Vorrei raccontare la mia esperienza diretta di alcuni anni su un argomento delicato come quello dell’assistenza domiciliare erogata dai Comuni alle persone anziane e a quelle con disabilità, in parte o per nulla autosufficienti, e in particolare il servizio prestato dal Comune dove abito, Buia, in Friuli Venezia Giulia.
Ho trent’anni e sono affetto da una distrofia muscolare che mi rende praticamente immobile e fisicamente dipendente dagli altri. Nel settembre del 2001 mia madre si ammalò e non poté più accudirmi autonomamente, specie nelle mansioni più pesanti. Così è incominciata la mia esperienza con il servizio di assistenza domiciliare.
Pensati per gli anziani
Come ben sanno tutti quelli che operano in questi àmbiti, la maggior parte dei servizi di assistenza domiciliare dei Comuni non sono pensati e creati per interventi su persone che hanno bisogno di un’assistenza particolare e mirata – come i portatori di handicap gravi – ma per pazienti anziani in parte autosufficienti o comunque infermi solo a causa dell’età avanzata. Non è quindi richiesta agli assistenti una competenza specifica sulle invalidità gravi né è previsto alcun tipo di formazione supplementare.
Non intendo qui mettere in dubbio la preparazione di molti assistenti che hanno fatto esperienza anche in reparti ospedalieri o in case di riposo, ma nel trattare con persone affette da gravi malattie invalidanti, servono conoscenze specifiche dal punto di vista anatomico e fisico e un’adeguata forza muscolare per gestire il paziente in sicurezza, senza il timore di procurargli, o procurarsi, danni.
Questi pazienti, infatti, presentano ciascuno modalità di spostamento e di postura differenti, precisamente scandite e consolidate, che rendono necessario, anche per l’assistente più preparato, un certo periodo di apprendimento.
In questi casi si può affermare che sia lo stesso assistito ad addestrare il proprio assistente il quale, armato della dovuta pazienza e modestia, adatta le sue capacità professionali alle esigenze specifiche dell’utente.
Se arriva il turnover
La preparazione e l’esperienza personale di alcuni assistenti è tale da permettere loro di riuscire ad affrontare e gestire in maniera ottimale situazioni delicate senza conoscenze specifiche, ma si tratta di poche eccezioni. Il problema si pone invece quando queste eccezioni vengono a mancare, ad esempio nei periodi di riposo o a causa del turnover.
Quando si eroga un servizio di assistenza, è obbligatorio garantirne con continuità la qualità e la sicurezza, a prescindere dal variare degli operatori. Se gli assistenti cambiano continuamente, l’assistito ne risente in termini di qualità della vita e di sicurezza personale.
Soprattutto nelle disabilità gravi sarebbe buona norma avere un numero ristretto di assistenti con una certa dimestichezza – ad esempio uno prevalente e uno o due sostituti – e che qualsiasi nuovo operatore riceva “sul campo” le consegne sulle modalità di assistenza, da parte del collega già esperto, coadiuvandolo per un breve periodo.
Fatta salva la premessa, inizialmente il servizio nei miei confronti era qualitativamente buono, per merito della professionalità e dell’esperienza delle prime due assistenti prevalenti (la prima mi ha seguito per quattro mesi, la seconda molto più tempo), anche se quantitativamente insufficiente, in quanto garantiva solo l’igiene personale e l’alzata dal letto al mattino, per un totale di trenta-quaranta minuti al giorno. Per una persona non autosufficiente che abbisogna di assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro è davvero poco.
Personale non all’altezza
Nei primi due anni anche le sostitute riuscivano a gestirmi discretamente, ma i problemi sono insorti successivamente, quando la qualità delle assistenti “occasionali” è cominciata a peggiorare notevolmente.
Non ho molto da eccepire a queste sostitute né per la cura della mia igiene personale né per l’impegno profuso e nemmeno per la cordialità dei rapporti, ma per quanto riguarda la fiducia nelle proprie forze e la capacità di garantire in sicurezza la completa gestione dell’assistito, lasciano molto a desiderare.
Molte di loro, ad esempio, anche dopo alcuni giorni, dimostrano timore nel compiere le più semplici manovre sulla mia persona oppure non sono fisicamente in grado di sollevarmi dal letto e di posizionarmi sulla carrozzina, che per me rappresenta la mansione essenziale (il mio peso, per altro, non supera i 45 chili e non sono più alto di 165 centimetri).
A mio parere le cause di questo cambiamento sono da ricercare principalmente nell’eccessivo utilizzo di operatori reclutati attraverso le cooperative di servizi di assistenza che spesso usano criteri inadeguati, poca perizia e scarso controllo nella scelta del personale. Personale che poi viene invariabilmente confermato dai responsabili del servizio sociale anche quando dimostra di non essere all’altezza di svolgere il suo compito.
Non voglio con questo demonizzare il ricorso al personale assunto dalle cooperative di servizi, che può essere anche professionalmente valido, ma solo porre l’attenzione sulla scarsa efficienza dei metodi di valutazione dei candidati, che andrebbero migliorati e raffinati, e sulle conferme, a volte affrettate, dei responsabili del servizio sociale che comprensibilmente si fidano delle valutazioni altrui.
La prova dell’insufficienza e delle carenze nella qualità del servizio approntato dai Comuni è data, a mio parere, dalla sempre più diffusa scelta delle famiglie di ricorrere a badanti straniere. Queste, in cambio di uno stipendio abbordabile, garantiscono un’assistenza pressoché continuativa e spesso, grazie alla loro buona volontà, riescono a dare ai familiari la sensazione di aver lasciato i propri cari in buone mani.
Non per caso, ma per certezza
Tornando al mio caso, devo ammettere che l’assistente sociale, coordinatrice del servizio di assistenza domiciliare, ha sempre cercato, nei limiti del possibile, di venire incontro alle mie esigenze, assegnandomi operatori che avevano già dimestichezza con la mia situazione. Ma non si può sempre sperare nella disponibilità di qualche buon funzionario pubblico. Le persone in difficoltà non hanno bisogno di colpi di fortuna, ma di certezze!
Alcuni problemi riguardano anche il servizio infermieristico domiciliare, gestito direttamente dall’azienda sanitaria, le cui operatrici dovrebbero lavorare in maniera integrata con le assistenti domiciliari. Nel mio caso, però, questa “integrazione” si è dimostrata solo un espediente per togliermi un servizio utile.
Fino a due anni fa, infatti, l’infermiera veniva a farmi visita da una a tre volte la settimana per medicarmi una piccola ferita cronica alla schiena. Era anche un modo, questo, per tenere sotto controllo la mia salute, così da prevenire sul nascere qualsiasi tipo di disturbo cui un disabile grave può andare incontro.
Ora l’infermiera non viene più: il compito di controllo è stato affidato all’assistente domiciliare che, se notasse qualche cambiamento, dovrebbe segnalarlo all’infermiera stessa la quale, a sua volta, dovrebbe intervenire.
Il problema, però, è che la figura dell’assistente domiciliare si trova costretta ad assumere responsabilità che non le competono. Infatti, non essendo tenuta a possedere la preparazione sanitaria adeguata a valutare appropriatamente il sintomo del paziente, può succedere che le infermiere, per non “sprecare del tempo” intervenendo dov’è ritenuto superfluo, rischino di “scartare” i casi più seri, con possibili conseguenze dannose. In questo modo il servizio peggiora e i “risparmi” che si volevano ottenere svaniscono.
Il “compilatore di impegnative”
In questa ottica preventiva anche il ruolo del medico di base è sempre meno rilevante, ormai relegato a “mero compilatore di impegnative”, sempre meno disponibile a seguire i pazienti a domicilio e sempre meno coinvolto nei piani delle aziende sanitarie.
Insomma, la filosofia dell’intervento sanitario sul territorio, tanto sbandierata dai politici di tutti gli schieramenti e dai funzionari delle aziende sanitarie, che praticata nella giusta maniera farebbe risparmiare parecchie risorse nonché migliorare l’assistenza, nella realtà è continuamente disattesa.
Ad esempio, agli operatori di qualsiasi grado – ultimi anelli della catena – viene fatto sottilmente intendere di cercare di risparmiare il più possibile nell’uso dei materiali, di ridurre al minimo il numero e i tempi degli interventi e di delegare alle risorse private degli utenti il carico maggiore dell’assistenza.
Suo malgrado, la maggior parte degli operatori si adegua a questa prassi autolesionista e professionalmente umiliante, ponendo gli interessi economici delle istituzioni di cui fanno parte davanti ai bisogni degli utenti.
Chi si riconosce?
Per finire – e restando solo alla gestione del servizio sociale del mio Distretto di San Daniele – credo che negli ultimi anni vi siano state parecchie lacune e soprattutto l’assenza di una programmazione adeguata degli interventi.
Spesso si sono cercate soluzioni palliative per risolvere le emergenze, anziché comprendere le effettive esigenze degli utenti e intervenire prima che si trasformassero in problemi maggiori. È sempre il vecchio concetto: «prevenire è meglio che curare»!
Ma queste sono solo valutazioni di un semplice utente del servizio sanitario che, suo malgrado, è costretto a ricorrere continuamente agli altri per la propria sopravvivenza e quindi, forse, qualcosa ne capisce. Spero quindi che possano essere di stimolo per migliorare i servizi di assistenza esistenti, non solo sul mio territorio, ma ovunque i lettori riconoscessero una situazione simile.
*Testo tratto dal n. 158 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione di tale testata.
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