L’educazione contro il declino*

di Raffaele Iosa
Si intitola "Più che una presentazione, una provocazione. Poesia è pedagogia?" ed introduce "L'educazione contro il declino. Frammenti di ottimismo sulla scuola e dintorni", opera di Raffaele Iosa, personaggio dalla lunga storia e dalle grandi passioni

Alberto Alberti è, assieme a Sergio Neri, il mio padre pedagogico. Ha segnato la mia esperienza umana e professionale fin da giovane maestro.Raffaele Iosa A lui devo affetto e riconoscenza.
In un suo libro, una biografia in forma di intervista [Alberto Alberti, Paolo Cardoni, Scuola politica. Pedagogia nella seconda metà del Novecento. Un colloquio tra storia e autobiografia, Roma, Valore Scuola, 2005, N.d.R.], con mia grande sorpresa, si riferisce a me con queste parole:
«Nell’attuale battaglia delle idee, gli interventi degli ispettori non sono marginali. E addirittura ci sono stati e ci sono casi di sovraesposizione. Uno per tutti, quello di Raffaele Iosa che per un certo momento sembrò (e sembra ancora a molti) maturo per una direzione generale, ma che ad altri appare troppo generoso e schierato per occupare un posto di vertice. Confesso che penso spesso a Raffaele con una sorta di affettuosa sofferenza: come se mi trovassi davanti alla mia immagine giovanile, candida e disarmata, pronta a slanci e passioni in un mondo che era freddo, arcigno e che, in ogni caso, sapeva dosare le emozioni. E mi recito i versi del poeta: “Così pronto di cuore, lo ammazzeranno un giorno in qualche strada”» (Alberti e Cardoni, 2005, p. 105).

Sono un ispettore scolastico nato nel 1952, figlio proletario di un tranviere, nato alla coscienza civile nel Sessantotto e a quella pedagogica con Lettera a una professoressa di Don Milani.
Sono, senza rimpianti, figlio della generazione del secondo dopoguerra. Ho fatto per dieci anni il maestro in un quartiere operaio di Marghera, il di­rettore didattico per otto e poi l’ispettore. Tutti concorsi guadagnati senza alcuna raccomandazione: sono di sinistra. La mia è una storia come tante della mia generazione: scuola, didattica e politica.

Ho fatto il sindacalista della CGIL Scuola, poi l’ispettore a Rovigo, Bologna, Ravenna e in Ministero. Soprattutto tra il 1996 e il 2000 ho avuto la fortuna di collaborare con l’ex ministro Luigi Berlinguer, nella difficile epoca del governo dell’Ulivo.
In quell’epoca sono stato protagonista dell’avventura dell’autonomia scolastica, al cui Regolamento ho lavorato. Ho poi coordinato la politica nazionale dell’integrazione scolastica degli alunni disabili, quando Sergio Neri nel 1998 si è ammalato e nel 2000 ci ha lasciati, affidandomi una difficile eredità.
Ma non sono stato in quegli anni un freddo e arcigno carrierista: ho criticato apertamente la Commissione sui curricoli della scuola di base per la Legge 30/2000 e ho difeso l’autonomia delle scuole quando si è profilata la riforma del Ministero dell’Istruzione che riportava in auge la solita burocrazia, anche se travestita. Insomma, non ho taciuto se credevo in qualche cosa.

Nonostante fossi esplicitamente schierato e si dicesse che in quegli anni io avessi un forte appeal popolare e politico, sono andato a Roma da ispettore e da ispettore sono tornato a casa mia, dopo lo spoil system del 2001, quando vinse la destra.
Nei miei anni romani mi sono sempre pagato viaggi e soggiorni. È stata un’avventura che mi volevo godere libero. Non ho mai chiesto a nessuno di fare carriera. Per questo, quando De Mauro nominò i nuovi direttori generali re­gionali, in molti si sorpresero della mia esclusione, ma non io. Anzi, a quattro anni di distanza, vedo quella presunta bocciatura come una fortuna. Sarò passionale, ma non ingenuo: meglio generoso che invischiato nei vertici arcigni di cui parla Alberto Alberti. Non faceva per me. Quindi nessun rimpianto.
Penso invece che chi ama davvero l’educazione deve naturaliter essere candido, disarmato e caldo. Ce lo impone il tema stesso, che lavorando nella dimensione “futuro” (perché si educa, altrimenti?) non può che mescolare scienza con profezia, ragione con sogno, realtà con utopia. Sapendo anche rischiare.
Quindi, non ho fatto alcuna malattia perché la sinistra non mi ha fatto fare carriera. Anche a sinistra ci sono storie fredde e arcigne. Non cederei per nulla al mondo l’onestà di una ricerca intellettuale sincera.
Eppure questi ultimi quattro anni sono stati davvero di “affet­tuosa sofferenza”: non sono stati anni di confronto aperto, di rispetto delle diverse posizioni sulla scuola e sull’educazione. Sono stati anni senza dialogo.
Anni nei quali pedagoghi ombrosi non ammettevano dialettica alcuna sulle proposte che offrivano al prìncipe di turno. Anni di leggi imposte più che di innovazione condivisa. Anni di argomenti a volte fatui, sui quali non veniva neppure voglia di discutere. Anni, per me, soprattutto di declino non solo e non tanto della scuola, ma di tutto il nostro panorama sociale, umano, culturale, economico.
Ho visto non solo una crisi della scuola sotto una destra confusa, oscillante tra neodarwinismo e conservatorismo compassionevole, ma anche i balbettii di una sinistra politica e culturale più capace di dire «no» che di riproporsi con un suo sogno. Forse oggi è più difficile sognare per tutti, ma questo non motiva un uso distorto della solita “complessità” come giustificazione per scusare l’incapacità di visioni che vadano oltre l’ultima cronaca elettorale.
La crisi dell’educazione, del civismo, delle responsabilità adulte va oltre la cronaca politica.

Copertina del libro di Raffaele IosaLa mia sofferenza sta qui. Non nel fatto di essere passato da 200.000 persone incontrate ogni anno tra il 1996 e il 2000 al quasi nessuno del 2002, né nella grigia scoperta che chi ti era amico anni prima oggi parla male di te (quando si perde si diventa più cattivi, non più solidali), ma nella percezione di una fase collettiva di vuoto e di stanchezza che rischia di travolgere l’evoluzione civile degli uomini e delle donne di buona volontà che pensano all’educazione, condannando loro alla nostalgia e all’afasia.
Io alla nostalgia ho cercato di reagire studiando, prima che parlando. Mi sono reimmerso nelle scuole, tra gli insegnanti reali e nella vita quotidiana, ricevendone in cambio forza e speranza dai tanti che sono ancora alla ricerca di scopi seri.
Ho avuto la fortuna di scoprire una mia nuova Barbiana in un orfanotrofio bielorusso per il quale lavoro al fine di liberare i bambini da un destino già segnato, scoprendo da lì la banalità di molti dei nostri conflitti.
Qualcuno ha interpretato certi miei lunghi periodi di silenzio come distacco e disinteresse, qualcun altro perfino cinicamente come attesa di saltare il fosso. Era vero esattamente il contrario: bisogna essere più seri, profondi e creativi quando ti viene addosso il declino e la crisi.

Mi considero un uomo ragionevole, né particolarmente rivo­luzionario né utopista. L’educazione è il mio mestiere e fin dal 1968 credo che la scuola giusta sia quella di Don Milani, quella nella quale tutti gli esseri umani nascono eguali, ma se poi crescendo non lo sono è colpa nostra e tocca a noi rimediare.
Credo che la scuola e l’educazione dei bambini siano in crisi non perché ci sia un governo o un altro, ma perché le nostre società opulente hanno smesso di pensare al futuro, si sono chiuse in un timoroso presente da difendere contro nuovi fantasmi, nuovi nemici, hanno smesso di fare figli e di amare l’educazione.
Bambini come clienti, bambini come cloni, adulti smarriti tra spot e nuovi santoni. Intanto bussano ai nostri confini milioni di poveracci a cui noi leviamo, con i nostri game boy e cellulari, una speranza di dignità della vita.

Questo libro contiene un percorso di ricerca particolare, che mi ha accompagnato in questi anni, che ho lievitato e meditato finalmente con una lentezza ben maggiore dei tempi passati.
Sono frammenti mai pubblicati in modo sistematico, un buon numero del tutto inediti, altri apparsi in internet su vari siti, pro­vocando piacevoli riscontri, copiature e smembramenti in altri siti. Molti mi hanno chiesto di poterli avere finalmente tutti insieme. Di quelli già pubblicati in internet ho inserito le date di uscita e alcuni commenti per ricontestualizzarli, tutti gli altri sono stati apposita­mente scritti per questo libro.
Ma non è questo il punto. Il fatto è che, rileggendoli e met­tendoli a posto nel mio computer, mi sono reso conto che, pur nella loro forma di brevi frammenti, costituiscono un corpus di idee che esprimono una specie di «strutturale pedagogia dell’ottimismo». Per questo li riordino qui, augurandomi che siano utili a chi, come me, intende contrastare il declino sociale e crede che l’educazione possa migliorare il mondo.
Rileggendoli, mi sono anche accorto di una cifra stilistica che non riuscivo a vedere prima. La passione, che rivendico come una dote della mente e non del cuore, mi rende facile produrre metafore, linguaggi, emozioni che sembrano più figli della poetica che della scienza. Non me ne vergogno affatto e considero anzi questo linguaggio come una chiave che può meglio aprire scenari, riflessioni e proposte.
I miei maestri non sono solamente Freud, Marx, Comenio e Dewey, ma anche Pascoli, Pasolini e Roberto Benigni. D’altra parte oggi sono così banali le molte ripetitive accademie di slogan precotti ed è cosi in crisi la ricerca pedagogica seria, da poter offrire una divergenza di stile anche come rottura di schemi aridi e asettici. Per sperare in un mondo migliore anche un’emozione ci aiuta.

Ho diviso i diversi frammenti in cicli, riproducendo quelli che avevo pubblicato in internet con alcune precisazioni per contestua­lizzarli.
Il primo ciclo, quello del declino, riguarda quei frammenti di critica al presente che mi sono costati i maggiori scontri, cercando però sempre di andare oltre le sole polemiche momentanee.
Il secon­do, quello dell’eremo riflessivo, è la parte più intima e silenziosa della mia ricerca sull’educazione contro il declino.
Il terzo, quello della nuova Barbiana, racconta il mio incontro con la globalizzazione e con l’orfanotrofio bielorusso, una delle tante Barbiane che vi sono al mondo, esempio dello sguardo ormai mondiale che il nostro pensiero educativo dovrà assumere.
E infine il ciclo della speranza, gli ultimi frammenti, nei quali dialogo con un futuro fantasioso «Gadulivo» (cioè il centrosinistra così da me un po’ ironicamente e affettuosamente chiamato per tutto il libro), come “scusa” per avere un interlocutore, sgangherato o meno che sia.
Lì immagino proposte che vadano oltre la contingenza, che corre il rischio di essere ancora l’italica confusione di un Paese che non riesce mai a cambiare davvero, nonostante stia correndo verso baratri patetici. Questi ultimi brani rappresentano una sorta di programma senza pretese di esaustività, con frammenti di poesia e pedagogia, che possono servire. Io credo nella Politica, senza di questa non c’è umanità.

Non mi aspetto speciali carriere personali nei prossimi anni, né mi auguro di finire ammazzato per strada. Sono felicemente nonno e tra un po’ padre adottivo. Scrivo quindi senza un interesse privato. Vorrei solamente contribuire affinché ritornasse un’Italia pedagogica della parola libera, del confronto fertile e della dialettica rumorosa. Come non è stato in questi anni, tra assordanti silenzi e squilli di trombe presuntuose.
Per un’Italia più pedagogica ho moltissime aspettative comu­nitarie, sociali e politiche e nessuna intenzione di abbandonare il campo dell’impegno, stando assieme a chi desidera che il nostro Paese migliori ripartendo dall’educazione dei nostri figli. Lavoro per una politica coraggiosamente più etica.
Mi sento vicino alle molte altre persone in cerca di senso e di valori forti in cui credere. Questo libro è scritto per condividere con loro questa speranza.

Sono lieto che Dario Ianes abbia accettato di pubblicarlo per la sua Erickson. A lui mi lega un comune impegno sull’integrazione. A lui devo l’occasione che mi dà sempre di aprire i convegni biennali Erickson di Rimini La qualità dell’integrazione scolastica, dove ogni volta sembra chiedermi di fare da «icona delle emozioni forti». Ruolo che gioco volentieri.
Ringrazio qui Massimo Nutini, grande tecnico dell’ANCI in fatto di scuola e Aladino Tognon, straordinario dirigente scolastico, perché in questi strani anni non è mai passato un giorno senza che ci sentissimo per telefono. Assieme abbiamo vissuto l’avventura della Marcia di Barbiana, fratelli ormai. Loro sono stati i miei lettori in anteprima, abitualmente critici e spesso affettuosamente pedanti. Siamo cresciuti insieme.
Ma questo libro è dedicato a una sola persona, a mia moglie Rita, che spesso mi fa da inconsapevole musa con i suoi racconti di maestra di scuola dell’infanzia e che, in un mio momento diffìcile, era decisa a non andare più dalla parrucchiera, in ferie, al ristorante o a comprarsi vestiti per ridare a me libertà di parola. Non è stato, il suo, atto di generosità, ma amore e basta. Che qualche volta penso di non meritarmi così tanto.

*Presentazione del libro L’educazione contro il declino. Frammenti di ottimismo sulla scuola e dintorni, Trento, Erickson, 2006.
Per gentile concessione dell’editore.
I grassetti inseriti nel testo sono a cura della nostra redazione.

Raffaele Iosa, veneziano di origine e giovinezza, 54 anni, è ispettore tecnico in Emilia Romagna, dopo essere stato maestro elementare a Marghera, sindacalista della CGIL, direttore didattico a Venezia e ispettore ministeriale a Roma.
Qui ha lavorato alla riforma della scuola elementare, è stato componente dello staff che inventato il Regolamento dell’autonomia e ha coordinato l’Osservatorio Nazionale Handicap dopo Sergio Neri.
Tra le sue varie pubblicazioni, ama ricordare in particolare
La scuola mite e Fare autonomia.
(S.B.)
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