L’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Arezzo ha deciso di diffondere la ricerca che nel 2005 aveva portato Elda Billi alla laurea in Scienze dell’Educazione, distribuendola sotto forma di libro a tutti coloro che, a vario titolo, lavorano nel campo della disabilità. Il testo è ora in ristampa, edito da Teseo Editore e diffuso anche nelle librerie con normale catalogazione ISDN.
«Il segreto per ottenere buone prassi», spiega Elda, «è che gli enti a vario titolo coinvolti con il mondo della disabilità lavorino in rete. La collaborazione fa risparmiare energie e permette di arrivare allo stesso obiettivo tutti insieme».
Le affermazioni dell’autrice non sono teoriche: le parole scritte nella tesi e le idee sul lavoro in rete corrispondono infatti alla sua quotidiana esperienza personale.
Elda Billi è una ragazza della provincia di Arezzo che nel 1995 si è iscritta all’Università di Siena a Scienze dell’Educazione, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia con sede ad Arezzo. Ha sperimentato dunque in prima persona tutte le difficoltà che incontra uno studente con disabilità, nel suo caso con tetraparesi spastica infantile, nell’affrontare gli studi universitari.
Forte di queste esperienze, con riferimento alla Legge 17 del 1999, nel 2000 Elda ha aperto, insieme ad un responsabile, l’Ufficio Accoglienza Disabili dell’Università di Siena. Poi, nel 2002, in qualità di responsabile, ha aperto anche quello della sede di Arezzo, dove attualmente lavora.
Le abbiamo chiesto innanzitutto di spiegarci nel dettaglio di cosa si occupa il suo ufficio.
«Innanzitutto esso promuove all’esterno la propria esistenza, si pubblicizza, perché c’è chi ancora non lo conosce. In sostanza offriamo un’attività di sportello e affianchiamo lo studente con disabilità nell’affrontare i problemi burocratici e nell’organizzazione dei trasporti per raggiungere la facoltà cui è iscritto. In questo momento ci sono quattro persone che lavorano con un contratto universitario di centocinquanta ore. Si occupano di dodici studenti con disabilità».
Nella tesi parli della tua esperienza lavorativa?
«Mi sono laureata nel 2005 in Pedagogia Speciale, con la tesi intitolata Pregiudizio ed educazione alla diversità, intendendo “diversità” in senso ampio nel primo capitolo e restringendo poi l’analisi alla disabilità nel secondo. Nell’ultima parte, in appendice, ho inserito una relazione sui progetti che ho seguito sul campo negli ultimi dieci anni».
Che cosa sostieni nella tesi?
«Credo che il pregiudizio si superi tramite la conoscenza diretta tra le persone. Infatti, un’esperienza diretta con la disabilità abbatte le paure di chi non ci aveva mai avuto a che fare prima. In questo modo prende avvio un processo di “decondizionamento” che smobilita il pregiudizio, cioè il giudizio formulato prima della conoscenza».
Che metodi di ricerca hai utilizzato?
«Ho utilizzato il cosiddetto metodo narrativo, attraverso cui si registra il vissuto di ciascuna persona che, raccontandolo, lo rielabora. Inoltre ho mi sono avvalsa della “ricerca-azione”, tecnica secondo la quale la ricerca avviene durante l’azione della stessa, in collaborazione con le persone attrici, coinvolte cioè attivamente.
Il mio lavoro non è di per sé una ricerca, ma mette in correlazione metodi diversi. La ricerca-azione innova e trasforma la realtà socio-educativa durante lo svolgimento stesso della ricerca, insieme agli insegnanti e agli educatori, che da semplici utilizzatori dei risultati diventano attori unitamente ai ricercatori professionisti».
Quanto tempo hai dedicato alla preparazione della tesi?
«Più o meno sette, otto mesi».
Come analizzi nel dettaglio il pregiudizio e quali argomenti affronti nel tuo scritto?
«Mi occupo ad esempio della trattazione della terminologia che si utilizza nella disabilità. Le quattro parole più pronunciate sono deficit, handicap, disabilità e diversabilità.
Nel linguaggio comune si tratta di termini utilizzati per “offendere” genericamente un’altra persona. Nel linguaggio appropriato, invece, con deficit ci si riferisce alla lesione strutturale, nel mio caso, per esempio, alla tetraparesi spastica infantile. Handicap è invece una parola riferita al contesto sociale e ambientale. Incontro un handicap ogni volta che non ci sono le condizioni esterne di cui avrei bisogno per agire autonomamente.
Quanto ai termini disabilità e diversabilità, di solito si pensa che siano ottimali, perché nati per essere meno offensivi. E tuttavia il suffisso dis e il concetto di diverso puntano comunque sulla non abilità e quindi su un’accezione negativa».
Cosa preferisci allora?
«Preferisco essere chiamata persona con deficit o con handicap, perché in questo modo non si punta l’accento sul disvalore, ma sulla mia lesione o sull’inadeguatezza della società. In realtà, nella mia tesi, a questo proposito concludo scrivendo che nessun termine è più adeguato di un altro finché ci sarà bisogno di dibatterne. Spero un giorno di non dover più lavorare in un ufficio per le persone disabili, perché non ci sarà più bisogno di fare cose specifiche destinate alla disabilità. In quel momento anche la necessità di un nome per etichettarle verrà meno».
Oggi la tua tesi è diventata un libro. Ci racconti questa esperienza?
«Per il mio lavoro e per l’idea che ho della fondamentale importanza del lavoro di rete, collaboro strettamente con la Provincia di Arezzo. Proprio dall’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia è nata la proposta di riadattare la mia tesi in un libro, che è stato intitolato Pregiudizio e strategie educative.
Il testo è stato distribuito nell’ottobre scorso tra tutti coloro che a vario titolo lavorano con la disabilità, in modo da condividere una conoscenza e promuovere un modo di agire condiviso. Infatti, nella tesi indico alcune tecniche di abbattimento del pregiudizio».
Di che cosa si tratta?
«In particolare ho analizzato da una parte il Progetto Girotondo, realizzato da Patrizia Ciccani dell’Università di Roma Tre (Facoltà di Scienze della Formazione), in collaborazione con un’associazione di persone con disabilità, dall’altra il Progetto Calamaio di Claudio Imprudente, direttore del CDH (Centro Documentazione Handicap) di Bologna.
Sono due iniziative di abbattimento del pregiudizio sviluppate attraverso proposte di incontri di studiosi pedagogisti disabili con le classi. Mentre il Progetto Calamaio parte essenzialmente dall’esperienza di Imprudente – persona affetta da tetraparesi spastica, con ulteriore compromissione della parola – e dalla sua capacità di giocare e far giocare gli altri con la sua diversa abilità, Girotondo è più specifico rispetto alla strutturazione pedagogica».
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