Dopo i primi giorni di lavoro, la discussione all’interno del Comitato Ad Hoc, riunito a New York per discutere la Convenzione Internazionale sulla disabilità, diventa sempre più serrata e la scelta adottata dal presidente Don MacKay di arrivare alla fine di questa settima sessione ad un testo condiviso – laddove possibile – sta certamente producendo degli effetti importanti.
Il primo è quello che si lasci da parte la discussione sui princìpi o le teorie e si concentrino gli sforzi su un testo concreto, lavorando sulla scrittura dei singoli articoli. Questo, a sua volta, determina un’accelerazione dei lavori “di corridoio”, degli incontri bilaterali e delle decisioni dei governi, poiché nel corso delle discussioni in assemblea, essendo disponibili solo due ore per articolo, le delegazioni sono costrette a definire una propria posizione rispetto ad ogni proposta.
L’ambasciatore MacKay ha attribuito inoltre un ruolo importante alle posizioni dell’International Disability Caucus (IDC), ponendole sullo stesso piano di quelle dei governi. Putroppo, però, non sempre l’IDC riesce a far proprio il sostanziale cambiamento di metodo e di contenuto che questa nuova fase sta determinando. Infatti, avendo il Caucus delegato ogni articolo al coordinamento dell’associazione ad esso più interessata, spesso le posizioni rischiano di appiattirsi poiché gli emendamenti proposti non vengono difesi con la dovuta flessibilità politica di cui un negoziato necessiterebbe.
Articolo 12 e protezione legale
Un esempio di ciò è stata la discussione sull’articolo 12 che vuole garantire la tutela della capacità legale delle persone con disabilità e che ha interessato i lavori della terza giornata del Comitato Ad Hoc.
L’obiettivo dell’inserimento di questo articolo nella Convenzione è quello di favorire ulteriormente il passaggio da un approccio alla disabilità basato su un modello medico (che spesso considera le persone con disabilità – sia essa psicosociale o intellettiva – in modo diverso, privando ad esempio della libertà e della rappresentanza legale diretta un individuo soggetto a trattamento psichiatrico obbligatorio, come accade in molti Paesi del mondo) ad uno basato su un modello che garantisca pari opportunità e la non-discriminazione.
Più precisamente, il tema dell’articolo 12 è legato a due grandi tipologie di persone:
– quelle sottoposte a trattamento psichiatrico;
– quelle che a causa di una disabilità intellettiva non possono rappresentarsi da sole.
Il trattamento psichiatrico
Nel primo di questi casi, il problema fondamentale è strettamente connesso ai trattamenti “ospedalizzanti” obbligatori, una soluzione prevalente ancor oggi e che produce un percorso di “istituzionalizzazione” quasi certo, ricevendo il soggetto una cura indipendente dalla sua volontà e venendogli negata la rappresentanza legale dei propri interessi.
Le soluzioni possibili sono legate al necessario superamento degli stessi trattamenti obbligatori.
In Italia, ad esempio, la Legge 180/78 ha introdotto il principio secondo cui – tranne che in uno stato di crisi, in cui un soggetto può ricevere trattamenti ospedalieri o territoriali – la persona deve poter decidere di ricevere un trattamento psichiatrico, senza però che questo limiti la sua capacità di rappresentarsi legalmente, a meno che non ci si stia muovendo nell’ambito del crimine.
Si tratta di un provvedimento che ha prodotto nel nostro Paese la sostanziale riduzione delle istituzionalizzazioni nei manicomi psichiatrici, visto che dal 1970 ad oggi si calcola che da 40-60.000 internati in ospedali psichiatrici si sia passati ai circa 4-6.000 del 2003.
In Italia le persone sottoposte a trattamento psichiatrico – eccettuato il caso di reati gravi – non vengono interdette, cosa che invece avviene nella maggior parte dei Paesi del mondo. Si calcola infatti che solo una quarantina di nazioni abbiano sposato, o deciso di seguire progressivamente, l’esperienza italiana. In tutte le altre, invece, quando scatta un trattamento psichiatrico obbligatorio, la persona viene privata della rappresentanza legale.
Tornando comunque all’ambito della Convenzione, in merito a questo aspetto la Lega Mondiale dei Sopravvissuti Psichiatrici (World Network of Users and Survivors of Psychiatry – WNUSP) si pronuncia sempre per il rifiuto di qualsiasi intervento che nomini un tutore cui viene delegata la rappresentanza, motivo per cui la stessa Lega non vuole che nel testo venga incluso alcun riferimento a questo tipo di soluzione. Ciò che i suoi rappresentanti chiedono, invece, è che venga contemplata la rappresentanza legale di una persona di fiducia, scelta dallo stesso soggetto interessato. Una sorta, quindi, di amministratore di sostegno, per attuare un parallelo con la realtà italiana.
La disabilità intellettiva
Anche nel caso di coloro che non possono rappresentarsi da soli a causa di una disabilità intellettiva, la questione principale verte intorno al tutore che amministra gli interessi della persona interdetta. Quest’ultimo – quando la famiglia non può più farsi carico dell’assistenza e della cura dell’interessato – viene spesso individuato in un giudice, un sindaco o nel direttore del centro in cui la persona viene internata.
Ed è proprio per questo motivo che in Italia è stata introdotta l’amministrazione di sostegno (Legge 6/2004), istituto che prevede una figura terza rispetto alla famiglia e a un’autorità generica, la quale sia competente in ambito di disabilità, oltreché preparata sui problemi e le esigenze della persona di cui deve curare gli interessi.
La Legge 6/2004 ha infatti «la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente» (articolo 1).
Caratteristiche del trattamento
Un ulteriore elemento di cui tenere conto in un’analisi di questo genere è il tipo di trattamento cui la tutela legale è correlata, poiché per modificare l’approccio interpretativo delle forme di tutoraggio o di rappresentanza legale delegata, è essenziale andare oltre l’idea di istituzionalizzazione del soggetto.
Basarsi infatti su un modello medico della disabilità ha portato come ovvia conseguenza che in molte legislazioni nazionali (e nei tradizionali approcci culturali e tecnici al problema) la condizione di incapacità collegata alla disabilità abbia fatto ricorrere all’istituzionalizzazione. Un approccio basato invece sui diritti umani fa emergere come il ricorso a questa pratica sia ingiustificato anche per le persone con disabilità.
Possiamo infatti considerare questa condizione un motivo sufficiente per rinchiudere una persona in un istituto e privarla così di quella qualità della vita di cui aveva goduto fino a quel momento vivendo in famiglia? In gran parte dei Paesi, d’altro canto, la mancanza di inclusione sociale dei cittadini con disabilità porta alla cancellazione di molti diritti umani che sono ovvi per altre persone e dunque, in tutte queste realtà, i processi di istituzionalizzazione sono ancora molto forti.
Deistituzionalizzazione totale
La promulgazione della Legge 180/78, detta anche Legge Basaglia, ha coinciso in Italia con l’emanazione della legge sull’integrazione scolastica (Legge 517/77), la quale ha consentito alle persone con disabilità di frequentare le classi e le scuole ordinarie.
Tale provvedimento ha determinato il fatto che le persone con disabilità grave vivono ora per la quasi totalità in famiglia, o in strutture a carattere familiare, e che il processo di deistituzionalizzazione dei minori, anche grazie alla Legge 328/2000, oggi è diventato anch’esso praticamente totale.
Si tratta di realtà che confermano come l’accoglienza offerta dalla società alle persone con disabilità produca il rispetto dei loro bisogni, e quindi la tutela dei loro diritti umani.
Quanto più la tutela legale, dunque, sarà legata ad un trattamento rispettoso di questi diritti, tanto più la medesima non avrà una connotazione generica, bensì sarà strettamente connessa alla qualità della vita delle persone.
Il “dopo di noi”
Infine, sempre nel nostro Paese, il movimento del “dopo di noi” (composto da tutte quelle associazioni di famiglie che rivendicano per le persone il diritto alla medesima qualità della vita, nel momento in cui vengono a mancare i loro cari) ha spinto il governo a finanziare dei progetti di accoglienza per persone che non possono rappresentarsi da sole, o con gravi dipendenze assistenziali (handicap grave), i quali hanno come valore aggiunto una “qualità familiare” simile a quella vissuta nel nucleo originario.
La Convenzione
Anche nella Convenzione che si sta elaborando alle Nazioni Unite, dunque, ciò che si vuole introdurre è proprio il legame diretto tra la tutela della capacità legale – da garantire a tutti in egual misura – e il trattamento rispettoso dei diritti umani delle persone con disabilità la cui capacità di rappresentanza legale viene trasferita ad un tutore.
Questo stretto legame, infatti, consentirebbe realmente di superare le forme tradizionali di discriminazione e i pregiudizi subiti – nella fase di “interdizione legale” – da quelle persone che non possono rappresentarsi da sole e non hanno più un familiare che le assista.
Le resistenze dei governi
Ebbene, chiariti i termini e i contenuti della discussione in corso all’interno del Comitato Ad Hoc, ciò che da essa sta emergendo è proprio la resistenza dei rappresentanti di molti governi a superare quel modello medico che vede la persona con disabilità come un soggetto da proteggere “in forma separata” o da considerare pericoloso per sé e per gli altri.
E in merito a questo, purtroppo, la posizione dell’International Disability Caucus, anziché aprire soluzioni di mediazione che consentano di far avanzare la discussione, si attesta sulla difesa di posizioni di principio e ideologiche, le quali troncano il dibattito e il confronto, correndo il rischio che alcune delegazioni governative pregiudichino la posizione di autorevolezza e influenza che l’IDC stesso ha conseguito.
Una situazione, questa, che fa riemergere il problema della mancanza di un’organizzazione internazionale unitaria dei diritti delle persone con disabilità; spesso, infatti, si delega a specifiche associazioni la tutela dei singoli bisogni, perdendo una visione globale e politica della posta in gioco. E quando si toccano temi che stanno a cuore di queste organizzazioni, la discussione si impantana.
In conclusione, è chiaro che l’articolo 12 sarà uno degli argomenti che rimarranno aperti ad una discussione ulteriore nell’ottava sessione del Comitato Ad Hoc (agosto 2006). L’importante, però, è che il movimento italiano sia consapevole delle discussioni che si svolgono in questa sede, che sembra erroneamente tanto lontana dai problemi concreti. Non possiamo dimenticare, infatti, che è stato proprio un documento dell’ONU, le Regole Standard, ad avviare la discussione mondiale che ha determinato il passaggio da un modello medico della disabilità ad un modello sociale basato sui diritti umani, di cui sopra si è ampiamente detto.
*Advisor (consigliere) della Delegazione Ufficiale del Governo Italiano, in qualità di rappresentante del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).