La storia di Federico Montero è particolarmente istruttiva. Nato in Costarica, mentre completava gli studi di medicina, a causa di un incidente d’auto ha subito una lesione midollare che l’ha reso paraplegico.
Durante il percorso di riabilitazione, egli si è avvicinato a questo settore della medicina prima completamente sconosciuto, conseguendo la specializzazione in Medicina Riabilitativa nel suo Paese e poi nel Regno Unito.
Ritornato in Costarica, si è sposato ed è diventato papà. Purtroppo è rimasto vedovo con un bimbo di quattro anni.
«Ho vissuto l’esperienza di essere padre e vedovo con disabilità», ci racconta Federico. «Mio figlio ha sempre vissuto con me, ma è stato complesso mantenere la qualità del mio lavoro e occuparmi della sua cura ed educazione. Mi ha dato però tanta felicità».
Federico ha lavorato poi al Centro Nazionale di Riabilitazione Costarichegno, dove alle attività mediche e scientifiche ha accomunato quelle sociali, a diretto contatto con le persone con disabilità e le loro famiglie.
«Nel 1997 sono stato socio fondatore della prima associazione di persone con disabilità in Costarica, l’Associacion Costaricense de Minusvalidos e negli anni Novanta ho costituito il Forum per i Diritti Umani delle Persone con Disabilità, che ha introdotto nella mia terra i nuovi approcci internazionali».
Insegnante all’Università di San José di Costarica, alla Scuola per Fisioterapisti e nei Corsi di Specializzazione di Medicina Riabilitativa, Federico ha intrapreso poi le attività internazionali per conto dell’Organizzazione Panamericana di Salute (OPS) e dell’Unicef.
«Nel 2002 ho incontrato in Nicaragua Enrico Populin, allora direttore del DAR (Disability and Rehabilitation), che fu colpito dalla mia competenza e dal fatto che nello stesso tempo fossi medico e in sedia a rotelle».
Populin è stato un vero e proprio innovatore, all’interno del DAR, profondamente convinto del ruolo che le persone con disabilità dovessero avere in tutti i settori della società, per rimuovere barriere e pregiudizi che la società stessa attribuiva e creava loro.
«Ho cominciato a lavorare per il DAR – riprende Federico – con piccoli contratti a termine. Poi nel 2003 Populin è andato in pensione ed io ho assunto il coordinamento provvisorio dell’ufficio. In seguito ho partecipato al concorso per direttore e dal gennaio 2005 ho assunto la carica di responsabile della struttura».
Federico parla con particolare senso di responsabilità del suo nuovo incarico: «Nell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ho cambiato la mia prospettiva. Venivo infatti da un’esperienza latino americana in cui mi sembravano già grandi la povertà e la mancanza di risorse: ho dovuto ricredermi visitando regioni africane e asiatiche dove le condizioni di vita delle persone con disabilità sono davvero tremende. L’accesso ai servizi di salute e di riabilitazione è pressoché inesistente per tutti e a maggior ragione per le persone con disabilità. Un esempio fra tanti possibili: in Tanzania una persona con lesione midollare ha un’aspettativa di vita che oscilla dai 4 mesi ai 2 anni. In quei Paesi l’incidenza epidemiologica tra abitanti con malattie progressive, traumi gravi, cerebrolesioni severe è molto bassa proprio per la limitata aspettativa di vita. Nei Paesi poveri si incontrano soprattutto ciechi, sordi e persone amputate che sopravvivono senza alcun servizio sanitario di base».
E per quanto riguarda l’incidenza delle persone con disabilità sulla popolazione mondiale? «Purtroppo – annota Federico – non vi sono statistiche sufficienti sulla materia e anche quando esistono sono molto lontane dal descrivere la realtà. Basti partire da alcune considerazioni: le statistiche dei Paesi ricchi non prendono in considerazione alcune conseguenze di piccole malformazioni. Un piede valgo in Europa è trattato in maniera precoce e un intervento con una scarpa ortopedica consente di stabilizzare la situazione. In un Paese povero, invece, la totale mancanza di interventi correttivi produce un aggravamento della condizione di salute di quel piede che spesso diventa un serio problema per la deambulazione della persona. E d’altra parte costruire un sistema di vigilanza epidemiologica, in Paesi poveri dove mancano i livelli minimi di assistenza medica di base, non è considerata una priorità per questi Governi. Ma il dramma vero sono probabilmente le aree rurali o di montagna, dove spesso non c’è alcun servizio e quindi è impossibile raccogliere dati attendibili. Infine, c’è ancora molta ignoranza, che relega le persone con disabilità nel campo della vergogna o della punizione divina».
Si può dire quindi – sintetizzando – che la riabilitazione non sia per niente un servizio disponibile dovunque… «Negli ultimi anni varie aree della medicina sono progredite. La Dichiarazione di Alma Ata [Conferenza Mondiale sui Servizi Primari di Salute, 1978, N.D.R.] identificava quattro aree prioritarie di intervento: prevenzione, nutrizione, servizi sanitari di base e riabilitazione. Purtroppo, mentre sulle altre tre aree i progressi sono stati significativi, la riabilitazione è risultata la cenerentola e tuttora è l’area meno sviluppata della salute. Non è un caso che di recente l’assemblea dell’OMS abbia approvato un documento sulla riabilitazione molto significativo, tentando di aggiornare la riflessione anche alla luce delle nuove prospettive che si sono aperte negli ultimi anni».
Forse qui – vista l’importanza della questione – è il caso di entrare maggiormente nel dettaglio. «Più precisamente – segnala Federico – mi riferisco innanzitutto alla nuova prospettiva apertasi per le persone con disabilità basata sull’approccio legato ai diritti umani. A volte si sono ingenerati vari equivoci, primo fra tutti quello per cui il modello sociale della disabilità sarebbe alternativo agli interventi medici. In realtà, la dimensione dei diritti umani include sì questi ultimi, ma in un campo più vasto di diritti che devono essere garantiti alle persone.
Altro problema è quello della non corretta percezione del termine stesso di salute: l’OMS da anni sottolinea che essa non è solo legata alle malattie, ma in generale al benessere delle persone, definizione che include quindi – oltre agli interventi medici – anche quelli che incidono sulla condizione generale delle persone e sull’ambiente in cui vivono. Purtroppo il campo della riabilitazione ha scontato pesantemente queste ambiguità: in molti Paesi ricchi, infatti, essa viene vista dalle persone con disabilità come il modello medico della disabilità, quasi in alternativa agli interventi sociali. La discussione emersa a New York in questi giorni, sui due articoli della Convenzione legati alla riabilitazione, è sintomatica».
A questo punto vale forse la piena di spiegare meglio i termini della discussione cui accenna Federico e per far questo bisogna risalire appunto al dibattito del Comitato Ad Hoc (Ad Hoc Committee).
In tale sede, la delegazione finlandese ha introdotto nella discussione sull’articolo 21 (Diritto alla salute e alla riabilitazione) una distinzione tra riabilitazione e abilitazione, chiedendo di separare le due questioni in altrettanti diversi articoli.
La riabilitazione, quindi, sarebbe legata alla tradizionale offerta di servizi riabilitativi che intervengono per ri-abilitare una funzione del corpo compromessa da un incidente, da un trauma o da una malattia.
Diverso, secondo questa interpretazione, l’intervento abilitativo, che potenzia le capacità della persona non legate all’incidente, al trauma, alla malattia, ma alla nuova condizione della persona stessa.
In altre parole, si riabilita una persona re-insegnandole a camminare, mentre la si abilita insegnandole ad usare una sedia a rotelle.
Ma che ne pensa Federico Montero della proposta finlandese?
«Mi sembra molto pericolosa», ci risponde. «Questa separazione concettuale rischia infatti di ridurre gli interventi riabilitativi sulle persone con disabilità, attualmente del tutto presi in carico dai servizi sanitari. Qualora passasse la proposta dei due articoli, una parte dei servizi riabilitativi ricadrebbe su altri capitoli di bilancio (spese sociali? spese formative?), senza la sicurezza di una copertura finanziaria certa».
Si tratta però – controbattiamo – di una discussione indotta anche da una cultura medica non certo troppo attenta alle nuove prospettiva internazionali sulla disabilità…
«Certo. È innegabile che i professionisti della riabilitazione e le stesse società mediche non abbiano colto del tutto il cambiamento di visione culturale che l’approccio basato sui diritti umani ha introdotto. È necessario quindi sviluppare un dialogo forte con queste realtà da parte dello stesso movimento delle persone con disabilità, per costruire un’alleanza nuova. E d’altro canto, va sviluppata a mio parere anche un’attitudine diversa nei confronti degli interventi per il miglioramento del recupero funzionale: il messaggio di cambiamento è già dentro l’OMS, che collega l’idea ampia di salute al riconoscimento di quest’ultima come diritto. Il fatto che l’OMS abbia nominato Paul Hunt come special rapporteur sulla salute è un segnale che va in questa stessa direzione».
Ma qual è la specifica attività del DAR in questo campo?
«Il DAR ha purtroppo uno staff di personale estremamente limitato e su queste risorse deve basarsi. In ogni caso, nel prossimo ottobre esso organizzerà a Ginevra una riunione mondiale di esperti per rilanciare e aggiornare il discorso sulla riabilitazione. La riunione mondiale precedente risale addirittura al 1981…».
Certo – facciamo notare a Federico – che pur con risorse limitate, il DAR ha sviluppato senz’altro un dibattito intenso e significativo sulla disabilità e sulla salute!
«Sono d’accordo. La disabilità per noi è un tema trasversale che tocca tutti gli ambiti della vita. La strategia basata sulla Riabilitazione su Base Comunitaria (Community Based Rehabilitation – CBR) è approdata di recente all’idea che il concetto di riabilitazione sia legato a quello di inclusione e che reintegrare le persone con disabilità nella comunità sia anche un processo sociale e uno strumento di sviluppo territoriale. Trasformare gli interventi verso una persona con disabilità da assistenziali a interventi di inclusione sociale ed economica significa infatti rendere la persona cittadino e produttore. In questa stessa ottica va inquadrato l’utilizzo appropriato delle nuove tecnologie, in grado di offrire soluzioni riabilitative prima inimmaginabili. Il nostro sforzo, quindi, è quello di riuscire a coniugare, da un punto di vista medico, la disabilità come accidente fisico e/o mentale, individuale e sociale.
Non bisogna però dimenticare che la gran parte delle persone con disabilità vivono nei Paesi in cerca di sviluppo, dove la povertà è il problema più grande. In questo senso nemmeno il Millennium Development Goals dell’ONU sta ancora fornendo risposte adeguate. Infatti, nei documenti finora disponibili, non vi è ancora alcun riferimento alla disabilità, nonostante sia essenziale – se si vuole veramente sradicare la povertà – occuparsi delle persone con disabilità, dal momento che questi ultimi altro non sono che “i più poveri tra i poveri”».
Il volto pacifico e sereno di Federico mi saluta dandomi un arrivederci al prossimo incontro internazionale: sicuro che, seppur da punti di azione diversi, saremo ambedue sulla stessa barricata.