Certi incontri al Palazzo dell’ONU di New York costituiscono senz’altro esperienze altrettanto importanti del lavoro fondamentale che il Comitato Ad Hoc sta svolgendo in questi giorni per arrivare a definire la prima Convenzione Internazionale per la Tutela dei Diritti delle Persone con Disabilità.
Culture differenti, percorsi di vita di grande ricchezza, difficoltà che talora appaiono insormontabili. E tra questi incontri, particolarmente significativo ci è sembrato quello con Djikine Hatouma Gakou, presidente dell’AMAFH (Associazione Maliana delle Donne con Disabilità) e dell’UMAFH (Unione Maliana delle Associazioni e dei Comitati delle Donne con Disabilità), oltre che vicepresidente della FEMAFH (Federazione Maliana delle Associazioni di Persone con Disabilità) e della FOAPH (Federazione dell’Africa Occidentale delle Associazioni di Persone con Disabilità).
L’abbiamo intervistata per Superando.it.
Puoi raccontarci la storia della tua vita?
«Sono nata ad Agoumbou, una città del Mali, Paese dell’Africa Occidentale, da padre professore e madre analfabeta. I miei genitori hanno divorziato ed io sono stata affidata alla cure di mia madre.
Purtroppo, a causa della mancanza di cultura e di informazione di mia madre, non sono stata vaccinata e ho contratto la tubercolosi alla spina dorsale a 11 anni, restando paralizzata agli arti inferiori. Ho frequentato la scuola primaria e quando sono stata colpita dalla malattia, ho dovuto interrompere gli studi per quattro anni. Mio padre mi ha sostenuto e così ho potuto continuare a studiare, conseguendo il diploma in Scienze Economiche.
Ho lavorato per dieci anni e fino a qualche mese fa per un progetto di Handicap International, finalizzato alla costituzione di un centro per la costruzione di ausilii ortopedici nel mio Paese, dove non vi erano centri specializzati».
Com’è nato il tuo impegno per la tutela dei diritti delle persone con disabilità?
«Nel 1993 sono stata invitata a presentare una relazione ad un convegno per l’infanzia e lì ho assistito all’intervento del presidente di un’associazione di ciechi, anch’egli cieco. Sono rimasta molto colpita dall’impegno per la tutela dei diritti delle persone con disabilità e ho deciso di impegnarmi per le donne con disabilità. Avevo vent’anni e la fortuna di essere aiutata da mio padre, che economicamente era in grado di farlo.
Ho deciso così di costituire la prima associazione di donne con disabilità nel 1994 perché erano “le più escluse tra le escluse”, anche nelle associazioni cosiddette “miste”, comprendenti cioè tutte le persone con disabilità. I pregiudizi sociali verso le donne con disabilità nel mio Paese sono forti. Non possiamo sposarci perché siamo considerate “persone che portano sfortuna”. La famiglia dell’uomo non prende nemmeno in considerazione la possibilità che noi possiamo essere candidabili al matrimonio. Inoltre spesso veniamo violentate, perché avere un rapporto sessuale con una donna con disabilità è considerato invece un atto che porta fortuna all’uomo che lo realizza, che in tal modo avrebbe l’opportunità di arrivare a posizioni importanti… Nemmeno la famiglia di provenienza frequentemente può occuparsi di una donna con disabilità perché quest’ultima viene ritenuta come “un peso”. E così, non potendo lavorare, spesso, per vivere, si è costrette a mendicare o a prostituirsi.
Siamo insomma socialmente ed economicamente povere. Non abbiamo la possibilità di accedere ai diritti in eguaglianza di opportunità. L’80% delle donne con disabilità nel Mali sono analfabete e il 20% che studia non ha lavoro, perché le nostre competenze non vengono riconosciute.
Le donne con disabilità vivono quindi una doppia discriminazione, come donne e come persone con disabilità. Per tutto ciò ho voluto creare un’associazione di donne con disabilità».
Qual è stata la tua strategia d’intervento?
«Oltre a creare un’associazione di donne, ho lavorato per costituire in tutte le associazioni “miste” un comitato di donne. Ora l’Unione UMHAF raccoglie circa 2.000 iscritte, con una presenza in tutte le province del Mali.
Per noi era molto difficile incontrarci: nel nostro Paese, infatti, l’accessibilità agli edifici, ai trasporti, ai luoghi pubblici è molto problematica. Esiste sì una legge sugli edifice pubblici, ma non è applicata. E così, per riunirci, dovevamo chiedere ai nostril genitori di sostenerci.
Poi Handicap International ci ha fornito dei “tricicli” che ci hanno consentito di spostarci in autonomia. Ogni mese ci incontravamo ed io cercavo di andare nelle case dove vivevano donne con disabilità, per farle uscire e far comprendere alla famiglie che esse potevano avere un’opportunità diversa nella loro vita. Spesso le famiglie ci chiudevano la porta in faccia, negando che vi fossero donne con disabilità al loro interno…
Lavoriamo infine anche con le madri di persone con disabilità mentale che fanno parte anch’esse dell’associazione».
E ora sei vicepresidente della Federazione Nazionale…
«Oggi il movimento associativo nel Mali è forte e la nostra voce è ascoltata. In più mi sono impegnata anche a livello internazionale e la Federazione dell’Africa Occidentale delle Associazioni di Persone con Disabilità (FOAPH) – che raccoglie sedici Paesi – ha associazioni di donne con disabilità in una decina di essi.
Si è reso necessario anche un complesso lavoro di raccolta fondi per sostenere queste associazioni di donne, che è stato riconosciuto con la mia vicepresidenza nel FOAPH. Ora stiamo lavorando per costituire una rete africana di associazioni di donne con disabilità».
Qual è il rapporto con le associazioni che lottano per i diritti delle donne?
«Siamo diventate componenti del Coordinamento delle Associazioni di Donne Maliane: all’inizio non sapevano niente della nostra condizione, ma sono molto aperte e disponibili. Abbiamo chiesto ad esempio di integrare i nostri problemi nelle loro attività e ho visto una predisposizione positiva.
Posso dire quindi che le donne con disabilità stiano effettivamente facendo passi in avanti nel nostro Paese, anche se con molte difficoltà».
Cosa ne pensi della Decade Africana per le persone con disabilità, dichiarata dall’ONU tra il 2000 e il 2009?
«Sono stata di recente a Città del Capo, in Sudafrica, dove ha sede il Segretariato della Decade e vi ho presentato un progetto per le donne che è stato appoggiato. Purtroppo la Decade finirà nel 2009 e sono ancora tante le cose da ottenere e da fare. Spero quindi che essa venga rinnovata, per poter agire con un lasso di tempo più ampio a disposizione».
Tu vivi in un Paese dove l’85% della popolazione è islamico: pensi che questo ti aiuti nel tuo lavoro di sostegno dei diritti delle donne con disabilità?
«Bisogna fare una distinzione: il mio Paese è prevalentemente di religione islamica, ma non fondamentalista. Nella mia esperienza la religione islamica gioca un ruolo positivo. Il nostro grande problema, invece, è la mancanza di risorse».
Nel Mali vi sono leggi che tutelano i diritti delle persone con disabilità?
«Non abbiamo una legislazione sufficiente a difendere i nostri diritti. La Federazione FEMAFH ha scritto una proposta di legge che però non è stata adottata. Se la Convenzione ONU verrà ratificata dal nostro governo, spero che il nostro progetto possa andare avanti».
Quale messaggio vuoi inviare alle donne con disabilità italiane che vivono analoghe condizioni di multidiscriminazioni?
«Il messaggio che invio è quello di lottare per garantire che la condizione delle donne con disabilità sia uguale a quella degli uomini. Bisogna avere la consapevolezza che darsi la mano e mettersi insieme è la strada più efficace per migliorare la nostra condizione di vita, per essere riconosciute come persone e cittadine a pieno titolo. Dobbiamo avere il pieno riconoscimento che siamo capaci di procreare, di avere una nostra famiglia, di essere autonome e di giocare il ruolo che ci compete nel nostro Paese. Insomma: Donne con Disabilità del Mondo, UNIAMOCI!».
*Advisor (consigliere) della Delegazione Ufficiale del Governo Italiano, in qualità di rappresentante del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).