Il dibattito suscitato dalla lettera di Piergiorgio Welby al presidente della Repubblica Giorgio Napoletano sull’eutanasia solleva argomenti spesso relegati in campi oscuri e nascosti, proprio per la poca – presunta – appetibilità mediatica di tali questioni.
L’interesse invece che immediatamente ha suscitato nei cittadini apre uno squarcio incontrollabile al sistema di comunicazione e informativo dei mass media (soprattutto televisivi e commerciali), basato sull’idea che tutto ciò che non è bello debba essere espunto dai palinsesti (o al massimo relegato in fasce d’ascolto assolutamente marginali), perché può disturbare e allontanare gli ascoltatori.
Allo stesso tempo, però, la maniera spesso ambigua e semplificatoria di affrontare questioni delicate che toccano la qualità della vita di tutti rischia di indirizzare la discussione su un sentiero ideologico (cattolici e laici l’un l’altro contrapposti) o, peggio ancora, su un terreno scivoloso che ripropone sottili discriminazioni e prefigura scenari inquietanti per le persone con disabilità.
Di questo vorrei parlare qui, senza la presunzione di rispondere in maniera esaustiva a tutte le questioni sul tappeto.
La richiesta di Welby di chiedere di interrompere la propria vita – tema angosciante che nasconde l’ancor più angosciante situazione di non potersi suicidare da solo – va inquadrato, a parer mio, in una dimensione che superi la visione individualistica del problema per porlo su un orizzonte più ampio.
L’eutanasia non è solo la possibilità di scegliere di morire, in presenza di una condizione di sofferenza insostenibile, ma nasconde un’inquietante prospettiva di trattamento delle persone ritenute un “peso sociale”.
Un primo dato da cui vorrei partire è la crescita esponenziale negli ultimi anni – anche grazie ai progressi della medicina – di aspettative di vita e di sopravvivenza, sia dal lato dei nati con gravi disabilità, che prima non sopravvivevano alla nascita o ai primi giorni di vita, sia dei trattamenti per malattie non ancora debellate, che vedono continui miglioramenti (pensiamo alle malattie rare e a quelle progressive), sia ancora di coloro i quali, attraverso appropriate assistenze mediche, possono prolungare di anni e a volte di decenni la propria vita.
Queste nuove opportunità di trattamento stanno ponendo nuovi interrogativi alla società: è utile spendere cifre ingenti per curare pochi pazienti (una delle voci che fa lievitare i costi del Sistema Sanitario Nazionale sono proprio i trattamenti per le malattie rare…)? Qual è il peso degli anziani non autosufficienti (e degli anziani in generale) sul sistema sociale italiano?
Negli Stati Uniti d’America, dove lo sviluppo della società individualistica basato prioritariamente sul valore economico di qualsiasi cosa (e quindi degli stessi esseri umani) è giunto al massimo livello di crescita, filosofi morali famosi come Peter Singer (ospitato qualche anno fa al Festival della Letteratura di Mantova come una star), hanno formulato il tema in maniera brutale: in una società dove vi sono scarsità di risorse, è morale spendere risorse ingenti per sostenere le persone con disabilità? «Non sembra del tutto saggio – ha scritto a tal proposito in un suo libro – aumentare ulteriormente il drenaggio di già limitate risorse, incrementando il numero dei bambini con disabilità».
Il primo interrogativo da porci è quindi una domanda semplice e diretta: quale livello di accoglienza sociale e di sostegno ai diritti delle persone con disabilità ci offre la società? Una persona che ha una caratteristica socialmente considerata indesiderabile è ben accolta nella nostra società?
Non credo che tali considerazioni “escano dal tema”, perché alla fine Piergiorgio Welby è una persona con disabilità. Non è un caso, del resto, che la tutela del diritto all’eutanasia, regolamentato da leggi in vari Paesi europei, sia stata giustificata partendo proprio dalla condizione delle persone con disabilità e dalla presunta inferiorità della loro qualità di vita.
Purtroppo la risposta è ancora negativa: è basso il livello di accoglienza culturale e sociale garantito alle persone con disabilità; sono limitati e insufficienti i sostegni economici, sociali e tecnologici, del tutto inadeguate le risposte al problema della loro autonomia. Basti pensare come sia stata osteggiata dalla precedente Legislatura del nostro Paese l’idea di una tassa di scopo per sostenere un Fondo per le Persone Non Autosufficienti. In fondo si trattava di assicurare la propria vita, dal momento che la disabilità – come sottolinea l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – è una condizione che nell’arco di una vita vivranno tutti gli esseri umani…
Con la legalizzazione dell’eutanasia non rischiamo dunque di avvicinarci all’idea che la società possa decidere della vita delle persone? E di quali persone in particolare? E quale sarà il destino delle persone con disabilità, le più discriminate ed escluse? Abbiamo fatto tanto per uscire dal ruolo di cittadini invisibili e ora ci riportano a quello di cittadini indesiderabili? Non si corre il rischio ancora una volta che qualcuno decida della nostra vita al nostro posto? Non c’è il timore di una selezione eugenetica facilitata dalla possibilità di scegliere l’eutanasia?
Un secondo elemento che colpisce è il numero di esempi portati dai mass media di persone che hanno deciso di continuare a vivere, anche in presenza di limitazioni funzionali gravissime. Appare quasi incredibile, in questo senso, quanto si siano impegnati i giornalisti, sempre estremamente reticenti a parlare di questi argomenti in momenti ordinari, a trovare casi di persone nelle più disparate condizioni che hanno scelto di combattere per sopravvivere.
Cosa accomuna questi esempi? La ricchezza delle relazioni che stanno loro attorno. La qualità della vita delle persone, infatti, non dipende solamente da una condizione soggettiva e individuale, ma dal tessuto dei rapporti e dei sostegni che la società offre loro.
Spesso la sofferenza fisica è sopraffatta da un vuoto di relazioni e affetti che produce la perdita della motivazione a vivere. E non è solo una questione che riguardi i malati terminali.
Una recente notizia di agenzia ci permette poi di inquadrare tutta la questione in un ambito più vasto: «Ogni anno – secondo dati dell’OMS e dell’Associazione Internazionale per la Prevenzione del Suicidio (IASP) – quasi 900 mila persone muoiono per suicidio; nel 2000 sono morte così circa un milione di persone. […] Negli ultimi 45 anni la percentuale dei suicidi è aumentata del 60% nel mondo e, ad oggi, è tra le tre cause principali di morte tra i 15 e i 44 anni. Infatti, anche se tradizionalmente il suicidio è più frequente tra i maschi anziani, secondo l’OMS, il fenomeno si sta allargando considerevolmente fra i giovani […]. Al suicidio sono associati nel 90% dei casi disturbi mentali (in particolare depressione e abuso di droghe), ma secondo il rapporto sono legati a questo gesto molti fattori socio-culturali; inoltre è più probabile che il suicidio si verifichi durante periodi di difficoltà economica, di crisi in famiglia o individuale, come la perdita di una persona cara o del lavoro. Il fenomeno, secondo l’organizzazione, ha bisogno di un approccio multisettoriale per essere combattuto: i dati dimostrano che prevenire depressione, alcol e abuso di droghe può ridurre il rischio, così come interventi scolastici che lavorino sulla gestione di crisi, miglioramento dell’autostima e la capacità di prendere decisioni positive. E tuttavia, secondo l’OMS, manca la consapevolezza che il suicidio è un problema di grande impatto sociale, discuterne è ancora un tabù e solamente alcuni Paesi hanno incluso la prevenzione di suicidio fra le loro priorità [grassetti nostri, N.d.R.]».
La società in cui viviamo, dunque, è indirizzata al benessere delle persone? I valori che ne stanno alla base sono quelli della migliore qualità della vita di tutti o invece una concorrenzialità senza fine tra i suoi membri fa perdere di vista i diritti umani di tutti? E del vuoto sociale e della solitudine che colpisce un numero sempre crescente di persone chi se ne occupa?
Pur tenendo conto delle condizioni estreme di sopravvivenza della singola persona e rispettando le percezioni individuali di chi le vive, credo sia importante continuare a mantenere una posizione critica verso la società che considera le persone solo dal punto di vista dei vincenti e dei perdenti, che si interroga sempre più su chi abbia il diritto di vivere, che definisce la qualità della vita delle persone sulla base di proiezioni illegittime delle proprie paure.
Se il movimento delle persone con disabilità è un movimento di emancipazione da una società che ci ha escluso e cancellato, credo sia importante rivendicare prima di tutto il nostro diritto alla vita in eguali condizioni di opportunità e senza discriminazioni, come afferma la Convenzione dei Diritti delle Persone con Disabilità recentemente approvata dall’ONU (articolo 10: «Gli Stati Parte riaffermano che ogni essere umano ha l’inalienabile diritto alla vita e prenderanno tutte le misure necessarie ad assicurare l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità su una base di eguaglianza con gli altri»).
Allo stesso tempo dobbiamo con maggiore impegno essere capaci di costruire società inclusive, dove siano rispettate le diversità umane, dove ognuno sia ben accolto e trovi gli appropriati sostegni al godimento dei diritti fondamentali.
Il rischio, infatti, è che la società degli inclusi si arroghi il diritto di decidere chi debba essere incluso e chi possa essere eliminato.
Per quanto riguarda il testamento biologico, ora in discussione in Parlamento, che sembra una possibile alternativa all’eutanasia, mi colpisce l’idea che io possa decidere per una vita futura sulla base delle percezioni (astratte e pregiudiziali) che possiedo adesso.
Nessuno si augura di subire limitazioni funzionali o di essere colpito da una grave malattia, però perché si è tanto sicuri che in questo caso non saremo in grado di conviverci e di costruire una vita di qualità, partendo dall’accettazione di quelle limitazioni? Perché si pensa che una condizione di probabile disabilità sia insostenibile?
Anche qui ritorna una visione artificiale dell’umanità, dove il dolore può essere espunto e cancellato, senza conseguenze, e le persone con disabilità sarebbero condannate sempre e comunque ad un’esistenza assolutamente di bassa qualità.
Perché chiudersi alla semplice idea (e capacità) degli esseri umani di adattarsi a diverse situazioni e di trovare soluzioni appropriate?
Queste riflessioni certo non esauriscono (né pretendono di risolvere) le questioni sollevate dalla lettera di Piergiorgio Welby, vogliono unicamente rivendicare il diritto di parlare di disabilità non solo dal punto di vista degli ostacoli e delle barriere che la società ci ha creato, dello stigma negativo che ci attribuisce, bensì anche da una prospettiva di cambiamento di stereotipi e pregiudizi, sottolineando le capacità e le potenzialità delle persone e ribadendo la necessità di confrontarsi con il movimento delle persone con disabilità, anche sulle tematiche bioetiche, che quasi sempre parlano di noi: mai come in questo caso lo slogan “niente su di noi senza di noi” rappresenta un diritto.
*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).
Articoli Correlati
- Con tanti interrogativi (più che mai aperti) Dieci anni oggi, il 20 dicembre 2006, cessava la vita di Piergiorgio Welby, che qualche mese prima aveva indirizzato all’allora presidente della Repubblica Napolitano una lettera aperta nella quale chiedeva…
- “Irriducibilmente”, Piergiorgio Welby «In una realtà dove tutto si esaurisce in poco tempo, Piergiorgio Welby, a dieci anni dalla sua scomparsa, rappresenta un patrimonio del nostro tempo, una persona che grazie alla sua…
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…