Sulla vicenda di Ashley, bambina cerebrolesa americana cui i genitori hanno deciso di arrestare la crescita tramite interventi chirurgici e terapie ormonali, riceviamo e ben volentieri pubblichiamo questo contributo, inviatoci dalla madre di una persona con gravissima disabilità, che presiede anche un’associazione
Vorrei esprimere la mia opinione di
genitore e di
presidente di un’associazione che si occupa di famiglie con figli portatori di
gravissima disabilità, sulla vicenda degli interventi chirurgici
demolitori e farmacologici attuati sul fisico di
Ashley, una bambina di 9 anni gravemente disabile, di Seattle negli Stati Uniti.
E subito vorrei dire che si è perpetuata
una grave crudeltà ai danni di una persona non in grado di intendere e di volere e per motivazioni che – mi si permetta di dirlo – sono assolutamente irrilevanti, quasi irreali.
Ho visitato il sito in cui il padre racconta la storia e il perché della decisione di questi genitori. Egli dice che si è trattato di «una via inevitabile», per poter tenere a casa con loro la figlia, perché le difficoltà che la crescita fisica avrebbe portato nell’assistenza quotidiana «non avrebbero potuto essere affrontate dal nucleo familiare».
Hanno fatto quindi uno studio preventivo su quanto avrebbe potuto crescere la bambina e, visto che in famiglia sono tutti alti, ipotizzando che Ashley potesse raggiungere l’altezza di un metro e sessantacinque, hanno pensato di bloccarne la crescita per “gestirla meglio”. Una cosa aberrante anche solo da pensare!
I medici hanno quindi sottoposto la bimba all’asportazione dell’utero, a quella delle ghiandole mammarie, ad un vero e proprio “bombardamento” di estrogeni e, bontà loro, mentre c’erano le hanno anche tolto l’appèndice in via preventiva…
Questa bimba, dunque, già così colpita nella sua integrità fisica e mentale, ha dovuto subire un trattamento medico degno di un lager, che tutti, americani compresi, hanno contestato e contrastato. A lei però questo lo si “doveva” fare comunque, come se fosse un'”aspirazione possibile” subire anestesie, ormoni in dosi massicce, per il solo e discutibile beneficio di essere accudita al meglio nella famiglia in cui è nata.
Ma se la bimba non avesse avuto una disabilità intellettiva i genitori e i medici avrebbero perseguito la stessa strada? Oppure la disabilità intellettiva preclude anche il fatto di essere considerati esseri umani e come tali essere trattati?
Mi sembra che questi genitori che hanno voluto far conoscere la loro esperienza affinché altri possano usufruire «degli stessi benefìci» (parole del blog) abbiano mancato a un fondamentale dovere come genitori di una persona con disabilità: battersi per il riconoscimento del diritto alla dignità, per il rispetto e le cure assistenziali.
Invece di mutilare la loro bella bimba, condannandola a rimanere tale per tutta la vita (solo nel corpo, però), avrebbero potuto pretendere aiuti domiciliari per l’assistenza, psicologici per sostenerli nell’accoglienza di una figlia che diventerà una bella ragazza, ma eterna bambina nella mente, chiedere sussidi.
Certo, hanno scelto la strada più disdicevole, ma tutto sommato più facile, trovando anche medici che li hanno assecondati, suffragati dalla convinzione che i disabili intellettivi siano come “marionette” cui si può fare di tutto, tanto, non possono difendersi!
Non voglio qui riportare le varie motivazioni su ogni mutilazione effettuata, voglio solo dire ancora che sono la mamma di una ragazza di 33 anni con una patologia simile ad Ashley e che noi abbiamo affrontato la crescita fisica di nostra figlia come il normale ciclo vitale di ogni essere umano, cercando di trovare soluzioni ogniqualvolta si sono presentate – e si presentano – problematiche nuove, che sono tante, dal diventare donna al problema di curarle i denti, dall’assicurarle l’igiene personale trovando metodi ad hoc per facilitarci il compito senza traumatizzarla troppo.
Abbiamo stravolto completamente i nostri orari diurni e notturni, abbiamo cercato di evitarle ogni inutile dolore fisico, cerchiamo ancora oggi, che stiamo diventando anziani, di essere noi ad accogliere le sue esigenze e risolverle e non viceversa; ci stiamo battendo affinché il “dopo di noi” sia un proseguimento della nostra vita insieme e non uno sradicamento dal suo contesto abituale, perché amare un figlio, anche se disabile, non è cercare la via più facile, ma trovare le soluzioni che permettano di offrirgli il meglio sotto ogni profilo, e principalmente quello umano, anche quando non ci saremo più noi.
Spero a questo punto che l’Italia, che spesso ama guardare all’America come modello da seguire, questa volta non cerchi di imitare e non segua il comportamento di quei genitori e di quei medici che hanno creato un vero e proprio “bonsai umano”, soprassedendo ad ogni rispetto per un essere umano.
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