La riforma del collocamento obbligatorio intervenuta con la Legge 68/1999 ha profondamente innovato gli strumenti per l’integrazione lavorativa delle persone disabili. Quali sono state e quali sono tuttora le implicazioni della riforma in termini di predisposizione e adeguamento dei servizi competenti?
Si è passati in altre parole da una cultura burocratica, propria della lista per gli invalidi, ad azioni positive, tipiche dell’empowerment (1) e del recruitment (2), senza una preparazione precedente di modellizzazioni di alcun genere e di provvedimenti adeguati all’accompagnamento, a partire dalla formazione e dall’aggiornamento.
Tutto ciò in presenza di un drammatico mutamento istituzionale che ha trasformato i vecchi uffici per l’impiego e ne ha trasferito le competenze dal livello centrale (Ministero del Lavoro) a quello periferico (Province) [grassetti e corsivi in questa e nelle risposte successive, a cura nostra, N.d.R.].
Che relazioni sussistono fra le caratteristiche dei servizi di inserimento lavorativo e quelle delle politiche sociali di livello locale, nelle diverse zone del Paese? E che ruolo gioca il contesto sociale ed economico locale?
Poiché la riforma ha riguardato l’ambito lavoristico, in una prima fase non vi erano relazioni di sorta, tranne nei territori ove ASL o Comuni – anche sfruttando la Legge 56/1987 – avevano creato i SIL (Servizi per l’Inserimento Mirato delle Persone con Disabilità). Le caratteristiche socio-economiche hanno giocato un ruolo non solo in relazione alla dimensione geografica (Nord-Centro-Sud), ma anche a quella territoriale, differenziando la città dalla provincia.
Sul versante politico, poi, la messa a regime della riforma è stata favorita dalla partecipazione attiva dei movimenti locali delle persone con disabilità e delle loro famiglie e, almeno in parte, dal contesto culturale più o meno fecondo ed evoluto.
Trascorso il periodo di riorganizzazione, i percorsi di accompagnamento si sono attivati, generando forti sinergie tra i livelli istituzionali competenti (Regioni e Province). Larga parte del Centro-Nord del Paese si è allora infrastrutturata, pur con ritardi dovuti alle politiche di contesto locale e all’improvvisazione che talvolta non è stata foriera di relazioni istituzionali feconde con l’ambito delle politiche sociali.
Il divario Nord-Sud si è accentuato inoltre sia per le debolezze del contesto sociale ed economico del Mezzogiorno – caratterizzato da mancanza di opportunità di lavoro e dal sommerso – sia per il clima politico e culturale, ove lo stigma dell’improduttività della persona con disabilità genera la sua completa esclusione dal mercato. Questa situazione di debolezza è anche all’origine di una disponibilità inferiore di risorse per servizi e politiche attive, relative sia al contesto occupazionale che a quello socio-assistenziale.
A titolo di esempio, si può ricordare il taglio al Fondo Nazionale della Legge 68/1999 per il 2006, l’assenza del Fondo regionale, nonché l’uso a fini segreganti delle risorse per i servizi sociali.
Qual è lo spazio occupato dall’operatore della mediazione nell’ambito del rapporto fra politiche del lavoro e politiche sociali a livello locale? E quali sono le difficoltà che hanno rilievo in relazione al buon funzionamento dei servizi?
Le politiche di mainstreaming comportano un elevato grado di consapevolezza della funzione di ogni area istituzionale e di ogni stakeholder (4) e conseguentemente delle rispettive competenze. Occorre quindi discutere di capacità e non di mansionari, in una logica di rete, finalizzata ad obiettivi chiari di inclusione e coesione sociale.
Quali sono oggi le aspettative delle persone disabili e delle associazioni che le rappresentano nei confronti dei servizi competenti per il loro inserimento lavorativo e degli operatori che li gestiscono?
Se l’obiettivo è generare inclusione, i modelli non sono poi così numerosi. Se si tratta di promuovere i diritti fondamentali e le pari opportunità, le risorse sono orientate maggiormente alla qualità piuttosto che alla quantità.
È necessario dunque produrre un modello con declinazioni territoriali, senza disperdere energie nella creazione di una pluralità di approcci locali.
L’autoreferenzialità non è solo un pericolo, essa infatti produce spreco di energie e risorse e, a caduta, marginalità per le persone con disabilità.
Quali devono essere le competenze, le capacità, le attitudini e la preparazione di un operatore impegnato nella mediazione e nell’accompagnamento al lavoro della persona disabile?
Che cosa è ancora necessario fare per innalzare lo standard delle prestazioni erogate oggi nelle varie aree del Paese e come si può raggiungere un analogo livello qualitativo in tutto il territorio nazionale?
Da tempo paventiamo gli effetti negativi del processo federalista in atto nel nostro Paese. Esso produce più spesso la negazione dei diritti a favore delle consorterie locali (cosa già ampiamente sperimentata con la Legge 104/1992), piuttosto che amministrazioni più vicine ai bisogni dei cittadini, specie più deboli, nella logica della welfare community. Da tempo chiediamo che i livelli essenziali siano estesi anche alle prestazioni dei servizi di mediazione lavorativa.
*Presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
**Tratto dalla rivista bimestrale «Servizi sociali oggi – cultura e gestione del sociale», Maggioli Editore, n. 5/2006. Intervista curata dall’ISFOL (Istituto per lo Sviluppo della Formazione Professionale dei Lavoratori). Per gentile concessione della testata e dell’ISFOL.
Note:
(1) Letteralmente “rafforzamento”, applicato alle capacità e alle abilità della persona.
(2) Letteralmente “reclutamento”, qui inteso nella prospettiva del collocamento mirato.
(3) Le questioni legate alla disabilità che “entrano” in ogni politica di impatto sulla società.
(4) Letteralmente ogni “individuo attivamente coinvolto in un progetto”.
(5) Neuropsichiatra, responsabile del Centro Studi per l’Integrazione Sociale e Lavorativa dei Disabili nell’USL 3 di Genova.
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