Invalido è il linguaggio!

di Giovanni Padovani
Questa la conclusione di Giovanni Padovani, che annota come anche le più moderne democrazie occidentali preferiscano standardizzare le diversità in definizioni opprimenti, anziché valorizzarle. E questo nonostante l'Organizzazione Mondiale della Sanità o l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite già da tempo abbiano definito la disabilità come una «normale condizione dell'umanità». Ma forse, finalmente, qualcosa sta cambiando...

Joseph Cusimano, Il linguaggio convenzionale, 1991, olio su telaOgni questione «è una questione linguistica», sosteneva il filosofo austriaco Wittgenstein e la mia questione riguarda le persone con disabilità e la percezione che di esse ha la società. Semplicemente come ci considerano, e di conseguenza definiscono, le persone con cui ci troviamo a convivere.
Potrei usare il termine normodotati, ma il concetto di dotazione mi pare cozzare, scontrarsi con caratteristiche innate del genere umano; inoltre preferisco evitare di usare la “normalità”, idea estremamente arbitraria, come misura di riferimento uniforme per distinguere l’immensa diversità e la costante particolarità che compongono l’essenza di una singola persona e ne fanno anche la ricchezza.

Per secoli i disabili (utilizzo ancora questo termine, ormai superato nell’avanzato contesto dell’associazionismo nazionale e internazionale, per poi sostituirlo man mano che procederò col mio ragionamento) sono stati relegati ai margini della società, segregati e discriminati perché inutili ai sistemi produttivi vigenti o inidonei alle frequenti campagne militari sostenute dalle antiche civiltà oligarchiche e schiavistiche.
La percezione negativa legata alle persone nate o divenute menomate, ovvero nate con difficoltà psichiche o relazionali, si trasformava in una proiezione, su di esse, di tutti gli aspetti negativi presenti nell’esistenza umana, una forma di protezione verso ciò che si rifiuta, creando un capro espiatorio, espediente psicologicamente e sociologicamente assai diffuso nella razza umana.
Tali atteggiamenti hanno favorito lo sviluppo di consuetudini discriminatorie che hanno contribuito a creare il pregiudizio nei confronti dei disabili, un forte stigma sociale che ha condotto, disumanamente, all’eliminazione fisica prima (basti ricordare le esposizioni dei fanciulli alle intemperie sul monte Taigeto da parte dei Greci antichi, ma anche i programmi eugenetici nazisti), all’isolamento e all’istituzionalizzazione in spazi sociali neutrali poi.

La Storia (riportata dal Potere, e quindi sorda alle istanze e alle rivendicazioni delle minoranze, ancor più se minoranze invise) ha dunque prodotto una visione sociale negativa perpetratasi sino ai giorni nostri e che ha trovato una sua proiezione nel linguaggio.
La storia delle persone disabili è storia di segregazione, esclusione, cancellazione sociale. Le parole che identificano queste persone sono state scelte da altri e trasmettono quel “mito dell’inadeguatezza” (per rifarmi alle parole usate da Giampiero Griffo su queste stesse colonne) che ha sempre accompagnato il sentire comune nei confronti delle persone disabili (e qui iniziamo ad affiancare la persona all’aggettivo…). 

Ora, le parole scelte dagli altri sono, per forza di cose, connotate negativamente; veicolano quella “semantica sociale” negativa di cui abbiamo delineato brevemente le origini storiche. E quindi tutte le terminologie usate per descrivere le persone disabili sono centrate su un aspetto percepito, la sofferenza, la malattia, lo svantaggio, la patologia, e contribuiscono, con lo smodato ricorso all’aggettivazione, a negare la valorizzazione delle diversità e a cancellare le singole identità delle persone con disabilità (terminologia accettata dal movimento internazionale e che sottolinea l’importanza primaria della persona e la secondarietà delle condizioni psicofisiche), arrivando a interpretare la disabilità come identità stessa di una persona.
Immagine sfuocata di persona in carrozzinaTutto ciò, nonostante autorevoli raccomandazioni di organizzazioni internazionali, quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) o l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, definiscano la disabilità come «normale condizione dell’umanità», condizione che tutti, prima o poi, potremmo dover affrontare.

Termini quali – per iniziare con i più beceri – mongoloide, minorato, invalido, inabile, handicappato, ma anche parole apparentemente rispettose della dignità umana quale l’inflazionato, soprattutto dai mass-media, diversamente abile (una persona che non sa l’inglese dovrebbe essere un “diversamente colto”!?) sono inaccettabili da parte delle persone con disabilità (eccoci di nuovo citare il termine oggi accettato dal movimento internazionale delle persone con disabilità, che pone l’accento sulla persona e solo poi sottolinea una sua caratteristica…) e dovrebbero esserlo anche per le moderne società democratiche occidentali, di cui l’Italia è una gloriosa rappresentante, ma che invece pare non rappresentino adeguatamente le minoranze in esse viventi e preferiscano standardizzare in definizioni opprimenti, piuttosto che valorizzare, le diversità.
Dunque invalido è il linguaggio e non le persone che esso definisce.

Ma in ogni caso non tutto è perduto e non vogliamo cadere nel vittimismo o, ancor peggio, nell’autocommiserazione.
Qualcosa sta cambiando, nel panorama internazionale, a partire dalla recente approvazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità; si auspica che questi segnali vengano recepiti con vigore e, sollecitati dall’attivismo delle organizzazioni operanti nel mondo della disabilità, siano applicati nelle politiche reali dei singoli ordinamenti interni, sia a livello nazionale che locale, riguardanti la vita di tutti i giorni dei cittadini.
Si auspica, inoltre, che l’evoluzione della terminologia che descrive le persone con disabilità si adegui a questi cambiamenti, considerando (come suggerisce ancora l’OMS, col suo documento ICF – International Classification of Functioning, Disability and Health) la disabilità non come un’etichetta negativa da appiccicare sulle persone per stigmatizzarle, ma come prodotto delle caratteristiche e dell’ambiente circostante in cui la persona si trova ad agire, ricordando sempre come la diversità sia un’inestimabile, e troppo spesso sottovalutata, fonte di ricchezza.

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