Si chiama Luca Rossi ed è uno dei maggiori esperti italiani in ambito di formazione e attività cinofile. Egli opera in questo settore da oltre vent’anni e dopo un periodo di studio, approfondimento e crescita personale, all’inizio degli anni Novanta ha fondato il Centro Studi del Cane Italia, con sede logistica a Pellegrino Parmense. Lo abbiamo recentemente incontrato.
Il Centro Studi del Cane è nato circa quindici anni fa. Che tipo di attività proponete oggi?
«Oggi operiamo in vari settori, a partire da quello cinofilo-sportivo, che comprende le attività che prendono spunto dalla conoscenza della mente del cane, dalle sue attitudini e psicologia, fino ai sistemi di apprendimento, interpretati attraverso una tecnica gentile di addestramento.
Al contempo, però, lavoriamo per la preparazione di cani che vengono utilizzati in ambito sociale. I nostri istruttori lavorano con la Protezione Civile in caso di microcalamità, ma anche di crolli o sismi. Abbiamo cani per il salvataggio nautico – con una spiccata abilità nell’acqua – ma anche da valanga.
Sempre all’ambito sociale appartengono poi le nostre attività di pet therapy nei due settori di riferimento denominati Attività Assistita con Animali (AAA) e Terapia Assistita con Animali (TAA). Il primo riguarda pratiche di carattere ludico-ricreativo, rivolte a persone anziane che vivono in case protette, bambini, malati lungodegenti. Il secondo, invece, è una vera e propria forma di coterapia dolce, dove il cane diventa una sorta di “mediatore” in situazioni che vanno dal recupero funzionale post-traumatico di persone che hanno avuto problemi di ordine motorio, a casi di disordini sociali, affettivi, relazionali, i cui destinatari vivono in case per il recupero di tossicodipendenti, carceri, ospedali psichiatrici, reparti oncologici degli ospedali.
Infine, l’altro settore in cui operiamo è quello della dog therapy, che riguarda strettamente la preparazione dei cani che andranno a supporto di persone con disabilità fisica e motoria, per le quali il cane diventa un aiutante per molte necessità quotidiane».
Quali razze si prestano maggiormente alle ultime tre tipologie di attività?
«Noi non facciamo distinzioni di razza, piuttosto ricerchiamo un condensato di doti caratteriali. Dopo aver quindi valutato che il cane sia adatto da un punto di vista fisico e somatico e che sia sano, procediamo ad un vero e proprio test caratteriale.
Frequentemente abbiamo recuperato animali dai canili municipali, purché abbiano delle caratteristiche specifiche e siano quindi di buona indole, con un tasso di aggressività molto basso, una buona capacità di apprendimento e un buon livello di addestrabilità. Tutti parametri, questi, che vengono valutati con attenzione dalla direzione tecnica della scuola e dai nostri istruttori, poiché ogni addestramento è un investimento, che dev’essere fatto bene.
Un cane da pet therapy, infatti, diventa per circa quattordici anni – vita media di un cane, oggi – il compagno di una persona con disabilità e noi non possiamo investire in un anno di formazione a domicilio (i nostri istruttori, infatti, vanno a casa della persona con disabilità per questo periodo), se non di fronte ad un cane che possa dare delle garanzie iniziali sia di natura fisica che caratteriale».
Quali sono i maggiori problemi che incontrate in queste attività?
«Direi fondamentalmente due. Il primo riguarda proprio una generale non conoscenza della dog therapy. Ad esempio le persone con disabilità spesso non risultano essere informate su quello che è in grado di fare un cane da assistenza, come ridurre del 78% la necessità di un’assistenza giornaliera (può aprire e chiudere le porte, i cassetti, riportare oggetti, come il telefono), favorire comportamenti sociali, aumentare l’indipendenza delle persone. Il cane non diventa un pensiero in più per la famiglia, bensì un ausiliario affettivo e collaborativo.
Il secondo problema, poi, è relativo alla pet therapy e concerne il fatto che si tratta di una cosa molto seria che va fatta assennatamente, soprattutto per quanto riguarda le TAA, le forme di terapia assistita. In Italia, invece, poiché in questo settore non esiste un filtro che determini la qualità professionale delle persone, spesso vengono chiamate “situazioni di pet therapy TAA” pratiche che non hanno invece nulla a che fare con questa materia, che è un’attività interdisciplinare complessa e che richiede la partecipazione di numerosi professionisti.
Non basta cioè portare un cane o un gatto in un ospedale per fare pet therapy, serve bensì un gruppo di operatori specializzati, quali il medico, lo psicologo, il fisioterapista, l’istruttore cinofilo, il veterinario che si occupino di tutti gli aspetti riguardanti il cane».
Negli ultimi anni, quanto meno, ha notato un miglioramento nella conoscenza di questa realtà?
«La pet therapy è stata riconosciuta negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, mentre in Italia tale riconoscimento, da parte del Sistema Sanitario Nazionale, è avvenuto solo nel 2003. E questo spiega già molte cose.
Nel nostro Paese molti operatori che hanno la responsabilità e il potere decisionale – compreso il ministro della Salute – dovrebbero prestare più attenzione e magari investire su questo tipo di coterapia dolce. Ancor oggi, invece, gli esempi di pet therapy sono attività di tipo estemporaneo, istituite magari dagli stessi primari dei reparti ospedalieri».
Sono molto elevati i costi per queste attività?
«Alle famiglie i nostri progetti non costano nulla, nel senso che siamo noi stessi che attiviamo delle partnership con fondazioni o gruppi Telethon locali, per riuscire a mandare l’istruttore direttamente a casa della persona con disabilità per tutto il tempo necessario.
Collaboriamo anche con gli Uffici Handicap dei Comuni per identificare l’utenza interessata, sperando che in futuro sia questa stessa a richiedere il nostro tipo di servizio, spingendo gli amministratori a fare la loro parte. Già alcune realtà locali, attraverso l’assessore ai Servizi Sociali o alla Sanità, si sono accollate direttamente i costi dell’istruttore a domicilio. È un inizio…».
*Tratto dal periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) «DM» n. 159 (settembre 2006). Per gentile concessione di tale testata.
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