento del Direttivo Nazionale dell’ANFFAS del 20 febbraio 2004).

In Parlamento la Relazione del 2003 sull’integrazione pone fortemente l’accento sugli effetti indesiderati dell’integrazione stessa; la bozza di Decreto Legislativo di modifica delle modalità per l’individuazione dell’alunno in situazione di handicap mantiene tutte le incertezze e le rigidità sulla
scuola e parla di ridefinizione complessiva dell’integrazione; mentre continuano, per ora senza esiti positivi, ad essere presentate interrogazioni sull’OM n. 90 del 2001 sugli esami di terza media.
La Riforma Moratti della scuola fin dalla fase di avvio non mi sembra favorisca l’integrazione scolastica.
Le Leggi Finanziarie (quella del 2004 è la n. 350/03) hanno previsto negli ultimi anni sempre meno risorse per l’integrazione scolastica e non posso non esprimere preoccupazioni per la prossima ancora in discussione [al momento della compilazione del presente testo, la Legge Finanziaria 2005 non era ancora stata approvata, N.d.R.].
Anche il Documento MIUR n. 14 del 9/1/2004 contenente proposte per migliorare la qualità dell’integrazione scolastica è piuttosto generico, pur richiamando la necessità di:
– concordare linee guida ed indicatori di qualità da parte di Conferenza Unificata Stato-Regioni-Città;
– prevedere organismi regionali e
– dei coordinamenti interassessorili a livello provinciale;
– attivare dei tavoli permanenti per la concertazione di zona ai sensi della L. 328/00;
– riformulare delle funzioni dei GLIP (non la loro soppressione).

La legge di riforma della scuola e il principio della qualita’ dell’integrazione scolastica
L’articolo 5 della Legge di Riforma Moratti della scuola dice: «La scuola primaria [perché solo la scuola primaria], accogliendo e valorizzando le diversità individuali, ivi comprese quelle derivanti dalle disabilità, promuove, nel rispetto delle diversità individuali [perché questa ripetizione?], lo sviluppo della personalità […]».
Più avanti si precisa: «Sono fatti salvi gli interventi previsti, per gli alunni in situazione di handicap, dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104».
Molte ambiguità si riscontrano nella legge e nei decreti attuativi. Il Tempo Pieno, per esempio, sembrerebbe confermato almeno come tempo scuola per le famiglie che lo richiedono, ma il Tempo Pieno che, per i tempi di lavoro e di vita, per le compresenze e per la contitolarità fra i docenti, offre agli alunni disabili garanzie di migliore integrazione e di interventi individualizzati, viene soppresso con l’abrogazione dell’articolo 130 del TU 297/1994.
Purtroppo questa abrogazione non si presenta solitaria: vengono abrogati infatti anche gli articoli che riguardavano le finalità delle diverse articolazioni della scuola dell’obbligo, la continuità educativa, la collegialità e la contitolarità dei docenti, i modelli della scuola diversi dal tempo Pieno.
Sempre a proposito di tempi, la distinzione fra tempo scolastico minimo obbligatorio, tempo facoltativo e tempo opzionale, non giova certamente agli alunni in difficoltà. Il progetto di presentare alle famiglie una scuola con una offerta da “supermarket” del tempo, dei contenuti, dei metodi (e, perché no, poi degli adulti e compagni che staranno con l’alunno!) in una situazione di contrattazione permanente, con le famiglie spinte in un cattivo familismo in cui “vincerà” chi ha già maggiori opportunità… culturalmente e concretamente va in direzione opposta all’integrazione delle diversità, fra cui quella dovuta a disabilità.
Avendo una parte di orario non obbligatorio, alcune attività in cui alunni in difficoltà si sentivano valorizzati (sbagliando, le si chiamano ancora extracurricolari) verranno ridotte, se non altro nella considerazione della loro importanza e per gli alunni che le frequenteranno (i bisognosi?). Anche se non è esplicitato, dovranno essere ridotti proprio taluni progetti e attività che, giovando a tutti gli alunni, potevano nascere e svilupparsi proprio a partire dall’esigenza della valorizzazione delle diversità e del potenziamento delle risorse individuali.
Analoghe preoccupazioni destano sia l’introduzione dell’insegnante tutor-prevalente, sia la compressione dei tempi degli insegnanti tutti dedicati a lezioni frontali: non si comprende che è sicuramente più facilmente supportata e sostenuta la situazione di una classe frequentata da un alunno con disabilità, se operano una pluralità di figure educative paritarie e compresenti in momenti significativi della vita scolastica.
L’introduzione del portfolio, poi, è tutt’altro che lineare. Non pochi docenti da tempo utilizzano strumenti che favoriscono la narrazione nel documentare la storia degli alunni. Ma qui si è voluto introdurre un elemento fortemente burocratico che, attraverso la cristallizzazione di situazioni difficili di partenza, rischia di portare i docenti a cozzare contro alcuni assunti della psicologia evolutiva e della pedagogia contemporanea, offuscando il percorso di crescita di ciascuno nei suoi aspetti positivi. Inoltre – come diceva un mio amico docente – quando si compone l’album delle foto di famiglia, se ne ricostruisce la storia, tutte le persone viventi della famiglia partecipano alla sua costruzione e possono, in qualunque momento, intervenire per cambiarlo. Ricordo ancora, per inciso, che in alcuni Paesi d’oltralpe, dove strumenti analoghi sono in uso, è in corso un dibattito, anche aspro, che vede non pochi fautori di una sua radicale trasformazione in senso narrativo e pedagogico.
Ancora, c’è il concreto rischio di percorsi scolastici differenziati già nell’infanzia, senza che si tengano nel dovuto conto i bisogni individuali del bambino: il cosiddetto anticipo è troppo collegato ad esigenze del mondo adulto e condizionato dalla presenza o meno di servizi completi nel territorio. Preoccupa l’anticipo dell’iscrizione alla scuola dell’infanzia (art. 2, comma 1) e alla scuola primaria (art. 7, comma 4). Gli alunni in situazione di handicap, che presumibilmente non verranno iscritti in anticipo a scuola anche per rispetto dei ritmi di crescita, rischieranno di perdere parte dei loro compagni di riferimento e di trovarsi in classi con compagni di età molto inferiore e in cui queste differenze di età, importanti soprattutto nei primi anni, potranno ostacolare di fatto l’attenzione degli insegnanti nei confronti delle diversità di cui sono espressione e su cui si dovrebbe poter lavorare con la massima solerzia.
A proposito di percorsi differenziati a livello della scuola secondaria di secondo grado, su «La Stampa» del 21/2/2003, C. Saraceno scriveva fra l’altro: «La riforma Moratti approvata in questi giorni alla Camera rafforzerà ulteriormente il meccanismo di riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze che spegne, o riduce fortemente, sia le legittime aspettative delle giovani generazioni circa il proprio futuro, sia la possibilità di valorizzare appieno le capacità di tutti.
Nonostante si dica, al secondo articolo della legge, che “sono assicurate a tutti le pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze”, la netta divisione in due settori formativi, quello dei licei e quello della formazione professionale, irrigidisce ulteriormente, rispetto alla situazione esistente, i percorsi e le opportunità dei ragazzi di classi sociali diverse al termine della scuola media».
La scelta fra istruzione nella scuola secondaria di secondo grado o istruzione e formazione professionale (art. 2, comma 1, lettera f) sarà effettuata da adulti non sempre consapevoli degli interessi reali dei ragazzi, delle loro potenzialità e aspirazioni, anche perché non sempre ci sono elementi sufficientemente predittivi.
«C’è il rischio che vengano individuati percorsi giudicati più facili, ma meno mobilitanti dal punto di vista cognitivo. Nel dovere di scegliere in modo precoce vi è il rischio di individuare nella formazione professionale il percorso più semplice, non sempre quello più formativo […] [Si potrebbe così] tornare a ingabbiare gli allievi in situazione di handicap con politiche di orientamento scolastico che li indirizzino ai percorsi di istruzione e di formazione in base alla tipologia di disabilità» (M. Faloppa, in L’integrazione scolastica e sociale, febbraio 2003).
Mi pare che sarebbe stato invece più utile rinforzare i percorsi integrati di istruzione e formazione professionale, le passerelle ecc., previsti dalla Legge 144 del 1999 (art. 68).
Ma, infine, quello che preoccupa maggiormente è la scarsità di risorse finanziarie su cui il processo della riforma può contare.

4. Per andare avanti
Dopo avere evidenziato alcuni principi dell’integrazione e talune contraddizioni del momento in cui viviamo, dobbiamo consapevolmente riprendere a ragionare e operare.
Prendo spunto ancora una volta da una frase che Sergio Neri ci ha lasciato: «Dobbiamo andare avanti noi, che ne siamo convinti».

L’integrazione non e’ un progetto solitario
La scuola è fatta da molti gruppi in comunicazione fra loro e «nel gruppo agisce la mobile complessità della vita» (G. Cavinato, 2004, non pubblicato) che prevede confini-barriere e funzioni mobili, e che ci permette di considerare la scuola come un sistema vivente che si basa su equilibri delicati, in cui ciò che conta maggiormente è la tessitura di rapporti tra i singoli e tra i gruppi.
Ci sono i gruppi di docenti (contitolari, team, consigli di classe…) e insieme costituiscono un operatore pedagogico collettivo, sociale, multiplo, esperto. Intendo il gruppo dei docenti, quindi, come sede di scelte collegiali, di messa in comune, non di settorializzazione; la sua funzione essenziale è nella gestione delle classi. Nella specifica situazione dell’integrazione scolastica di alunni con disabilità, sono previsti particolari gruppi di docenti: gruppi di caso e gruppo di scuola.
Ci sono le classi, ogni classe. Il gruppo classe favorisce la mescolanza, la contaminazione tra persone con i loro diversi modi di fare, le loro differenti intelligenze e personalità, i loro limiti; che lo fanno luogo di mediazione, di dialogo anche interculturale, di creazione di condizioni comuni di crescita, di costruzione di conoscenze e socialità. Normalmente non c’è soffocamento dell’individuo in questo ambiente.
La centralità dell’organizzazione della classe rinvia alla centralità degli alunni e delle alunne per i quali la scuola svolge un ruolo importante tanto nei processi di crescita a livello individuale quanto nei processi di partecipazione a livello di vita sociale e pubblica.
Questo ragionamento porta alla riaffermazione di quanto sia necessario «comprendere la realtà particolare di ogni singolo allievo/a e la sua storia e operare affinché egli viva positivamente la scuola nel suo complesso, desideri investire energie nell’apprendimento, si consideri un elemento significativo del gruppo, si senta ascoltato e non solo soggetto che deve ascoltare» (G. Cavinato, idem).
Ma anche la scuola non è, non deve essere lasciata, sola. Non a caso la nostra normativa, che ripeto è avanzata, prevede diversi gruppi di lavoro misti scuola-servizi sanitari e sociali-famiglia, composti da persone che hanno compiti specifici e di collaborazione, che devono firmare insieme diversi documenti e che si devono incontrare con una periodicità minima prestabilita.

L’integrazione fa bene a tutti
Vorrei ripercorrere, anche solo per titoli, altri punti di un’immaginaria agenda di lavoro, almeno per non dimenticarli se non riusciremo ad approfondirli tutti.

Educazione all’handicap
La tematica della disabilità può essere ricondotta nel più ampio quadro dell’educazione alla convivenza, alla tolleranza, alla diversità.
Nonostante il lavoro dei decenni appena passati, sembra in calo la sensibilità, la cultura e il saper fare attorno al mondo dell’handicap; si diffondono nella cultura quotidiana concetti discriminanti rispetto a chi non rientra in astratti e predefiniti parametri di “normalità”. In questo quadro la scuola resta un presidio in cui si fa ancora molto per l’integrazione, ma va sostenuta e vanno riprese ed aggiornate le elaborazioni e le prassi, così come vanno riaffermati i contenuti della legislazione vigente (considerata tra le migliori nel mondo occidentale).
Si tratta quindi di lavorare nella scuola al fine di (so di ripetermi in alcuni punti, ma spero sia vero che ripetere giova):
favorire atteggiamenti di sensibilità, di attenzione e di saper fare nei confronti delle diversità individuali, comprese quelle dovute alla presenza di compagni con una disabilità, che possono essere lette come diversa modalità di approccio alla realtà;
sollecitare ricerca e riflessione critica su come e in base a quali parametri viene definita la vivibilità di un ambiente;
sperimentare forme di aiuto reciproco che prevedano anche l’offerta di ausili, ma all’interno di una logica di scambio paritario;
utilizzare maggiormente, consapevolmente e programmaticamente la pluralità di canali comunicativi disponibili, a partire dalla valorizzazione degli aspetti affettivi ed emotivi, il linguaggio del corpo e gli aspetti motori e manipolativi, la comunicazione iconografica e della LIS (la Lingua Italiana dei Segni);
recuperare sempre le esperienze e gli apprendimenti pregressi degli alunni, per costruire insieme un percorso di apprendimento in cui i bambini siano protagonisti del progetto;
riaffermare che deve essere la classe e la scuola tutta a realizzare la “presa in carico” dei problemi legati alla diversità degli alunni, non favorendo quindi delega e settorializzazione degli interventi, con interventi educativo-didattici per la crescita personale e l’integrazione di ciascuno in coordinamento con eventuali interventi riabilitativi;
valorizzare la funzione dei genitori e degli altri adulti di riferimento degli alunni, cercando di realizzare una certa concordanza-coerenza quanto meno su alcuni macro temi educativi;
proporre nuove riflessioni e il coinvolgimento di diversi soggetti a livello interistituzionale, affinché si realizzi un sistema organico di integrazione con una rete di interventi, come previsto dalle leggi fondamentali (104/92 e 328/00).
Questo approccio è utile a tutti gli alunni, poiché quelli con disabilità frequentano classi sempre più eterogenee, dove si incontrano alunni stranieri, con disturbi e difficoltà di apprendimento e/o emotivo-comportamentali, situazioni familiari fortemente irregolari, oltre a quelli che vivono “soltanto” problemi legati alla crescita e ai compiti di sviluppo.

Parlarne in classe, dare compiti agli alunni
Nelle classi frequentate anche da alunni con una disabilità è necessario parlarne con tutti gli alunni. La risorsa rappresentata dai compagni di classe, se attivata, può anche portare a migliorare questi ultimi, con una seria possibilità di apprendimento cooperativo. Tra compagni di classe possono migliorare le relazioni inclusive, si possono attivare relazioni di solidarietà e di amicizia, esplorare nuove regole di aiuto, la percezione del compagno con disabilità come di una persona “come gli altri” ed una prospettiva di apertura verso gli altri e le loro diversità – maggiore e vera tolleranza quindi – , ma anche diverse considerazioni sul tempo e l’opportunità di stare insieme anche senza gli adulti, veri e propri processi di Peer Education e di Tutoring, maturazione personale e nell’apprendimento a livello cognitivo e metacognitivo e incremento dell’autostima nel riuscire a insegnare-spiegare-aiutare un/una compagno/a, infine i compagni di un/a alunno/a con disabilità possono apprendere dei saper fare socialmente utili e spendibili nella vita quotidiana.

Migliorare la professionalità degli insegnanti
Superare l’isolamento dell’insegnante specializzato per il sostegno, proponendo una professionalità “speciale” diffusa. Certo, per realizzare ciò servono momenti di contemporaneità fra insegnanti della stessa classe, possibilità di realizzare percorsi verticali, piccoli gruppi, attività e metodologia laboratoriali ecc.

Lavorare sul clima della classe
Che un buon clima nella classe favorisca un buon apprendimento è una verità riconosciuta da chiunque. È necessario preoccuparsi e occuparsi della creazione di un’atmosfera attenta all’ascolto, collaborativa e gioiosa, in cui siano costruibili interazioni sociali significative, e sia possibile esprimersi anche con linguaggi non verbali. Va riconsiderato il fatto che l’organizzazione organizza i comportamenti: servono quindi spazi idonei ad attività e bisogni speciali in quella che, come vedremo, è una speciale normalità.

L’organizzazione per l’apprendimento
«Le conoscenze e le competenze si sviluppano inizialmente dagli scambi, dalle relazioni, dai legami che si costruiscono con il contesto che ci circonda e il successo dei ragazzi è spesso legato alla capacità di vedersi come soggetto attivo all’interno di un processo» (Gartner e Kerzner Lipsky, 1990).
Per favorire il processo di interiorizzazione della conoscenza serve un’organizzazione che preveda:
– la costante presenza del docente quale guida rassicurante;
– il lavoro per gruppi eterogenei per tipologia, composizione, ruoli e compiti;
– momenti più o meno strutturati di riflessione sul percorso e di autovalutazione dei processi in atto.
Mettere in luce soprattutto le strategie operative, proponendo un’organizzazione di classi, laboratori e gruppi diversi, in cui l’apprendimento si intreccia con forme di comunicazione non verbali, affettive ed emotive, e con l’educazione alla convivenza civile.
La presenza di un alunno con disabilità, allora, diventa una risorsa in quanto stimola/richiede di mettere in moto utili e interessanti accorgimenti e attenzioni metodologiche e materiali didatticamente e pedagogicamente validi per tutti gli alunni.

SUPERARE LE BARRIERE: senso di appartenenza, laboratori
Sostenere tutti gli alunni senza distinzioni è dunque la vera frontiera dell’integrazione: far sì che ciascun alunno senta di appartenere, di essere accettato, di ricevere ma anche di dare dai ed ai compagni ed alla scuola.
Per l’integrazione e co-evoluzione delle differenze, in una costruzione sociale della conoscenza, ogni alunno deve potersi sentire presente e partecipe nella relazione (non solo essere accettato, ma accolto, avere dei ruoli reali, fare amicizie, poter collaborare/contribuire…) e nell’apprendimento (partecipare ai compiti [come dicevo prima], provare a risolvere problemi, sviluppare capacità e competenze, soprattutto di comunicazione e linguaggio, imparare cose nuove e a pensare…), per sviluppare, a partire dalle proprie potenzialità, il saper essere (sviluppare autostima ed autoefficacia, potenziare l’identità, esprimere emozioni…) e il saper fare (superare barriere fisiche e psicologiche, realizzare idee e progetti, saper chiedere gli aiuti necessari…).
A questo punto non resta che proporre il laboratorio, come metodo prima che come attività di…
«La metodologia di laboratorio [che] risponde a bisogni formativi di comunicazione, espressione, coinvolgimento della personalità tutta intera, di pianificazione dell’esperienza, di controllo sulla realtà, di trasferibilità, di smontaggio e rimontaggio di processi. I laboratori non vanno concepiti e organizzati in forma riduzionistica, come didattica “semplificata” per i “quasi-adatti”, ma come modalità costitutiva di una didattica orientata al successo formativo [di tutti]. La differenziazione che la scuola propone sarà non nei percorsi ma nel fare ricorso a potenzialità, stili, modi di elaborazione, modelli proposti diversificati. […] Il laboratorio […] non deve essere relegato nell’area dell’opzionalità» (G. Cavinato, già citato).
Schematicamente, i principali ingredienti del laboratorio, così come sopra inteso, sono:
– partire dalla considerazione di bisogni e differenze;
– pensare ed organizzarsi per favorire la collaborazione fra compagni e fra/con gli adulti;
–  proporre percorsi aperti all’autonomia e proiettati anche verso l’età adulta;
– rispettare tempi, approcci, capacità e competenze, e dinamiche comunicativo-relazionali diversi.
È necessario, inoltre, che tutti gli allievi possano partecipare alle fasi organizzative (quando previsto), abbiano un ruolo definito nei compiti e negli obiettivi, abbiano a disposizione un ambiente ampio, ricco e privo di barriere architettoniche e culturali, possano interagire con compagni che si rivelano spesso i migliori insegnanti.

L’indispensabile speciale normalità
Se quanto detto fino ad ora è corretto, voglio ribadire con una mia cara collega che «quando ci chiediamo: “Perché proprio tutti i bambini, anche quelli con handicap grave, devono frequentare le classi normali?”, ci poniamo una domanda fondamentalmente sbagliata, in quanto ci dovremmo, invece, interrogare su: “Che cosa bisogna fare perché questo bambino possa frequentare bene la stessa classe dei suoi coetanei?”. […] “Quali sono gli aiuti di cui ha bisogno per svilupparsi, per crescere, per vivere?”. […] il punto centrale non è più come integrare una particolare categoria di alunni, ma è come far crescere delle comunità scolastiche che rispondano al bisogno di “speciale normalità” di ciascun alunno, dove la normalità è intesa come bisogno di essere come gli altri e la specialità il bisogno di essere riconosciuti come soggetti con proprie peculiarità, difficoltà» (A. Fossati, Oltre le barriere. Percorsi di integrazione, Vercelli, C.S.A., 2004).
Ianes così spiega: «La Speciale Normalità è una condizione di sintesi […] e si potrebbe definire come “Le aspettative, gli obiettivi, le prassi (gli ‘appuntamenti’, avrebbe detto Sergio Neri) per tutti gli alunni, nessuno escluso, nelle ordinarie e normali attività, che però si arricchiscono di una specialità non comune, fondata su basi scientifiche e richiesta dalla complessità dei bisogni speciali”. [Se] esaminiamo allora il concetto di “bisogno educativo speciale” o Special Need: quella condizione varia e multiforme di difficoltà nell’apprendimento e nello sviluppo che è condivisa da diverse situazioni:
– disabilità intellettiva/ritardo mentale
– disabilità motorie/sensoriali
– disturbi dell’apprendimento
– disturbi generalizzati dello sviluppo
– disturbi emozionali e comportamentali
– differenze sociali e culturali
– malattie fisiche
– e altre condizioni di difficoltà.
In tutte queste situazioni di bisogno educativo speciale coesistono normalità e specialità: la normalità del bisogno di educazione e formazione, che è uguale a quello di tutti gli altri alunni che non ricevono questa diagnosi, perché è il bisogno che tutti hanno di uno sviluppo e di una funzionalità il più possibile normale e il più possibile rispondente alle normali richieste dei normali luoghi di vita.
In questa essenziale normalità troviamo però la specialità, la differenza e la peculiarità, anche estrema, di alcune caratteristiche:
– della persona, nelle sue condizioni di salute, nelle sue funzioni e struttura del corpo, nelle sue capacità personali;
– della sua partecipazione sociale;
– dei fattori contestuali (personali e sociali) che la mediano, facilitandola o ostacolandola.
Nelle situazioni più speciali troviamo dunque molta normalità, o meglio prima di tutto incontriamo la normalità, ed è questo senso di forza della normalità che ha fatto cancellare le scuole speciali e tutte le altre situazioni segreganti, che rinchiudevano proprio in nome della presunta specialità delle cure che sosteneva di fornire» (D. Ianes, Materiali del 3° Convegno La Qualità dell’integrazione nella scuola e nella società, Spini di Gardolo, Trento, Erickson, 2001).

L’insegnante di sostegno
Dette tutte le cose di cui sopra, onestà intellettuale mi impone di ragionare sul qui ed ora dell’organizzazione scolastica per l’integrazione degli alunni con disabilità.
Nel servizio scolastico rispetto all’integrazione sono prevalse risposte centrate sui rapporti numerici: degli alunni nelle classi, degli alunni in situazione di handicap in ogni singola classe, del personale docente per il sostegno.
Specifici e consistenti finanziamenti, aperture a nuove tecnologie, diversa e continuativa formazione di tutte le figure del sistema, flessibilità organizzativa, reale politica inter e intra istituzionale ecc., sono comparse sempre in secondo piano, spesso relegate ad enunciazioni di principio e al “dover essere” e/o all’interno di sperimentazioni che faticano a diventare pratiche “a regime”.
Nonostante ciò che la Legge 517/77 prevede come «forme di sostegno», è avvenuta una identificazione di fatto fra queste e l’insegnante di sostegno.
Infatti sono garantite (ricordo la Premessa sui diritti, in prima pagina):
– la riduzione di alunni nelle classi in cui viene accolto l’alunno disabile;
– la nomina di un insegnante per le attività per il sostegno, con modalità ed orari differenziati.
Nella situazione attuale la tipologia degli insegnanti di sostegno è ibrida: essi dovrebbero essere docenti in possesso di titolo di specializzazione; possono però essere in possesso di altri titoli solo genericamente riferibili alle necessità dell’integrazione o anche non forniti di alcuno specifico titolo.
È difficile, in questa situazione, immaginare un sistema coerente di prestazioni qualificate.
Ciononostante l’insegnante di sostegno viene presentato, e conseguentemente vissuto, come la conditio sine qua non, il prerequisito per l’offerta di servizio scolastico orientato all’integrazione.
Di fatto a questo personale vengono richieste capacità e competenze plurime:
– di rispondere ad esigenze educative che possono essere anche diversissime fra loro;
– di filtrare, rispetto al gruppo e all’istituzione, gli atteggiamenti dell’alunno in situazione di handicap, in modo da permettere una più facile accettazione della maggiore e diversa complessità di quest’ultimo;
– di progettare, coprogettare e svolgere attività che permettono all’alunno disabile il massimo livello di apprendimento e socializzazione;
– di possedere conoscenze specifiche relative alle tipologie di handicap e ad interventi educativi
adeguati;
– di saper collaborare con colleghi diversi;
– di essere in grado di positiva relazione con la /le famiglie;
– di riuscire ad instaurare proficui rapporti collaborativi con gli esperti ed operatori dei servizi;
– di essere punto significativo di mediazione fra scuola ed extrascuola.
Io penso che in questo modo l’istituzione scuola cerca-trova qualcuno su cui scaricare una responsabilità educativa che teme altrimenti di non saper gestire.
Mi si permetta una riflessione di genere diverso rispetto a questa trattazione. Credo si debba ancora riflettere sul fatto che l’insegnante di sostegno in molti casi sembra rappresentare «il contenitore della parte-altra (vissuta come “cattiva”) dell’allievo portatore di handicap, perché la parte propria-buona dello stesso possa integrarsi nel gruppo di appartenenza. La funzione socio-affettiva dell’insegnante di sostegno appare, in prima istanza, quella di garantire il gruppo sociale circa la non pericolosità dell’handicappato attraverso un contenimento ed una elaborazione in proprio delle sue componenti aggressive (imprevedibili in quanto sconosciute e non controllabili). Si tratta di una funzione simbolica, più che di una professionalmente orientata. Tale funzione simbolica, peraltro, può contribuire a mantenere attiva la scissione nei confronti dell’handicappato, sia da parte del gruppo scolastico sia da parte dell’insegnante curricolare» (R. Carli, in «Scuola Viva», n. 7/1983, p. 6).
Pensiero vecchio di vent’anni, datato (più nel linguaggio che nella sostanza), che può suscitare perplessità soprattutto perché non viene letto-detto alle persone giuste ma da-a quelle che operano proprio per un chiarimento e il superamento di una simile impostazione, che sembra scontrarsi con le diverse dichiarazioni contenute anche nella normativa sulla corresponsabilità della scuola tutta, intesa come comunità educante, ma che a me appare ancora una possibile chiave di lettura, purtroppo!
Ma torniamo alla prassi sugli insegnanti di sostegno. Essi vengono assegnati alle scuole in base ad un criterio meramente quantitativo, ad una procedura contabile: dato un certo numero di classi, e segnalata la presenza di un certo numero di alunni disabili nella scuola (certo, verificata e valutata la documentazione prevista!), vengono assegnati alla stessa insegnanti di sostegno in un rapporto numerico che nella storia è variato più di una volta (da 1/6 ad 1/4 alunni disabili, a 1/138 alunni complessivamente conteggiati) e prevede possibilità di deroghe sulla base della documentata gravità della situazione dell’alunno disabile.
Mi sono sempre chiesto perché non ci si possa basare maggiormente sulla complessità e bontà del processo educativo previsto e/o sulle problematiche che complessivamente presenta una classe o una scuola, le sue esperienze pregresse e le risorse che riesce a mettere in campo e a mobilitare. Eppure la normativa ha chiarito che l’insegnante è nominato sulla e per la classe nella quale avviene l’integrazione dell’allievo disabile, per favorire questo processo.
Esistono, per fortuna, esperienze in cui per l’integrazione di tutti gli alunni e per la costituzione della classe come gruppo (perché la classe di per sé non è un gruppo… è un insieme di persone!) si attua (si cerca di attuare) una riorganizzazione complessiva dell’organizzazione didattica ed educativa, secondo modelli innovativi di programmazione integrata. Si sfruttano tutte le competenze del gruppo dei docenti che cerca di funzionare come équipe scolastica “a specializzazione diffusa e partecipata” in collegamento con le équipe dei servizi del territorio e con le famiglie. Così si realizza la prevista piena contitolarità degli insegnanti impegnati in una classe e si può rilanciare il ruolo di coordinamento che l’insegnante di sostegno può assumere (ma non obbligatoriamente lei/lui, perché l’importante è che il coordinamento ci sia e sia riconosciuto-riconoscibile!).

La famiglia
Secondo molti studi ed esperienze, il livello del coinvolgimento emotivo che la presenza di un bambino o una bambina con disabilità crea in una famiglia è profondo e complesso. Mi riferisco in particolare agli studi che considerano la famiglia come un sistema che si basa sulle reciproche relazioni esistenti fra i suoi membri. Una legge che regola tali relazioni è quella della omeostasi: la tendenza cioè di un sistema a mantenere se stesso in condizioni di equilibrio; questa tendenza si realizza nell’opposizione alle forze che tentano di produrre cambiamenti o variazioni sostanziali. L’eccessiva omeostasi porta al blocco del sistema. Spesso le famiglie di bambini disabili si presentano come sistema chiuso al mondo esterno, al punto da rischiare di divenire un sistema bloccato. Ogni storia è unica, ma alcuni meccanismi sono simili e si manifestano con frequenza in famiglie anche molto diverse fra loro:
– Questi bambini occupano un posto particolare nella vita fantasmatica delle altre persone ed in particolare nei familiari; si può parlare di deformazioni di percezione che contribuiscono a fissare i bambini con una disabilità in una situazione spesso difficilmente modificabile.
– Le famiglie che hanno bambini con disabilità chiedono di essere considerate dagli altri con simpatia, di essere accettate, ma contemporaneamente tendono a chiudersi al mondo esterno.
– Gli stessi studi e osservazioni rilevano come sia soprattutto la madre ad incontrare difficoltà ad immaginare un progetto per il figlio con disabilità: questo produce un senso di frustrazione che sovente è destinato ad aumentare, specie nei casi più gravi, anche con la verifica quotidiana di piccole cose “normali” che per il proprio figlio rappresentano ostacoli, e qui l’importanza di aiuti mirati anche al benessere della figura più importante per il/la figlio/a, attraverso anche momenti di accoglienza ed ascolto della sua sofferenza, assieme a quelli per il superamento degli ostacoli. La crescita del/la figlio/a poi spesso coincide anche con la diminuzione delle offerte dei servizi.
– Spesso i fratelli sono condizionati nell’uso sociale della casa.
– Il padre sovente è meno condizionato, si trova un ruolo di gestore dei rapporti con l’esterno.

Sempre restando sulle generali, si possono notare altre caratteristiche comuni al sistema di relazioni delle famiglie in cui vive un/a bambino/a con disabilità:
– lui/lei è al centro della comunicazione familiare;
– viene tendenzialmente trattato/a come un/a bambino/a piccolo/a e tende ad adeguarsi;
– lo stile di comunicazione può essere distorto ma protettivo;
– la sua presenza viene assunta come regolatore dell’omeostasi familiare (offre copertura nei confronti dei conflitti esterni, spesso mantiene unita la famiglia oppure funge da capro espiatorio);
– talvolta è proprio il/la figlio/a che cerca di ribellarsi all’omeostasi, di spezzare l’equilibrio che gli/le impedisce di crescere;
– spesso prevale un’ambivalenza negli atteggiamenti dei genitori che si manifesta anche nei confronti delle istituzioni e dei servizi, attraverso un’alternanza di eccessive speranze e cocentissime delusioni, di rivendicazioni e rifiuto d’aiuto, di tendenza alla delega e senso di onnipotenza;
– si avverte spesso la loro esigenza di essere sollevati da almeno una parte di angoscia: anche per questo è devastante la logica dell’emarginazione.

Allora è davvero importante che la scuola – ma vale per ogni servizio – si organizzi e si umanizzi nell’offerta del servizio scolastico agli alunni con disabilità anche rispetto alla sua famiglia.
Se «La famiglia, la scuola e il territorio sono i 3 sistemi nell’ambito dei quali si realizza l’integrazione e il successo formativo dell’alunno disabile. Questi sistemi [… ]sono chiamati ad interagire tra loro, in base alla logica relazionale sistemica […]. Molte esperienze di integrazione testimoniano che un buon dialogo scuola-famiglia è il presupposto da cui partire, in tutti gli ordini di scuola, per un approccio positivo all’alunno disabile sia per quanto rientra nelle attività specifiche di apprendimento, sia all’inserimento in contesti di lavoro o in ambito universitario. Molte sono le indicazioni che possono provenire dai genitori degli alunni disabili che concorrono ad orientare le competenze didattiche della scuola. In particolare la narrazione degli itinerari di crescita dei propri figli è espressione delle competenze educative dei genitori; in tale ottica gli stessi genitori divengono gli esperti a cui fare domande per programmare l’intervento educativo […]» (Circ. Uff. Scol. Regione Campania, 7/2/2004).
Questo paragrafo, che ho voluto riportare per intero, ci ricorda che, essendo fondamentale per l’integrazione che si realizzi una collaborazione “vera” con le famiglie, si debba operare per la valorizzazione delle loro competenze anche oltre le prospettive psico-medico-assistenziali (come cerca di fare la “Pedagogia dei genitori” che la rivista «Handicap & Scuola» promuove).

La pedagogia dei genitori
Parlando di famiglia, non si deve dimenticare che le indicazioni derivate dalla pratica educativa dei genitori hanno un’alta dignità, questo in particolare quando gruppi di famiglie si uniscono per un mutuo aiuto. «Gli esperti devono rendersi conto che occorre collaborare e anche imparare dalle famiglie» (A. Moletto, in La pedagogia dei genitori – Moletto e R. Zucchi – Elena Morea Editore, 2001, p. 12).
Responsabilità, speranza, identità e fiducia spesso sono più vivi in famiglie dove soprattutto i genitori possono aver acquisito capacità ed escogitato strategie di intervento ormai “validate” dalla tenuta sul lungo periodo e dalla prospettiva del progetto di vita del figlio o della figlia e di loro con lui o lei.
Inoltre, il racconto di abitudini, di traguardi raggiunti e dei processi attivati, di incompatibilità o avversità manifestate… insomma, del figlio o della figlia vista con gli occhi dei genitori e della loro azione educativa, spesso è un elemento importantissimo di conoscenza non solo di quel/la bambino/a, ma per una migliore comprensione delle necessità dell’integrazione delle persone con disabilità. In questo senso è importante acquisire nella documentazione che riguarda l’alunno con disabilità anche la narrazione dei genitori.
La narrazione è il principale strumento usato nella “Pedagogia dei genitori”; più che semplice testimonianza individuale essa si presenta come «forma di intervento espositivo che permette ai genitori di comunicare la loro esperienza nel modo più esatto e circostanziato possibile» (A.M. Sbriglio, introduzione a La pedagogia dei genitori citato).

Alcune indicazioni sul rapporto scuola famiglia
Preparare l’inserimento: incontrare la famiglia
Se continuiamo a considerare l’inserimento solo il punto di partenza del processo di integrazione scolastica, si tratta di preparare anche questo momento affinché possa fruttare nel senso che vogliamo.
Di solito consideriamo, per questa fase, una serie di iniziative all’interno della scuola: la scelta dell’aula, degli arredi, dei sussidi e degli ausili necessari, lo studio della documentazione, incontri con i colleghi…, ma spesso dimentichiamo che gli alunni che frequenteranno la classe con cui lavoreremo provengono da un ambiente familiare, che anche l’alunno con disabilità ha vissuto e imparato in relazione ad altre persone e che fra questi altri i suoi familiari hanno un’importanza formidabile, rispetto alle aspettative nei confronti della scuola e nostri e hanno sicuramente notizie per noi utilissime rispetto al/la bambino/a che sta per arrivare, oltre che al modo per loro migliore di interagire con lui/lei.
Allora si potrà programmare un incontro a casa, soprattutto nel caso in cui ci si trovi nella fase di avvio della scolarizzazione: per conoscere meglio, osservare ed osservarsi nella prima relazione, per cogliere elementi per il dialogo e per avviare un dialogo, dobbiamo prestare attenzione alle problematiche sottese agli atteggiamenti che i nostri interlocutori e noi stessi assumiamo; molte cose si possono conoscere meglio facendosi un’idea del contesto e della situazione abitativa in cui il nostro futuro alunno vive. Certo, noi insegnanti avremo incontri con i genitori, magari con uno solo di essi alla volta, studieremo il modo perché siano efficaci, ma l’incontro in famiglia è altra cosa.

No alla famiglia giudicata
Un atteggiamento diffuso è quello di essere estremamente critici nei confronti delle famiglie di cui ci stiamo occupando oggi. Questo dipende in parte dai vissuti che i genitori di figli con disabilità ci trasmettono, ma anche da una mai del tutto sconfitta tendenza alla colpevolizzazione (delle vittime).
L’atteggiamento giudicante nei confronti dei genitori rinforza i loro eventuali sensi di colpa e di inadeguatezza cui ho accennato prima.

No a genitori terapisti
Non si deve ricorrere con leggerezza all’intervento dei genitori, «poiché può capitare di chiedere di lavorare sul proprio figlio ad un genitore che non è psicologicamente disponibile, ma che non può rifiutarsi senza dover fare i conti con i propri sensi di colpa e con la vergogna nell’ammettere la
propria indisponibilità» (G. Polletta, Educazione e abilitazione del bambino a rischio di handicap, NIS). Né va sottovalutato il fatto che «moltissime attività quotidiane hanno in sé un grandissimo potenziale terapeutico, ma questo viene esaltato proprio dal fatto di essere ignorato, dal fatto cioè di svolgere quelle attività per gli scopi comuni a tutti i figli […]. Il compito dei genitori di un figlio danneggiato è quello di fare i genitori» (idem).

Sì alla famiglia ascoltata
Prima di essere “aiutati”, i genitori di persone con disabilità devono essere ascoltati. Inoltre, è possibile che i rapporti di solidarietà che circondano la famiglia siano labili o si siano affievoliti e che la coppia genitoriale si trovi in un logorante isolamento.

Genitori informati (andata e ritorno)
Se sono molti i genitori che hanno bisogno di, e chiedono informazioni utili insieme a (o forse prima e più del) sostegno psicologico, la scuola può facilmente attrezzarsi per offrire loro utili informazioni per affrontare i problemi quotidiani.
Vorrei però sottolineare come, concordando con Cottoni (Il profilo dinamico funzionale), essendo la nostra professionalità articolata nei quattro momenti di conoscenza – programmazione – attività – verifica dei risultati, quando parlo di genitori informati, mi riferisco a quante informazioni sullo sviluppo e le capacità relazionali del figlio i genitori sono – sarebbero – in grado di fornirci e di quanto queste sono – sarebbero – utili al nostro lavoro per l’integrazione scolastica dell’alunno con disabilità, loro figlio.
Si tratta allora di prendere sul serio la pedagogia “quotidiana” con le osservazioni “empiriche” e le valutazioni che i genitori fanno sul loro figlio, di sapergliele chiedere, di sapersi disporre e saper disporre degli strumenti per uno scambio di informazioni…
D’altra parte la normativa richiama sempre l’obbligo della partecipazione della famiglia a tutti i momenti significativi dell’integrazione, noi quindi non possiamo accontentarci del fatto che essa “prenda atto” con delle firme.

Colloqui con i genitori e loro partecipazione alla vita scolastica
In un gruppo di aggiornamento svoltosi nell’area territoriale in cui lavoravo, abbiamo sviluppato alcune riflessioni su un momento fondamentale del rapporto tra la scuola e le famiglie, quello cioè del colloquio con i genitori. Quelle riflessioni, fatte pensando ad un alunno qualunque, credo ci possano essere utili.
Nel colloquio con gli insegnanti – uno dei momenti fondamentali della relazione scuola/famiglia – si manifestano alcune parole chiave:

RISORSE: intendiamo riferirci sia alle famiglie come risorse per un miglior funzionamento della scuola (previo opportuno coinvolgimento), sia a quelle che se favorite nell’attivazione potrebbero rappresentare un aiuto per altre famiglie o per singoli bambini/ragazzi, sia all’insieme delle risorse esistenti all’interno di ogni singola famiglia rispetto al proprio figlio-alunno.

DESIDERIO DI CONOSCENZA
– dell’insegnante
nei confronti dell’alunno, della sua famiglia (anche rispetto ai risultati da quest’ultima desiderati) e delle sue risorse interne;
– della famiglia sul figlio-alunno, sull’insegnante (come la penserà? Che penserà di noi? E di nostro figlio?…), sulla scuola nel suo complesso e sul suo funzionamento.

Da ciò la necessità di un atteggiamento non giudicante dell’insegnante nei confronti della famiglia, per richiedere ad essa lo stesso tipo di atteggiamento.

CONFRONTO
– sugli obiettivi, i contenuti, le metodologie;
– sui livelli di apprendimento e di comportamento desiderati e su quelli raggiunti;
– su atteggiamenti e sentimenti;
– talora sulle proprie opinioni.

Il nostro obiettivo è:
la CRESCITA del livello delle comunicazioni, della fiducia e collaborazione reciproche, complessivamente del rapporto educativo
e della:
CRESCITA PERSONALE DELL’ALUNNO

L’importanza del colloquio rende necessaria la sua preparazione e l’accordo fra i diversi docenti, almeno quelli della stessa classe, sia sulle modalità del suo svolgimento sia sulla cura degli spazi, dei tempi e delle esigenze di riservatezza.
 
La partecipazione dei genitori alla vita scolastica
Essa trova le sue basi in una loro accoglienza non formale ed episodica. La scuola deve cercare di creare condizioni per offrire anche ai genitori un minimo di benessere al proprio interno.
Ulteriori elementi di riflessione su utili accorgimenti per l’accoglienza sono i seguenti:
far trovare ai genitori all’interno della scuola qualcosa che possa essere, o diventare presto, loro “familiare” (persone già incontrate, prodotti dei propri figli, segni dell’organizzazione della vita scolastica, qualcosa che ricordi la loro esperienza scolastica);
offrire un ambiente il più gradevole e rassicurante possibile sempre;
– favorire la conoscenza e la comprensione della collocazione del figlio nell’ambito scolastico;
avere oculatezza nella scelta dei tempi in considerazione dei genitori che lavorano;
sapere che più che di quantità di tempo si tratta di un problema qualitativo: di continuità e clima;
– se l’atteggiamento prevalente del genitore è di ricercare informazioni sul proprio figlio, considerare che è solo un punto di partenza;
– un maggiore coinvolgimento dei genitori è possibile a partire da un’attività concreta (alcune significative esperienze lo dimostrano);
vanno considerate le condizioni di lavoro degli insegnanti, spesso costretti a vivere una situazione lavorativa eccessivamente stressante.

Le collaborazioni nel territorio
Ecologia dello sviluppo umano
Della relazione individuo-ambiente si è occupato specificatamente Bronfenbrenner il quale ha coniato la definizione di «ecologia dello sviluppo umano».
L’ecologia dello sviluppo umano si interessa dell’adattamento tra l’uomo e il suo ambiente.
L’autore, in breve, sostiene l’importanza dell’ambiente – anzi degli ambienti – per come l’individuo lo percepisce, più che per come esso oggettivamente è; inoltre analizza gli ambienti in quanto sistemi.
L’individuo partecipa, a diversi livelli, a:
      a) microsistema, costituito dalle interrelazioni all’interno del contesto prossimale;
      b) mesosistema, interrelazioni tra due o più situazioni alle quali egli partecipa direttamente (per noi, famiglia – scuola – gruppi di coetanei – servizi sanitari e/o sociali);
      c) esosistema, dato dalle relazioni tra situazioni in cui non è presente, ma che incidono sul suo sviluppo (per noi, lavoro dei genitori, gruppi di docenti, gruppi docenti-curanti);
      d) macrosistema, in generale la cosiddetta società civile con le sue istituzioni sociali.

Bronfenbrenner sostiene la positiva correlazione tra lo sviluppo dell’individuo e la varietà ed articolazione del sistema delle sue interrelazioni, così come della reciproca comunicazione fra diverse situazioni ambientali.

La scuola nella rete
Ci sono una serie di motivazioni prettamente scolastiche per cui l’insegnante deve occuparsi del territorio. Ne evidenzio alcune:
– Il successo scolastico è in stretta relazione con la possibilità di vivere positive situazioni di tipo affettivo, sociale, intellettivo, le quali incrementano il sentimento di appartenenza e di autostima, e queste situazioni non si realizzano solo in ambito scolastico;
– la scuola, infatti, non è l’unico, il vero, ambiente educativo;
– l’integrazione è un processo complesso di cui quella scolastica fa parte, o non è;
– di fatto più persone, professionalità diverse, differenti agenzie operano con obiettivi educazionali sui nostri allievi;
– comunque sono molteplici e continui i rapporti e condizionamenti reciproci fra istituzione scolastica e territorio;
– se una vera professionalità docente si articola nei quattro momenti di conoscenza, programmazione, attività, verifica dei risultati, occuparci del territorio nel quale opera la scuola, significa aumentare il nostro indispensabile livello di conoscenza, per una migliore programmazione ecc.;
– i problemi che riguardano una persona con disabilità devono essere affrontati dove si generano e si manifestano: in questo modo si interviene anche sui meccanismi di definizione sociale dell’handicap;
– infine, la conoscenza degli alunni è completa solo se è frutto di collaborazione interistituzionale, se nasce dall’intreccio di osservazioni, se, al di là delle formule burocratiche, si è formata una équipe davvero medico-socio-psico-pedagogica.

Lo strumento che si rivela maggiormente utile è quello conosciuto come intervento di rete.
E’ necessario, credo, non confondere piani diversi:
– la rete intesa come insieme di persone che si conoscono, sono unite e condividono una cultura
comune;
– la rete tra servizi riorganizzati;
– il concetto di rete come un elemento del metodo di osservazione della realtà sociale.

La non confusione dei piani sopra indicati permette di ipotizzare e di attuare un lavoro a diversi livelli e con diversi obiettivi, tenendo sempre presente che «il lavoro di rete non può essere ridotto ad un insieme, pur necessario, di tecniche e di strumenti con cui analizzare i problemi e con cui elaborare strategie di azione» («Animazione Sociale», n. 6/7, 1993), né il solo intensificarsi di contatti fra servizi.
L’individuo e l’ambiente sono da considerarsi contemporaneamente, ponendo l’accento sulle interazioni, quando si pensa all’alunno e alla sua famiglia utenti di servizi (e fra essi la scuola), ma anche quando si pensa agli operatori dei diversi servizi (e fra essi la scuola).
Si tratta di concretizzare il discorso fin qui fatto cercando di conoscere e di utilizzare:
– noi come rete di risorse;
– le diverse risorse del territorio (cosa fanno, cosa offrono a livello di interventi e di collaborazione,
come sono collegate, come ci si arriva ecc.);
– i servizi in particolare.
L’approccio di rete allora diviene una possibilità alternativa di accostarsi sia ai compiti professionali sia all’idea di territorio. Perché il docente, per essere anche operatore sociale, è un agente continuamente immerso in flussi comunicativi interpersonali (reti), catalizzatore di interscambi e stimolatore di risorse nuove, proprio in quanto agisce in una prospettiva di promozione educativa e sociale.

Le prospettive di rete legate ai servizi concernono diversi campi:
– connessione di servizi del medesimo settore;
– connessione di più settori (educativo, sociale, sanitario ecc.) sulla stessa area territoriale;
– connessione tra professioni e/o tra professionalità all’interno di una professione.
Come la rete della porta nel gioco del calcio è lì ed entra in tensione quando una palla la colpisce, la rete fra persone e servizi nel territorio dovrebbe essere costituita e far parte della strumentazione del “normale gioco”, per attivarsi , “tendersi”, anche e soprattutto al momento opportuno.
Qui si colloca un ulteriore problema: nell’incontro con gli operatori degli altri servizi – nel nostro caso soprattutto quelli sanitari – il personale della scuola si misura con i linguaggi, i principi metodologici e le finalità proprie di altre professionalità e deve saperli comprendere e pretendere altrettanto.
Su queste basi è possibile costruire una dimensione culturale unitaria capace di sviluppi sul piano multidisciplinare e quindi utilissima per il processo di integrazione che ci vede coinvolti.

Nonostante quanto fin qui detto, anche se per sommi capi, sia più che noto;
nonostante sembri superato il concetto di diritto allo studio con quello più vasto di diritto alla formazione e il concetto di diritto alla salute con quello di diritto al benessere;
nonostante si affermi che i diversi servizi si trovano ad avere oggettivamente un’unica finalità rispetto al soggetto cui si riferiscono formazione e benessere, e che è da questa finalità unica che nasce l’esigenza di collaborazione, raccordo e coprogettazione, non dalla semplice richiesta di aiuto di un servizio verso l’altro;
nonostante si riconosca come sia la complessità delle situazioni, non solo delle disabilità, ad esigere l’apporto di competenze diverse tra loro connesse per garantire una risposta che di tale complessità tenga conto;
Ebbene, nonostante tutto ciò, l’episodicità e la disorganicità del collegamento fra le varie istituzioni e gli enti tenuti ad intervenire a favore dell’integrazione delle persone disabili, e fra questi e le loro famiglie, è uno dei problemi più grandi che si trova ancora ad affrontare chiunque si occupi di integrazione.
D’altra parte la normativa per l’integrazione degli alunni con disabilità obbliga ad impostare un lavoro sul modello che ho proposto, a cominciare dal fatto di prevedere un’interistituzionalità diffusa nei diversi momenti ufficiali.
Inoltre, si sta superando, grazie al dibattito provocato dalla Legge quadro sull’assistenza 328/00, la frammentazione che, per esempio con il Decreto Legislativo 112/98 (art. 139), attribuiva alle Province i «servizi di supporto organizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in situazione di svantaggio» per le scuole superiori e ai Comuni quelle per le scuole dei gradi inferiori.
Si va chiarendo infatti che la Provincia supporta i Comuni rispetto ai servizi che direttamente erogano e per i quali le Regioni devono garantire i necessari finanziamenti. Poiché la stessa legge all’articolo 14 attribuisce ai Comuni la competenza per «Progetti individuali per le persone disabili» con la piena integrazione «nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale […] e universitaria». Si deve inoltre tenere presente anche la Legge Costituzionale n. 3/01 per il decentramento di compiti e funzioni degli Enti territoriali.
Abbiamo alcune esperienze in cui l’Ente Locale, attraverso un vero e proprio Patto per la Scuola e sviluppando una metodologia concertata, svolge i propri compiti istituzionali in materia di diritto allo studio, favorendo lo sviluppo del sistema formativo ed educativo integrato: in una dimensione pedagogica che contribuisce a che le funzioni educativa, inclusiva e perequativa vengano assolte insieme dai diversi attori istituzionali e non.
Il compito di «valorizzare e consolidare il lavoro di rete svolto dalle scuole e dai servizi di territorio per dimostrare che l’integrazione scolastica degli allievi in situazione di handicap, anche di quelli che presentano problematiche gravi, è possibile ed efficace» (M. Faloppa, in «Handicap & Scuola», n. 113), è anche del Servizio Sanitario Nazionale, istituito dalla Legge 833/78 – che individua nell’articolo 1 «la persona umana» tout court quale beneficiario dei servizi – che nel corso degli anni ha subito diverse trasformazioni, fino a quando con il Decreto Legislativo 229/99 si è consolidata l’articola.zione organizzativa in ambito territoriale delle ASL attraverso i Distretti Territoriali.
Le modalità delle collaborazioni e del lavoro di rete sono indicate nella normativa che realizza la possibilità di un momento di incontro proficuo fra tutti gli “attori” che intervengono sul territorio proprio con la Legge 328/00. Perché è del tutto evidente che si tratta di «integrare l’integrazione, sulla base dell’integrazione territoriale di tutti i servizi alla persona» (R. Iosa, in «Handicap & Scuola», n. 110/2003).
La Legge 328/00 parla finalmente in modo esplicito di «progetto di vita» di ogni persona e di integrazione dei servizi nei Piani di Zona, prevedendo proprio questo.

*Filippo Furioso è docente, referente per l’Educazione alla Salute presso il Centro Servizi Amministrativi (CSA) della Provincia di Torino, componente del Comitato per l’Integrazione Scolastica degli Handicappati del capoluogo piemontese e della redazione di «Handicap & Scuola», periodico del Comitato stesso. Ricopre anche la carica di giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni del Piemonte-Valle d’Aosta.

 

 

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