Con Giampiero Griffo, membro del consiglio mondiale dell’organizzazione Disabled Peoples’ International (DPI) e rappresentante italiano presso l’European Disability Forum (EDF), abbiamo cercato di fare il punto della situazione sulla Convenzione dei Diritti e della Dignità delle Persone con Disabilità che i Paesi membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) stanno elaborando e discutendo in questi mesi.
Allo stesso tempo, abbiamo anche cercato di analizzare l’importanza dei cambiamenti che stanno avendo luogo a livello internazionale e le loro profonde implicazioni per le persone con disabilità.
Quali sono stati, Giampiero, i momenti più significativi – da un punto di vista storico – che hanno caratterizzato l’impegno dell’ONU verso le persone con disabilità e come siamo arrivati alla bozza di Convenzione elaborata dal gruppo di lavoro nominato dall’Ad Hoc Committee, il Comitato, appunto, cui l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato l’incarico di valutare la possibilità di realizzare questo documento?
Se vogliamo parlare di ONU e disabilità da un punto di vista storico, dobbiamo necessariamente tornare indietro fino agli anni Settanta, in quanto la prima iniziativa in questo senso risale al 1975 ed è legata ad una sorta di raccomandazione nei riguardi delle persone con disabilità mentale, un documento molto generale in cui si sottolineava la necessità di intervenire e tutelare queste persone.
In quegli anni, però, l’ONU non si poneva il problema di avere una strategia globale su questa tematica e quando – nel 1981 – istituisce l’Anno Internazionale delle Persone con Disabilità (International Year for Disabled Persons), ciò determina una crescita totalmente nuova di sensibilità e di attenzione che ha visto un po’ in tutto il mondo associazioni e istituzioni, realtà di Paesi sia ricchi che poveri occuparsi delle persone con disabilità.
E così, sul finire del 1981, cresce la consapevolezza sempre maggiore che non poteva bastare un anno per affrontare tutti i problemi che quotidianamente si ponevano di fronte alle persone con disabilità.
Questo induce quindi l’ONU a lanciare una decade dedicata alle persone con disabilità (United Nation Decade of Disabled Persons), che dal 1982 al 1991 è riuscita a stravolgere positivamente diverse iniziative realizzate all’interno delle Nazioni Unite, come anche molte azioni e interventi a carattere nazionale e locale. Successivamente, la spinta del movimento delle persone con disabilità – unita ad una serie di considerazioni legate alla condizione di mancanza di pari opportunità che le stesse vivevano – ha portato all’approvazione delle Standard Rules on the Equalization of Opportunities for Persons with Disabilities (“Regole standard per l’eguaglianza di opportunità per le persone con disabilità”).
Uno strumento, quest’ultimo, approvato nel 1993 dall’Assemblea Generale, che non consiste in una legge e non porta quindi con sé caratteri di obbligatorietà – come invece una convenzione – ma che comunque costituisce delle linee guida di base per le azioni dei governi, che possono essere utilizzate per il monitoraggio delle politiche indirizzate alle persone con disabilità.
Il valore culturale che questo provvedimento ha avuto è stato molto rilevante, in quanto ha fatto emergere in modo chiaro come la condizione delle persone con disabilità non sia una condizione di compromissione della salute, bensì di discriminazione, di mancanza di accesso alla vita sociale a causa delle barriere, degli ostacoli e dei pregiudizi che la società frappone tra sé e le stesse persone con disabilità.
Le Regole, quindi, hanno rappresentato lo strumento che ha dato un input determinante all’inclusione delle persone con disabilità in tutte le politiche che le riguardavano, una sorta di passaggio da una concezione medica della disabilità, incentrata sulla malattia, sull’incapacità, la cura e l’assistenza, ad una concezione sociale, basata invece sulla cittadinanza piena, la tutela dei diritti e sugli strumenti per sostenere un adeguamento di opportunità e di inserimento sociale.
Le Regole hanno iniziato così ad influenzare i singoli governi – obbligati ogni cinque anni a presentare dei rapporti sullo stato di attuazione delle stesse – e hanno fatto crescere ulteriormente la consapevolezza che, non costituendo uno strumento legale e obbligatorio, avrebbero dovuto portare ad un ulteriore passaggio: la realizzazione di una convenzione.
Questa proposta, lanciata diverse volte negli anni successivi – anche dall’Italia – non è mai stata accettata, fino al 2000, anno in cui il Messico è riuscito a far approvare dall’Assemblea Generale la Risoluzione 56/168, in cui venivano date precise indicazioni di sperimentare – attraverso un Comitato Ad Hoc costituito a questo scopo – la possibilità di discutere e approvare una convezione per i diritti delle persone con disabilità.
Il Comitato Ad Hoc viene costituito subito e svolge due sessioni in cui viene principalmente approfondita la tematica. Nel 2003, invece, dopo che la Convenzione è stata definita uno strumento utile e necessario, le Nazioni Unite danno al Comitato Ad Hoc un altro mandato con cui lo incaricano formalmente di redigere appunto una convenzione.
Una convenzione equivale a una legge, è quindi uno strumento legale che – una volta ratificato da almeno un terzo dei Paesi membri delle Nazioni Unite – diventa vincolante per tutti quei Paesi, ed essi lo devono rispettare sia nelle legislazioni che nelle politiche attuate.
Il passaggio finale di questo lungo percorso è stata la costituzione di un gruppo di lavoro che ha scritto il testo di base, una sorta di bozza di convenzione sottoposta al Comitato nel gennaio del 2004.
Da allora, ci sono state altre sessioni dell’Ad Hoc Committee, nel corso delle quali si è iniziato a discutere dei temi contenuti in questo testo.
Puoi già fare una previsione in merito ai tempi di approvazione del testo?
Ad oggi, l’Ad Hoc Committee ha già analizzato buona parte degli articoli, ma ragionando in termini realistici direi che altre due o tre sessioni di lavoro dovrebbero essere sufficienti per concludere l’intera analisi del testo.
La Convenzione, poi, dovrà passare all’approvazione dell’Assemblea Generale dell’ONU e una volta approvata dovrà essere ratificata con un processo simile a quello delle convenzioni europee.
Il testo, infatti, dovrà essere approvato dai Parlamenti dei vari Paesi membri e poiché i tempi di definizione di una ratifica variano da Paese a Paese (a seconda dei tempi parlamentari, se ci sono elezioni in corso, o eventuali opposizioni…), calcoliamo almeno altri tre o quattro anni, dal 2006, perché almeno un terzo dei Paesi faccia proprio il testo della convenzione (circa 65 di essi) e questa diventi operativa.
Sappiamo che tu e Pietro Barbieri, il presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), siete stati inseriti nella delegazione del governo italiano che parteciperà ai lavori della prossima sessione, la sesta, che si terrà a New York le prime due settimane di agosto. Questo cosa comporterà?
Devi sapere che dal punto di vista dell’iter procedurale, fino ad oggi i lavori dell’Ad Hoc Committee hanno visto una fortissima partecipazione delle organizzazioni di persone con disabilità.
Infatti, da quando il Messico ha fatto approvare la Risoluzione 56/168 all’Assemblea Generale, nel 2000, le associazioni si sono mobilitate e ad ogni sessione del Comitato Ad Hoc c’è stata una rappresentanza molto cospicua di organizzazioni di persone con disabilità.
Esse si sono unificate da un lato in un’alleanza internazionale che raccoglie le sette più importanti organizzazioni a livello mondiale, dall’altro in un Caucus, una sorta di gruppo generale che in ogni sessione rappresenta tutte le associazioni presenti.
Il ruolo che hanno avuto queste organizzazioni è stato molto forte – determinante oserei dire – in quanto fino alla terza sessione esse hanno avuto pieno diritto di parola, com’era accaduto anche nella fase di stesura della bozza di convenzione, in cui il gruppo di lavoro era costituito per un terzo da rappresentanti ed esperti che provenivano dalle associazioni di persone con disabilità.
Appare anche evidente, però, che la scrittura è una cosa, mentre l’approvazione è un’altra. Oggi, inoltre, le regole sono cambiate. I governi infatti hanno rivendicato il loro ruolo. Le Nazioni Unite d’altro canto sono le Nazioni Unite dei Governi, e nel loro Statuto non viene riconosciuto un ruolo specifico alle organizzazioni non governative, se non con uno status consultivo.
Quindi, poiché le convenzioni sono scritte dalle rappresentanze dei governi e adesso le organizzazioni non hanno più diritto di parola nel corso delle sessioni, l’unico strumento che avevamo per poter continuare a pesare all’interno della discussione era quello di avere nostri rappresentanti nelle delegazioni ufficiali dei singoli governi.
L’Italia ha accettato la nostra proposta e quindi sia Pietro Barbieri che io – anche se a spese nostre – saremo membri ufficiali della delegazione italiana. Delegazione che partecipa alle discussioni con diritto di parola e i cui membri possono partecipare anche alle sessioni riservate.
In questo momento la presidenza dell’Unione Europea è del Regno Unito, e la procedura prevede che sia quest’ultimo a parlare a nome dei 25 Paesi dell’Unione. D’altro canto, per decidere quello che il delegato del Regno Unito deve dire, le delegazioni dei 25 Paesi partecipano a degli incontri e in quella sede noi potremo parlare, così come in assemblea, nel corso della quale avremo la possibilità di dire la nostra, in quanto delegati ufficiali dell’Italia.
Com’è dal tuo punto di vista la bozza di Convenzione su cui state discutendo? Ti sembra completa oppure manca di qualche elemento importante?
Allo stato attuale, come movimento di associazioni, abbiamo ottenuto che la Convenzione sia basata su un approccio che muova dai diritti umani.
All’inizio della discussione c’erano infatti due posizioni, una che voleva collegarla ai diritti economici e sociali e un’altra, poi vincente, che voleva legarla ai diritti umani.
Qual è la differenza? Che nel primo caso la stesura sarebbe stata basata sulla tradizionale legislazione e quindi avrebbe influenzato molto relativamente le legislazioni attuali. In essa avremmo trovato capitoli tradizionali quali la sanità, l’assistenza alla persona, la mobilità, il lavoro, l’educazione e così via.
Centrate invece su un approccio basato sui diritti umani, le varie questioni hanno assunto un peso maggiore, sviluppando anche un taglio culturale molto più efficace.
Parlare di vita indipendente, infatti, è una cosa totalmente diversa dal fare un discorso sulla mobilità o il lavoro. Significa garantire una cosa che attualmente non è garantita dalla maggior parte dei Paesi del mondo.
Alla luce di tutto ciò, il giudizio che darei in questa fase, per quanto i governi stiano giocando sulle parole e stiano discutendo sulle varie tematiche, è che il testo è decisamente molto buono. Introduce infatti concetti molto innovativi e un quadro culturale estremamente diverso da quello attuale. Soprattutto sposa quell’idea che la violazione dei diritti umani nel campo della disabilità è ancora vastissima e che quindi va contrastata.
A questo va aggiunto poi il fatto che per molti anni abbiamo avuto l’opposizione dei governi, soprattutto quelli dei Paesi ricchi, che giudicavano un approccio basato sui diritti umani troppo costoso. Oggi, poiché la convenzione ha introdotto temi che cancellano queste obiezioni, speriamo di avere una spinta – sia in termini internazionali ma soprattutto nazionali – ad un nuovo approccio legislativo.
E questo vale non tanto e non solo per i Paesi ricchi, per i quali comunque già significa affrontare in maniera estremamente diversa la storia dei diritti delle persone con disabilità, quanto soprattutto per i Paesi poveri.
Non dimentichiamo infatti che oltre l’80% delle persone con disabilità vive in Paesi in via di sviluppo, nei quali le persone con disabilità stesse rappresentano “i più poveri tra i poveri”.
Su una stima di circa 500-600 milioni di persone con disabilità nel mondo, in base a dati non ufficiali forniti dalle Agenzie delle Nazioni Unite, di questi – nei Paesi poveri – solo il 2% va a scuola.
Inoltre, dando anche una semplice occhiata alle statistiche dei Paesi dell’Unione Europea, vediamo che ci sono circa 2.500 strutture di accoglienza o “istituti lager”, come diciamo noi, che raccolgono quasi 500.000 persone con disabilità in Europa.
Quindi, confrontando questi dati con quelli dei Paesi poveri, vediamo che oggi la strada prevalente è che o non ci sono servizi o, se ci sono, sono segreganti. La legislazione internazionale, dunque, non potrà che portare benefici a queste persone che vivono in paesi in cui non godono di alcuna forma di tutela.
Il Comitato, quindi, sta lavorando bene?
Il Comitato Ad Hoc dal mio punto di vista è molto rapido. I tempi medi per la discussione e l’approvazione di una convenzione delle Nazioni Unite oscillano solitamente tra i 10 e i 15 anni. Quindi, se pensiamo che l’iter per questa Convenzione è iniziato verso la fine del 2000 e ad oggi, dopo cinque anni, abbiamo un testo di cui è stata già discussa più della metà, con l’ipotesi che già entro il 2006 o al massimo all’inizio del 2007 ci possa essere un testo di Convenzione approvato – allora possiamo dire che il Comitato sta lavorando bene e chiaramente il peso che hanno avuto le associazioni in tutto questo è stato straordinario.
La Risoluzione ONU che ha determinato la nascita del gruppo di lavoro ha per la prima volta nella storia della Nazioni Unite deciso di inserire all’interno di questo gruppo una rappresentanza cospicua che proveniva non dai governi, ma dalla società civile. Questo è un elemento estremamente importante, in quanto anche noi condividiamo quello che da più parti si dice, e cioè che l’ONU non deve essere solo dei governi, ma anche dei popoli. Non è infatti un caso che come movimento aderiamo alla campagna per la riforma delle Nazioni Unite, basata su una maggiore partecipazione popolare.
Tornando alla Convenzione, quali sono i temi rispetto ai quali – in sede di discussione – emergono le maggiori divergenze tra le delegazioni o tra le stesse associazioni?
Come si può ben capire, organizzare un testo che vada bene a 191 Paesi con culture, società, economie, sistemi legali e storie differenti, è estremamente complesso.
Principalmente, le complessità sono di due tipi. Il primo deriva dal quadro culturale generale, che ha quindi a che vedere con l’evoluzione storica di ogni singolo Paese e include problemi, ad esempio, come quello della stessa definizione di disabilità. Ci sono infatti Paesi che hanno già una definizione, Paesi che non hanno una legislazione in merito, altri che invece ce l’hanno e che vogliono una definizione generale, pensando così di tutelare un numero maggiore di persone. E ancora Paesi che ritengono importante introdurre una definizione non basata su principi sanitari o su valori sanitari, ma su valori sociali.
E questo è solo uno dei temi di questa prima area, molto complesso e delicato.
Un altro tema piuttosto generale che fa parte di questa tipologia di complessità e su cui possono nascere delle divergenze è quello relativo alla tutela legale. In merito a questo, infatti, ci troviamo di fronte ancora oggi a pratiche di violazioni dei diritti umani estremamente diffuse.
Pensiamo ad esempio allo strumento dell’interdizione sociale – non legale – legato a quelle persone che hanno delle acuzie psichiatriche. In molti Paesi la pratica di internamento negli ospedali psichiatrici è ancora estremamente discriminatoria, perché avviene sulla base di leggi o principi per cui non è la persona direttamente interessata che decide per sé, bensì coloro che le gravitano attorno a stabilire se debba essere inserita in un istituto o no; quando a decidere non è addirittura un medico!
Altre situazioni che possono essere molto diverse da Paese a Paese hanno invece a che vedere con gli strumenti attraverso i quali si riconosce a tutti la tutela legale, campo che interessa quelle persone che non possono rappresentarsi da sole.
Noi, come movimento, sosteniamo che tutte le persone debbano avere garantita la tutela legale, ma è evidente che questo, se pensiamo ai Paesi in via di sviluppo, diventa un tema estremamente delicato essendo, questi, luoghi dove si muore con estrema facilità e la tutela legale non è garantita per nessuno, non solo per le persone con disabilità.
E così come per la tutela legale, un altro esempio significativo di possibili punti di vista divergenti è il tema stesso: che cosa significa tutelare legalmente una persona. Significa cioè rinchiuderla in un istituto o piuttosto garantirle la qualità di vita che è garantita agli altri cittadini?
Per quanto concerne poi il secondo ambito di complessità, esso riguarda la forma attraverso cui i governi pensano di tutelare i diritti delle persone con disabilità. Poiché tra i vari Paesi esiste un confronto molto forte legato alle risorse, quelli più poveri sostengono che se dovessero essere obbligati a rispettare determinati diritti, dovrebbero anche ricevere le risorse per garantirli. Osservazione, questa, che nasce dal fatto che in tali Paesi non ci sono le risorse nemmeno per garantire e tutelare la scuola per tutti, oppure la salute per tutti, e di conseguenza se fossero obbligati ad assicurare determinati diritti, al momento non avrebbero le risorse necessarie per farlo.
Altro problema legato a questa dimensione generale di profondo confronto tra i Paesi è quello dei sistemi di monitoraggio, che non sono ancora stati discussi, ma sui quali c’è palesemente una situazione di diversa opinione.
Se i Paesi democratici, infatti, non hanno problemi ad identificare un ruolo anche per le organizzazioni della società civile, ci sono invece Paesi in cui governano delle dittature o in cui la democrazia è ancora lontana, dove questa possibilità è totalmente negata ed è evidente che tale problema, inscindibile dalle singole realtà, rimane essenziale.
Un terzo elemento è legato invece alle posizioni di singole organizzazioni. Due esempi per tutti. Il primo riguarda l’educazione.
Tra le associazioni, infatti, c’é una parte di esse che sostiene che per determinate e particolari patologie – e si ricade in un modello medico della disabilità – le strutture educative devono garantire, ad esempio per i ciechi, i sordi o gli autistici gravi, o per persone con ritardo mentale grave, il mantenimento di classi speciali. La gran parte del movimento, invece, è contraria a ciò, ritenendo che se un trattamento speciale dev’essere fatto, lo si deve attuare sempre nell’ambito dell’educazione inclusiva.
L’altro esempio riguarda poi, in ambito di sordità, una discussione attiva tra chi sostiene che il linguaggio dei segni è un linguaggio di minoranza che va tutelato e chi invece sostiene che esso è una delle possibilità, riconoscendone però anche altre e chiedendo di lasciare alle famiglie la libertà di scelta.
Per riassumere, è chiaro che tutti questi piccoli conflitti in qualche modo hanno delle ricadute al momento della discussione del testo in sede di sessione, in quanto laddove il movimento è unito ha più forza per avanzare delle richieste e per far rispettare la propria voce, laddove invece esso si presenta frammentato e separato, i temi vengono affrontati in maniera molto meno incisiva.
Giusto per fare un ulteriore esempio e chiarire ancor meglio questo punto, se pensiamo al tema dell’educazione inclusiva, vediamo che in un’Europa composta da 25 Paesi, dove esiste forse l’unico dato scientifico raccolto dai governi, circa il 56% dei bambini con disabilità che intraprendono il percorso scolastico, vanno in classi speciali.
Ora, se già all’interno del movimento c’è qualcuno che sostiene di mantenere le classi speciali, è evidente che tra gli stessi Paesi ricchi saranno tanti e ancor più forti quei governi che non vorranno cambiare il sistema scolastico, sostenendo che l’operazione è troppo costosa, che richiederebbe una riformulazione totale dei sistemi di attenzione educativa e dimostrandosi quindi contrari a un tipo di approccio inclusivo.
Risulta più che mai necessario, quindi, per raggiungere i risultati migliori e gli obiettivi più utili, trovare una voce unica, ed è proprio a questo scopo che noi lavoriamo durante le sessioni, sia all’interno dell’alleanza delle sette organizzazioni maggiori, sia con il Caucus, sia nel corso della riunione periodica, giornaliera, a cui partecipano i rappresentanti delle organizzazioni della società civile, che scelgono di volta in volta una posizione o identificano un lavoro di lobbing.
Hai detto lobbing?
Sì, perché nel corso di una sessione del Comitato Ad Hoc i livelli d’azione che possono essere messi in atto sono diversi.
Uno, più generale, è rappresentato da una presa di posizione di tutte le associazioni, per segnalare che una parola, una frase o un concetto vanno difesi oppure cancellati.
C’è poi un’azione legata alle attività tese a trasformare le posizioni individuali dei singoli governi, in cui il governo di un Paese viene messo sotto pressione dalle delegazioni legate a quel Paese stesso o da altri gruppi che possono parlare la stessa lingua e provare a influenzarlo.
E questa è una vera e propria azione di lobbing, di attenzione, di dialogo tra i Paesi, finalizzata anche alla prevenzione di problemi che si iniziano ad identificare.
Come si può intuire, lavorare su tutto ciò significa svolgere un’azione estremamente complessa, sia dal punto di vista delle procedure, sia rispetto alle prese di posizione di alcuni Paesi su determinati documenti da preparare, sia anche rispetto all’attività di lobbing in corso. Partecipando direttamente a queste riunioni ci si rende conto della straordinaria capacità che ha il movimento delle persone con disabilità di essere all’altezza di questo compito.
Un’attività quindi impegnativa ma di grande rilevanza…
Certo, guardando soprattutto ai contenuti della Convenzione, quelli su cui si discute, ci si rende conto che stiamo parlando di diritti umani, di tutela della vita, di combattere trattamenti inumani e degradanti.
Chiaro, sono principi già enunciati in altre convenzioni, ma inserirli proprio in questa Convenzione significa collegarli alla vita indipendente, al diritto all’integrazione sociale, al sostegno alla non-discriminazione, ad un bilanciamento di opportunità. E tutte queste sono tematiche che in un quadro di diritti umani danno un valore aggiunto agli articoli di altre convenzioni che non erano mai state applicate alle persone con disabilità.
Spostiamoci adesso al seminario – preparatorio alla sessione dell’Ad Hoc Committee di agosto – che si è tenuto a Londra il 5 luglio.
L’Europa si è preparata con diversi incontri, uno organizzato dall’European Disability Forum che ha discusso la propria posizione a Barcellona a fine maggio e l’altro promosso da Disabled Peoples’ International a Bucarest a metà giugno, sfociati entrambi in un seminario concordato con la presidenza dell’Unione Europea, attualmente affidata al Regno Unito e che – come detto – sarà responsabile di fare da portavoce durante la sessione dell’Ad Hoc Committee che avrà luogo a New York dal 1° al 12 agosto prossimi.
Al seminario del 5 luglio erano presenti i rappresentati dei governi, quelli dei consigli nazionali e delle organizzazioni non governative europee.
Nel corso dell’incontro sono state affrontate varie tematiche legate ai temi della Convenzione e naturalmente anche in quella circostanza lo sforzo è stato quello di intervenire per garantire un’attenzione adeguata a temi attualmente non inclusi nella Convenzione stessa.
Ad esempio, è stato affrontato il problema delle famiglie, con l’affermazione del principio che in alcuni casi sono loro, soprattutto per quelle persone che non possono rappresentarsi da sole, ad avere la tutela e quindi a dover essere valorizzate con interventi specifici.
Si è parlato poi della tutela delle minoranze, intendendo per esse quelle categorie come i minori, gli immigrati, le donne, che non sono una minoranza ma sono incluse in questo dibattito, soprattutto su come tutelarne la doppia discriminazione, anzi multipla.
Si è anche discusso di come tutelare l’applicazione dei diritti e anche qui c’è stata una riflessione sul modo attraverso il quale essere più efficaci nel rivendicare quello che noi in Italia chiamiamo un diritto pieno, quindi da rispettare obbligatoriamente. Infatti, molte legislazioni, non solo in Italia, affermano un principio ma poi non rendono il diritto realmente esigibile.
In conclusione, si è trattato di una discussione che ha sollevato molti problemi, da affrontare in sede di sessione.
Secondo alcuni andrebbero aggiunti alla Convenzione nuovi punti, secondo altri, invece, ne andrebbero tolti oppure andrebbero arricchiti di contenuti ancora superiori quelli che già ci sono.
Diciamo che il lavoro che faremo a New York sarà di fare in modo che prevalga il valore fondamentale della tutela dei diritti umani, in qualsiasi stesura del testo venga approvata.
In che modo si collega ai lavori per la Convenzione il documento di Disabled Peoples’ International in cui si possono leggere alcune richieste di aggiornamento rivolte al segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan, relativamente agli Obiettivi del Millennio (Millenium Development Goals)?
Dobbiamo considerare che tutte le attività legate alla Convenzione si intrecciano poi con le altre che il movimento svolge con le Agenzie dell’ONU, che sono l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), l’UNICEF.
I Millennium Development Goals (MDG) sono incentrati sulla povertà. Il documento che li contiene prevede un’azione globale dell’ONU, che riguarda tutti i Paesi e tutte le Agenzie dell’ONU stessa e che mira ad una riduzione della povertà da qui al 2015.
Poiché a settembre ci sarà a New York il Summit mondiale su questo tema, Disabled Peoples’ International ha preso l’iniziativa e ha stilato un documento affinché in quell’occasione sia posta all’attenzione dei governi la priorità di garantire una particolare tutela alle persone con disabilità, che rappresentano la metà dei poveri nel mondo.
Su un miliardo e duecento milioni di persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, si calcola che circa la metà siano persone con disabilità. Per cui è assolutamente essenziale un intervento che garantisca a queste persone la possibilità di essere tutelati anche nelle politiche realizzate dai governi e non solo nelle legislazioni.
Inoltre, proprio per questo motivo, il nostro movimento ha anche aderito alla campagna mondiale contro la povertà e – per l’Italia – stiamo collaborando attivamente alla Marcia per la Pace Perugia-Assisi, che sarà un momento essenziale di tale campagna, almeno per quanto riguarda il nostro Paese.
In quell’occasione, l’11 settembre, una folta delegazione delle persone con disabilità del movimento italiano prenderà la testa della marcia. Allo stesso tempo verrà anche lanciato un ulteriore appello affinchè le Nazioni Unite capiscano la necessità di un’attenzione estrema verso tutti quei cittadini discriminati e i cui diritti umani sono violati tutti i giorni.
Parteciperemo inoltre alla sesta Assemblea dell’ONU dei Popoli da protagonisti (a Perugia, dall’8 al 10 settembre), così come alla seconda Assemblea dell’ONU dei Giovani che si terrà a Terni nello stesso periodo.
Vorremmo in sostanza che emergesse in modo chiaro il significato che ha – per il movimento delle persone con disabilità – una reale politica che ponga un freno alla povertà e rimuova le condizioni della guerra. Questo perché le persone con disabilità in casi di emergenza, di sfollamenti, di disastri umani oltre che naturali, sono quelle che soffrono di più, ma anche quelle più impoverite dal trattamento che la società riserva loro.
Noi siamo poveri non solo perché una parte di noi non è in condizione di provvedere ad un proprio reddito, ma anche perché gli ostacoli, le barriere, i pregiudizi, le discriminazioni che affrontiamo tutti i giorni rendono problematico avere accesso ai normali e ordinari diritti riconosciuti a tutti i cittadini.
Quindi, oltre a essere poveri di base, siamo anche impoveriti dalla società. Un tema, questo, estremamente importante da rivendicare in questa iniziativa delle Nazioni Unite (appunto i Millennium Development Goals), per sottolineare che se si arriva ad una Convenzione e si riconosce questo impoverimento, allora c’è anche bisogno che un’iniziativa politica come i MDG tenga conto della priorità da assegnare alle persone con disabiltà.
Direi di entrare adesso, in conclusione e in termini abbastanza generali, nel merito dei contenuti che troviamo in questa Convenzione, composta in totale di 25 articoli…
Prima di tutto vorrei sottolineare il fatto che tutti i temi trattati nella Convenzione sono molto innovativi.
Essi vanno dalla promozione di un’attitudine positiva verso le persone con disabilità, in risposta all’immagine negativa che i mass-media o anche solo le culture, la scuola e l’università hanno veicolato in questi anni e ancora continuano a veicolare. Per continuare poi con le indicazioni – rivolte a tutti i Paesi – dell’assoluta necessità di raccogliere dati attendibili, di elaborare statistiche, essendoci ancora oggi moltissimi Paesi che non fanno nulla in questo senso (l’Italia stessa, ad esempio, fa ancora molto poco).
Passando ancora per temi come l’uguaglianza e la non discriminazione, che richiederanno, se verrà approvata la Convenzione, che tutti i Paesi approvino delle leggi nazionali sulla non discriminazione.
Per arrivare infine al tema del diritto alla vita e al pari riconoscimento della persona con disabilità davanti alla legge. Non possiamo non pensare a quante persone non vengono assistite nel mondo perché disabili e perché si pensa che essendo la loro una vita “di qualità inferiore”, le si considera quasi “persone inutili” (classico approccio, questo, basato sulle risorse, che essendo scarse per tutti i Paesi, vanno riservate a chi sta meglio e non a chi è in condizioni di salute precarie).
Già questi primi temi dimostrerebbero la grande innovazione di questo testo, anche solo paragonandolo alla nostra legislazione, che è una delle migliori al mondo. Immaginiamo se lo paragonassimo a quelle dei Paesi in via di sviluppo, che non hanno nemmeno lontanamente una legislazione come quella italiana.
Continuando poi con gli articoli successivi, meritano una segnalazione quelli dedicati ai diritti alla libertà e alla sicurezza delle persone con disabilità, alla libertà dalla tortura, dalla violenza, dagli abusi: pensiamo a quanti trattamenti di questo tipo sono stati subiti dalle persone con disabilità negli istituti, e quanti ancora ne avvengono tutti i giorni, in netta violazione dei diritti umani.
Anche la libertà di accesso all’informazione è assolutamente un tema dei più attuali: quante persone con disabilità hanno oggi realmente accesso all’informazione? E al rispetto della privacy?
Tutti questi temi, già oggetto di discussione, sono di estremo interesse e benché il testo al momento sia ricco di proposte di emendamenti, e quindi in fase di modifica, anche solo l’introduzione di concetti così nuovi nella Convenzione che stiamo elaborando darà alle legislazioni nazionali uno slancio completamente diverso.
Gli articoli che saranno discussi nel corso della sessione di New York, in agosto, riguarderanno la vita indipendente, i bambini e l’istruzione, la partecipazione alla vita politica e pubblica, la mobilità e l’accessibilità, il diritto alla sanità e alla riabilitazione.
Mi pare importante sottolineare anche il fatto che la Convenzione include un articolo incentrato sul diritto alla salute e alla riabilitazione, ma che non è l’unico, è solo uno dei tanti, da rispettare, ma che ha lo stesso valore di tutti gli altri diritti e temi enunciati nei vari articoli.
Per concludere, poi, con quelli sul diritto al lavoro, alla sicurezza sociale, così come la partecipazione alla vita culturale, al divertimento e allo sport, fino all’ultimo, che riguarda il monitoraggio.
Tutte tematiche, queste, che danno un quadro estremamente innovativo basato sui diritti umani che cambia totalmente l’approccio culturale generale e sostiene la trasformazione che noi chiediamo all’interno delle politiche e delle pratiche riabilitative.
Non a caso, proprio nel periodo in cui ha luogo questa discussione, anche l’università si sta aprendo a questi temi, dedicandovi un’attenzione nettamente maggiore. Proprio quest’anno, infatti, l’Università di Padova lancerà il bando per la partecipazione ad un Corso su Diritti Umani e Disabilità, aperto a sessanta persone, che vuole dare dignità universitaria alla tematica dei diritti umani applicati alle persone con disabilità. Un argomento che tutto il movimento delle persone con disabilità vuole diventi un tema fra i tanti legati ad una professionalità basata sui diritti umani.