La Direttiva 2000/78/CE, emanata dal Consiglio dell’Unione Europea nel novembre del 2000, riguarda la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e stabilisce per tutti gli Stati Membri un quadro generale di attività e azioni da intraprendere relativamente a questo ambito.
«La presente Direttiva – recita l’articolo 1 della norma – mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento [grassetti nostri, N.d.R.]».
In particolare, inoltre, per quanto riguarda la disabilità, l’articolo 5 della medesima Direttiva prevede che «per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa – continua la norma – che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione – conclude il legislatore – non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
Ad oltre cinque anni dall’emanazione del provvedimento, la Corte Europea di Giustizia, con una recente sentenza, ha stabilito che la Germania non è stata ancora in grado di creare l’adeguato contesto per una reale parità di trattamento, che dev’essere assolutamente indipendente dalle condizioni esposte dal sopracitato articolo 1.
Infatti, come previsto dal diritto comunitario che regola questo tipo di processi legislativi, ogni direttiva emanata in ambito europeo dev’essere trasposta nell’ambito della legislazione nazionale entro un determinato periodo di tempo – in questo caso entro il dicembre del 2003 – con la possibilità, per altro, di richiedere una proroga di tre anni supplementari, utili ad «attuare le disposizioni relative alle discriminazioni basate sull’età o sull’handicap» (articolo 18).
«In tal caso – continua la norma – essi [gli Stati Membri] informano immediatamente la Commissione. Gli Stati Membri che decidono di avvalersi di tale periodo supplementare presentano ogni anno una relazione alla Commissione sulle misure adottate per combattere le discriminazioni basate sull’età e l’handicap e sui progressi realizzati in vista dell’attuazione della Direttiva». E da quanto si può evnicere dai documenti processuali pubblicati nel sito dell’Unione Europea, la Germania ha chiesto sì la proroga di tre anni, ma solo per quanto riguarda le discriminazioni basate sull’età.
Nel caso in cui, dunque, la trasposizione non avvenga nei modi e nei tempi richiesti, la stessa Commissione Europea può intraprendere una serie di “procedure per violazione”, di tipo preliminare (in base all’articolo 226 del Trattato di istituzione della Comunità), mirate a risolvere la situazione nel più breve tempo possibile, che possono basarsi sulla non comunicazione da parte dello Stato delle misure intraprese, sulla non conformità delle stesse o su entrambe le cose.
Qualora però tali azioni non siano ancora sufficienti per portare lo Stato Membro coinvolto ad adeguare la propria legislazione alla Direttiva, a quel punto la Commissione può chiedere alla Corte Europea di Giustizia – come è avvenuto appunto per la Germania rispetto alla 2000/78/CE – un pronunciamento definitivo che in base all’articolo 228 del Trattato, può prevedere anche l’imposizione di sanzioni economiche.
La Germania, quindi, come concludono le carte processuali, avendo richiesto la proroga di tre anni solo per uno specifico ambito (l’età), è stata giudicata inadempiente (vista la scadenza del dicembre 2003), rispetto alle disposizioni della Direttiva, poiché non si è conformata ad essa – o non ha provveduto a comunicarlo correttamente – per le misure utili a combattere le discriminazioni basate sulla religione, le convenzioni personali, gli handicap e le tendenze sessuali.
Ed oggi, dopo l’ulteriore monito ricevuto dalla Corte di Giustizia, dovrà assolutamente compiere i passi necessari per soddisfare quanto previsto dalla Direttiva Comunitaria.
(Crizia Narduzzo)
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