Con questo servizio vogliamo affrontare un argomento delicato e complesso, come quello del cosiddetto “diritto a non nascere” e il nostro intento è soprattutto quello di aprire un dibattito, ponendo alcuni quesiti fondamentali e cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di interlocutori.
Alcune domande
Una donna incinta esprime il desiderio di abortire in caso di malformazioni del feto. Il medico non la avverte che la sua gravidanza è a rischio. Nasce così un figlio con disabilità. Ecco la situazione paradigmatica che siamo chiamati ad analizzare.
In una società che ammette l’aborto, la donna ha subìto un danno? Il medico, se si dimostra che con maggiore perizia avrebbe potuto avvertire la paziente, è colpevole di qualcosa? Dovrebbe sostenere, ad esempio, parte delle spese economiche della donna per la salute del figlio con disabilità?
New Jersey, 1967
Fu la società americana, prima al mondo, ad affrontare in termini giuridici queste domande nell’ormai lontano 1967. In quell’anno, infatti, una donna si rivolse alla Suprema Corte del New Jersey. Aveva contratto la rosolia durante la gravidanza, ma il suo medico l’aveva rassicurata sulle sorti del feto.
Nato poi un bambino con ritardo mentale, la madre ritenne che il medico l’avesse danneggiata. Si tratta del primo caso giudiziario nella storia di una cosiddetta wrongful birth (letteralmente “nascita sbagliata”).
Al posto di quella Corte cosa avreste deciso? Di tutelare il diritto della donna ad autodeterminarsi, leso dal medico? Oppure avreste temuto di assecondare così una visione negativa della disabilità?
Dopo decenni di lotte sociali per l’integrazione delle persone con disabilità, si può dire che una vostra sentenza a favore della donna potrebbe mancare di rispetto alla dignità delle persone con disabilità?
Ma la disabilità è una categoria immodificabile da difendere a priori oppure una condizione in cui versano alcuni soggetti e che, in quanto tale, si può accettare, non accettare e modificare?
Combattuta e imbarazzata, la Corte del New Jersey riconobbe il danno, ma ritenne impossibile quantificarlo. Oggi, le Corti statunitensi risarciscono la donna.
Quando il figlio chiede i danni
Ma c’è un’altra domanda che vogliamo porre, forse ancora più spigolosa. Se il figlio disabile non fosse soddisfatto della propria vita, se preferisse non essere nato, credete che potrebbe lui stesso lamentarsi del danno arrecatogli dal medico, privandolo della possibilità di non nascere? Potrebbe far causa ai propri genitori per averlo messo al mondo? Il risarcimento per i danni subiti dal proprio essere disabile, in quanto valido aiuto per le gravose spese sanitarie e per l’assistenza personale, potrebbe essere considerato doveroso?
Nel caso del 1967, siccome la donna dichiarò che – se l’avesse saputo – avrebbe scelto di abortire, anche il figlio disabile chiese i danni per la propria vita non voluta (wrongful life).
La Corte visse a quel punto un momento di grave imbarazzo: il ragazzo, infatti, non aveva subìto un torto in seguito al quale era diventato disabile. A prescindere infatti dal comportamento del medico, egli lo sarebbe stato. Asserendo che fosse «logicamente impossibile misurare la differenza tra la vita da disabile e la vita non vissuta», la Corte rigettò quindi l’istanza.
E tuttavia quell’imbarazzo rimane ancor oggi nei tribunali, mentre la dottrina americana ritiene che si possa considerare la vita non voluta come un danno e quindi ammetterne il risarcimento.
Il caso di Nicholas Perruche
Il 17 novembre del 2000, in Francia, la Corte di Cassazione ammise il risarcimento da parte del medico a Nicholas Perruche, per essere stato concepito disabile a causa della rosolia contratta in gravidanza dalla madre per errore del medico e perché questa, sapendolo, avrebbe scelto di abortire.
Un’altra sentenza e tanti altri quesiti: affermare che il medico abbia leso la madre nella sua scelta di dare o meno alla luce il proprio bambino, significa presupporre che questa abbia una responsabilità verso il nascituro? È responsabile informarsi preventivamente su eventuali malformazioni? E ancora, chi è affetto da malattie ereditarie, come deve gestire il proprio desiderio di avere figli? Rinunciandovi, affidandosi alla sorte oppure ricorrendo alle tecniche di fecondazione assistita (cioè scegliendo)? Che tipo di responsabilità si assume uno Stato che limita le possibilità di scelta della donna? La vita è un mistero inattaccabile? E come tale, può diventare legge in uno Stato democratico?
Dignità umana e libertà individuali
Non è d’accordo Olivier Cayla, coautore del libro Il diritto di non nascere (Milano, Giuffrè, 2002) insieme a Yan Thomas. Infatti, di fronte alla significativa reazione dei mass media francesi, che diffusero in modo martellante e senza contraddittorio le tesi antiperruchiste (“perversione” della Corte Suprema; violazione di diritto della responsabilità civile, imputando al medico un danno che ha la sua unica causa nella natura; attacco alla dignità umana, riconoscendo il diritto a non nascere; pericolo di un ritorno del pensiero eugenetico ecc.), Cayla sostiene che si trattò di una massiccia campagna ideologica e antidemocratica.
Per l’autore, il diritto alla dignità umana non si può citare a scapito dell’affermazione delle libertà individuali, la cui difesa è la base delle moderne democrazie occidentali.
In altre parole, uno Stato democratico – basato sul diritto positivo razionalmente concordato tra i cittadini – non può fondarsi sul diritto alla dignità umana, perché esso fa riferimento a un diritto naturale non scritto, imperativo, trascendente, autoproclamato.
«Invocare questo ordine naturale o simbolico – è la conclusione di Cayla – permette di ricacciare il bambino nell’indisponibilità della sua natura handicappata, al fine di negargli qualsiasi diritto di denuncia e di imporgli l’obbligo di acconsentire in silenzio alla disgrazia che lo colpisce [grassetto nostro, N.d.R.]».
*Testo tratto dal n. 157 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Per gentile concessione di tale testata.
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