I diritti valgono per ciascuno e per tutti: ogniqualvolta vengo chiamata a parlare di diritti umani è con questa affermazione che tento di spiegare il concetto di universalità dei diritti stessi. Un concetto molto semplice e di facile comprensione poiché è in quel tutti che ognuno di noi si identifica ed è semplice capire chi siano i soggetti titolari di questi diritti.
L’universalità però può essere intesa anche nella sua accezione riferita al godimento di questi diritti e allora l’affermazione iniziale può essere così modificata: se non valgono per ciascuno e per tutti, sono dei privilegi.
Quest’ultima frase, che avevo letto in una pubblicazione dell’Università di Padova (Cattedra Diritti Umani, democrazia e pace), mi è sempre frullata nella testa e l’ho sempre considerata molto bella e forte. Trasferita poi sulla mia situazione personale (genitore di un ragazzo con disabilità) e associativa, mi dava sicurezza nelle azioni di rivendicazione, tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità.
Purtroppo, però, le mie sicurezze sono miseramente crollate quando a Rabat, in Marocco, mi sono trovata di fronte centoventi donne, mamme di bambini con disabilità, provenienti da tre quartieri popolari della città: Salè, Yacoub el Mansour e Youssoufia.
Centoventi donne che ogni giorno combattono per la sopravvivenza loro e dei loro figli disabili in una società dove la sensibilizzazione e l’informazione sulle questioni della disabilità sono molto deboli e dove la mancanza di risorse, la distanza geografica, le barriere architettoniche e sociali rendono difficile, se non impossibile, l’accesso ai servizi.
In quell’incontro ho compreso finalmente e crudamente quale fosse la differenza tra diritti e privilegi ovvero tra quello che io posso pagarmi (o che il mio Stato può garantirmi), posso comperarmi e quello che invece dev’essere vero per me e per tutti. Qui sta l’abisso tra i diritti che rispondono al principio di universalità e i privilegi che marcano le differenze.
Ma perché mi trovavo a Rabat con quelle donne?
Tutto era iniziato nel maggio di quest’anno quando mi era stato chiesto di partecipare ad una missione per un progetto finanziato dall’Unione Europea sulla Prevenzione dell’abbandono infantile, sviluppo di un sistema sanitario sostenibile e promozione dell’integrazione socio-educativa di bambini disabili, attuato dall’Ai.Bi. (Amici dei Bambini) e dall’OVCI (Organismo di Volontariato per la Cooperazione)-La Nostra Famiglia, con la Ligue Marocaine pour la Protection de l’Enfance (LMPE) come partner locale.
Un progetto, questo, nato dalla necessità di far fronte al verificarsi di un sempre maggior numero di abbandoni di bambini disabili, soprattutto di età media.
Una delle azioni di prevenzione è stata quella di aprire un servizio di presa in carico multidisciplinare che, grazie ad un’équipe di tredici specialisti locali del settore, offre sedute di fisioterapia, logopedia e attività socio-educative.
Tale servizio è offerto presso il Centro Lalla Meriem, un orfanotrofio che ha beneficiato di un’importante ristrutturazione durante il precedente progetto condotto dall’Ai.Bi. e finanziato dal Ministero degli Esteri italiano, e in altri tre locali che si trovano nei quartieri popolari già citati.
Un altro obiettivo è quello di creare gruppi di auto-aiuto tra i genitori, oltreché stimolare e sensibilizzare l’iniziativa civile sul tema della disabilità.
Ecco quindi la motivazione della richiesta di “cooperazione” con una rappresentante dell’associazionismo italiano, per promuovere e incentivare la creazione di un gruppo ben strutturato – quale potrebbe appunto essere un’associazione – che favorisca la creazione di una rete di solidarietà sociale e che diventi protagonista di iniziative comunitarie, di sensibilizzazione pubblica alla cultura dell’accoglienza, di prevenzione ed educazione sanitaria, di sviluppo di forme di impegno sociale.
Accettata la richiesta di aiuto, sono partita con tre operatori: una psicologa responsabile dei contenuti del progetto e due psicomotricisti con il compito di attivare un percorso formativo intensivo per gli operatori locali.
Tre i momenti principali da me vissuti. Innanzitutto un incontro con i responsabili di quattro associazioni già operanti a Rabat nell’ambito della disabilità (Foyer de vie: bambini con paralisi cerebrale infantile; Pinocchio: bambini con autismo; El Mostqbal, “Il futuro”: formazione professionale; Yousr, “benessere”: bambini con autismo e trisomia 21), per conoscere la realtà associativa locale, le difficoltà e le potenzialità, in modo tale da poter successivamente trasferire le conoscenze.
Successivamente, un incontro con tutti i genitori dei bambini utenti del servizio, finanziato dal progetto per promuovere una conoscenza reciproca, uno scambio di esperienze personali (da genitore a genitore) e un momento di identificazione pubblica.
Infine, un incontro con i rappresentanti dei genitori per definire la creazione di un’associazione.
Tutti questi momenti (in lingua francese e araba locale, darigia) si sono svolti con il supporto in fase preparatoria ed esecutiva delle due cooperanti italiane presenti a Rabat, Elena Magoni dell’AiBi e Alessandra Braghini dell’OVCI-La Nostra Famiglia, persone in gamba, competenti e motivate che hanno consentito il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Cosa ho ricavato dalla settimana passata in Marocco? In generale – e vorrei essere smentita – sono le donne il vero motore di quella società. Sono loro, infatti, che si caricano di tutte le responsabilità inerenti la gestione e l’organizzazione della struttura familiare e della società in senso più largo. Gli uomini, da quello che ho percepito, lavorano, cioè ricercano l’introito di un guadagno e basta. Se poi non c’è nemmeno questo introito, la donna si fa carico anche di questo aspetto.
In caso di nascita di un figlio disabile, l’aggravio cresce perché si può benissimo essere abbandonate dal coniuge senza che questi venga censurato.
Inoltre, se si decide di non abbandonare il figlio nato o diventato disabile, la madre, sia in presenza del partner che in sua assenza, si sobbarca tutte le difficoltà legate a tale scelta, vale a dire l’accettazione, l’accoglienza, le preoccupazioni per il presente e per il futuro, la cura del bambino disabile e di tutto il resto della famiglia.
Insomma, la ricerca e il mantenimento di soluzioni adatte, nel contesto di quelle difficoltà generali accennate all’inizio, come la mancanza di sensibilizzazione e informazione sulle questioni della disabilità, di risorse, la distanza geografica, le barriere architettoniche e sociali che rendono difficile se non impossibile l’accesso ai servizi, ammesso che questi possano esistere.
Per questo l’impatto con il gruppo delle mamme mi ha svuotato di ogni certezza. Un gruppo colorato con i migliori vestiti della festa che mi ha fatto sapere di essere costituito da donne in maggioranza analfabete e appartenenti ai ceti bassi della struttura sociale.
In genere escluse, con le loro famiglie, da ogni attività economica, culturale e di promozione individuale e sociale, eppure lì presenti, ferme, cocciute e desiderose di un “qualcosa” per i loro figli più deboli.
Alcune di loro hanno percorso due ore a piedi, non essendo in grado di spendere qualche dirham (1 euro vale 100 dirham) per il biglietto del pullman, per spostarsi tra un quartiere e l’altro.
Una parentesi: con 5 dirham abbiamo comprato al mercato altrettante brioche. Un centesimo di euro per ogni brioche! Cos’è per noi un centesimo di euro? Cosa significa non avere nemmeno un centesimo di euro da spendere?…
Eppure, tutte in silenzio lì ad ascoltare, nessuna a compiangersi per le condizioni di estremo disagio. Tutte desiderose di capire come affrontare le situazioni che si presentano, mai un lamento o una protesta. Mai un non posso, sempre il mio bambino fa, la mia bambina dice…
Per quell’incontro avevo preparato una serie di fotografie della mia vita familiare, per farmi aiutare da un mezzo tecnologico ad esprimere sentimenti di speranza nel futuro, sulla positività delle reti amicali e familiari.
Davanti a loro e ai loro figli ho pensato: «Sì, forse ho fatto tanto per mio figlio, ma ne ho avuto le possibilità. Loro vorrebbero fare tanto per i loro figli, ma non ne hanno le opportunità…».
Ecco, in quel momento ho capito, sulla loro pelle, la differenza tra diritti e privilegi.
E in modo simile è andata anche con il gruppo di rappresentanti nella riunione utile a perfezionare la formazione di un’associazione di genitori. Tutte mamme spaventate da un futuro a loro sconosciuto, quale quello dell’associazionismo di tutela e di promozione (in fondo si parla di un Paese retto da una monarchia che, pur se illuminata, sempre monarchia è…).
Spaventate, eppur decise ad affrontare il problema del futuro dei loro figli legato alla disabilità. Hanno imparato a comprendere e a vivere meglio il quotidiano dei loro figli e sanno gustare il significato dello stare insieme senza dover nascondere il loro problema.
Vogliono creare un luogo che possa sostenere e continuare le proposte attivate dal progetto e nello stesso tempo diventare le protagoniste del cambiamento che hanno intuito possibile per i loro figli. Un cambiamento che per questi ultimi ha il significato di un riscatto, all’interno di una società dove normalmente la disabilità è riconosciuta come un non valore.
Insieme abbiamo discusso sul nome dell’associazione e quasi immediatamente ne abbiamo trovato uno, La Casa Lahnina, ovvero dove si sperimenta la tenerezza, il calore, l’amore. Le mamme, quindi, hanno sentito la necessità di un’associazione che già dal nome faccia capire come si vive al suo interno e come saranno caratterizzate le sue iniziative: solidarietà, accettazione, ascolto.
Bella lezione per la donna europea, con le sue mille certezze e mille opportunità…
Alla fine ci siamo lasciate con molta nostalgia (specie da parte mia) e con la promessa di tenerci in contatto. Mi avvertiranno quando terranno l’assemblea costitutiva e quando depositeranno il loro atto di registrazione.
Con l’équipe del progetto stiamo pensando anche ad attività pratiche e utili alle mamme: ad esempio una guida sulla gestione a casa del bambino con paralisi cerebrale infantile – sul modello di quella dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) – e alcune riunioni in videoconferenza per far sentire tutta la nostra vicinanza in questi momenti iniziali della vita associativa.
*Presidente del Consiglio Nazionale sulla Disabilità (CND).
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