A Vittorio Cavini trent’anni fa venne diagnosticata la sclerosi multipla, «proprio una brutta malattia», ma di cui «non si muore».
Giornalista che ha attraversato più volte gli Stati Uniti, la Cina, l’Africa, l’India, l’Australia, le isole dei Mari del Sud, la Patagonia, l’Europa «e l’Italia naturalmente, alla scoperta di quelle piccole meravigliose località che sono sparse come perle nel nostro Paese…», Cavini dice che «il mondo è immenso» e scrive un libro che emoziona solo a sfogliarlo per via delle inserzioni fotografiche: la miseria nel Burkina Faso, la Cappadocia turca, l’esercito di terracotta a Xian in Cina, un albero di Angkor che ha messo le radici addosso a un vecchio tempio, i pinguini della Patagonia.
Nato nel 1935, l’autore di Rotellando per il mondo ha lavorato per quotidiani come «L’Adige» e «Il Giorno», oltre che per la RAI. Ha pubblicato Un pozzo per la vita; L’avventura di Kino; Una storia vera; Merano: 30 aprile 1945, Quando ai tedeschi cambiarono nome e ha scritto l’opera teatrale La donna delle candele cui è stato attribuito il Premio Nazionale Bolzano.
Il nuovo libro – pubblicato dalla casa editrice Raetia a cura dell’Associazione Sclerosi Multipla Alto Adige – è un’autobiografia che si rivolge in modo particolare alle persone con disabilità, con lo scopo esplicito di spronarle a non cadere nella depressione e a vivere con entusiasmo.
Cavini dice di riuscirci, aiutato da una parte dalla sua passione per il giornalismo, dalla «voglia incessante di scoprire, analizzare, capire il mondo» e dall’altra dal sostegno costante della moglie Silvia che l’ha accompagnato nelle sue avventure.
Rotellando per il mondo non è il libro di una persona con disabilità che viaggia e poi narra ciò che gli è capitato, ma l’opera di “un viaggiatore e scrittore che ha la sclerosi multipla”.
La differenza sta innanzitutto nella capacità vivida di scrittura e poi nella scelta dei contenuti tra cui la malattia si colloca come uno degli elementi sorprendenti e difficili della vita insieme allo stupore di fronte a un tempio millenario della Cambogia o a un amico conosciuto nelle peripezie di un viaggio.
Per capire lo stile di Cavini, basta leggere questo ameno passaggio: «Jaiselmer nel deserto del Tar, sul confine fra India e Pakistan, è una città fatta con l’uncinetto. I suoi edifici sono tutto un sottilissimo merletto che trasmette un fascino indescrivibile. A Jaiselmer una vacca sacra ha diviso me dalla Silvia. In una delle molte strettoie della città, che è tutta un intrico di stretti antichi vicoli, una vacca che cercava un po’ d’ombra improvvisamente si è sdraiata di traverso. Io ero appena passato, la Silvia ancora no. Quella era sacra e quindi intoccabile. Anche i sette-otto abitanti di Jaiselmer che erano rimasti intrappolati si sono guardati bene dal disturbarla. Poi a qualcuno è venuto in mente che tornando indietro e facendo un lungo giro si poteva by-passare la mucca. Io sono rimasto fermo in carrozzina, per fortuna all’ombra insieme alla vacca, e dopo un po’ la Silvia mi ha raggiunto.»
Quanto al tema centrale del viaggio, ad un certo punto del libro l’autore chiarisce la sua vocazione di girovago: «Ogni tanto qualcuno mi dice: “Tu fai un mucchio di viaggi. Bella forza! Tu i soldi li hai!”. Il che è un discorso che lascia, almeno in parte, il tempo che trova. Per viaggiare credo che siano due le cose veramente essenziali: il tempo e la voglia. Uno che lavora non può certamente stare lontano da casa tre mesi, ma comunque un viaggio di venti giorni può essere sempre alla sua portata. Quello che è indispensabile è l’impulso, la necessità di salire in aereo, di mettersi al volante e partire. Se questo manca, tanto vale andare a Jesolo e restarci per tutta la vacanza».
Cavini, che a Jesolo non dev’essersi fermato a lungo – sempre che vi sia mai stato – conclude il suo libro rilanciando entusiasmo e speranza: «Ci siamo fermati ancora a Coburg e a Bad Aibling, poi a Merano. Dopo un bel po’ di sedute di fisioterapia, la mia schiena è tornata in ordine. La gamba destra invece va sempre peggio, ma questo era scontato fin dall’inizio. È una valigia sempre più pesante da portare. Però insisto: ai 150 anni mi piacerebbe proprio arrivare!».
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